talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

30 marzo 2006

Il pagellone di Oderisi


L’altra sera abbiamo ripreso a giocare a calcetto, a Oderisi da Gubbio, nel campetto più sintetico che c’è in tutta Portuense.

Erano quattro mesi che non si giocava. La stagione invernale e l’infortunio di Antonio bomber Tappi avevano interrotto il solito rituale, prontamente ripreso. A parte che c’ho l’acido lattico anche nelle vertebre, mi sono tornati i duroni sotto i piedi, soprattutto quelli ai lati dei ditoni, a parte che mi fa ancora male la testa che l’altra sera c’era un pallone che sembrava un pezzo di titanio a forma di sfera – ora capisco perché i calciatori sono sempre un po’ svampiti, secondo me a furia di colpire di testa si lesionano il cervello – a parte che è stata come sempre partita vera, a parte che ieri ho sentito Raffo e anche lui sta come i pazzi, mezzo rotto dopo la partita, vorrei dare il mio giudizio generale sul partitone sottolineando la prova maiuscola di Paolo T.

Belin, l’altra sera Paolo T. sembrava un airone, propongo che il suo nuovo soprannome calcistico, sia l’Airone. Con quelle leve lunghe, bastava che allungasse la palla e le prendeva tutte. Poi, ha fatto una sfilza di gol da paura, ma gol di alta fattura, al volo, di destro, di sinistro, dalla distanza, di testa – anche lui in effetti mi sembra un po’ provato psichicamente da tutti i colpi di testa che avrà dati in vita sua – complimenti a Paolo T. Però, mi correggo, non possiamo chiamarlo l’ASirone perché esiste già, è la punta del Palermo, come si chiama dai, non ricordo: ah, sì, Caracciolo. Quindi, se siete d’accordo, Paolo T. diventa la gru, la gru di Oderisi da Gubbio. Che tra l’altro è più realistico, perché altre volte sembra una gru di quelle per costruire le case, fermo. Ma l’altra sera no, è stato nettamente il migliore in campo per la redazione sportiva di Sky (non so quanto attendibile per la presenza contemporanea di Luca Vialli e Roberto d’Agguanno. La D’amico, mio caro Paolo T., non c’era, peccato per te, se non ti intervistava fuori dagli spogliatoi).

Prova maiuscola di Mister De Siena, che come sempre quando parte sulla fascia è imprendibile, poi detta gli schemi anche dopo 140 giorni di inattività. Si vede che lo spogliatoio è unito. Una menzione importante per bomber Tappi, che rientra alla grande dopo un infortunio che grazie alle infiltrazioni del dottor Mertens – lo stesso che curò a suo tempo Van Basten, abbiamo fatto una colletta per mandarti a Bruges a operarti, bomber Tappi, però per te questo ed altro, poi con le stampelle di Minchillo te la sei cavata bene, mi dicono – una preghiera a Raffo: per favore, Raffo, per quanto riguarda il capitolo maglie e soprattutto colore della maglia: se sei daltonico, sono problemi tuoi. La prossima volta che mi porto la maglia nuova della Germania – bianca, ok, è vero che giocavo con i colorati, però e che cazzo - quando cazzo me la potrò mettere per giocare la maglia della Germania nuova fiammante, che gioco sempre con la squadra dei colorati? La prossima volta faccio una richiesta: vi prego, voglio tanto giocare con quella maglia addosso, ve la mettete voi la maglia colorata? E poi, Raffo, come hai avuto il coraggio di chiedermi di cedere la maglia bianca nuova, c’è ancora l’etichetta, a uno dell’altra squadra? Ma sei scemo?

Altre note tecniche, beh, come sempre il sogno della vittoria per Mister De Siena si è infranto di nuovo contro il muro della realtà. Però, da avversario – e non da nemico, come ama dire Fausto Bertinotti in tivù – riconsoco che una delle cose più belle del calcetto è vedere la faccia di Mimmo, mister Mimmo De Siena, che continua a crederci e a illudersi che prima o poi potranno farcela. Mi sembra uno di quegli americani, forse era Luther King, che dicono “I have a dream….”. E’ sempre bellissimo pareggiare all’ultimo minuto, vedendo gli avversari che, dopo l’illusione della vittoria, prendono mestamente la via degli spogliatoi. Perché hanno paura di perdere. Bello.

Detto questo, dimostrando la mia sportività assoluta – giuro che mi fa ancora male la testa dopo il colpo di testa – menzione d’onore per Emiliano, l’unico numero dieci della storia del calcio, perché è un numero dieci dentro, nello spirito, che gioca con la maglia numero nove.

Tornando alle infrastrutture che ci accolgono, come sempre il custode ci prende per il culo. Gli spogliatoi sono da zero a zero. Il filo d’acqua calda che scende negli spogliatoi è una vera presa per il culo, come quando bomber Tappi irride tutta la difesa avversaria saltandoli come birilli, poi prende il palo. Ma ve ne siete accorti o no che bomber Tappi – è mio amico, ha giocato nelle giovanili del Foggia, con Padalino – certi gol li sbaglia apposta. Ultima annotazione per il piede di Raffo: lo so che il tuo gol, Raffo, quello che ti sogni ogni sera di fare, prima di addormentarti nel tuo piccolo lettino, è di tirare una lecca dal limite che is insacca all’incrocio. Ma dopo ventott’anni che giochi, e ci provi tutte le volte e al massimo la spari sette metri fuori, contro la grata, dovresti cambiare film. Non so, meglio una puntata di culo che rimbalza sulle gambe di un solido Federico Leone – detto fra noi, lui è Franz Baresi in confronto a Pietro che invece è Beppe Baresi, volendola mettere sulle similitudini dei fratelli – e che di culo entra, o no, Raffo.

La più grande soddisfazione per me l’altra sera è stata quando, forse ceffando l’ennesimo gol di destro – quando sei mancino non c’è una minchia da fare, di destro fai solo danni – mi giro e vengo assolutamente osannato dalla mia squadra che mi applaude in piedi sugli spalti – per applaudirmi sono usciti dal campo e sono andati al primo anello di Oderisi da Gubbio – urlando in coro “quello che conta è il gesto tecnico, non importa se ceffi un gol determinante per il risultato finale sulla linea di porta, ceh basterebbe spingerla con un alito di vento. Se non c’hai il destro è lo stesso, ti vogliamo così”. La sera, nel mio lettino, mentre già sentivo i primi dolori dell’acido lattico assalirmi i polpacci, ho ricordato questo spirito di gruppo e mi sono carezzato il destro, mentre con il sinistro mi grattavo un polpaccio che mi prudeva.

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29 marzo 2006

Al bar


Entro al bar dopo la mia solita passeggiata a Campo dei Fiori. Ho finito il mio panino e la mia bottiglietta d'acqua, posso entrare al bar per il caffè di rito. Arrivo al bancone, c'è un po' di gente. Aspetto il mio turno, poi si presenta un cliente. "Cosa c'è in quel rotolo?", chiede il cliente al barista. "Prosciutto e formaggio", risponde il barista.

"Che formaggio?", chiede ancora il cliente. "Formaggio", risponde il barista. "Ma è stracchino?", chiede ancora il cliente. "No", dice il barista, che intanto deve curare almeno quattro caffè alle sue spalle, in fase di preparazione.

Mentre si gira per prendere i caffè pronti e distribuirli alla gente che sta aspettando, il cliente - che cominicia già a starmi ampiamente sui coglioni, meno male che non faccio il barista perché durerei al massimo due giorni - chiede al barista, in mille faccende affaccendato: "che me lo fa vedere di profilo il rotolo?".

Il barista solleva sto rotolo - una piadina arrototolata con dentro foglie di lattuga, prosciutto e sotto, invisibile, il formaggio, che non è stracchino - così il cliente può vederlo di profilo, glielo ruota anche di 360° cosicché lo possa vedere davanti, dietro e di lato. Un panino. "Per una volta non le fa male", aggiunge il barista, che interpreta le domande insistenti del cliente per paura
di ingrassare, forse, o di essere avvelenato.

In realtà, il cliente questo rotolo proprio lo vuole. Soltanto che chissà perché (forse è a dieta) rompe le palle a raffica per sapere l'esatta composizione degli ingredienti. Alla fine, come se si trattasse di una pesantissima concessione, il cliente ordina :"sì, mi scaldi il rotolo". Il barista lo mette nella piastra e per evitare altre rotture di coglioni dice al cliente - un uomo sui cinquant'anni,
capelli corti bianchissimi, pizzetto, abbronzato, giacca di pelle nera, alto, slanciato, curato nell'aspetto, serissimo, nel senso che non ha sorriso un attimo in tutta questa lunghissima trattattiva sul rotolo - gli dice "vada pure a sedersi che ci vuole un po' di tempo, è una cosa spessa questo rotolo, ce ne vuole perché si scaldi".

Secondo me, il barman lo fa perché non lo vuole lì, al bancone, che il cliente, che ora che ci penso assomigliava un po' a Franco califano stile Califfo, magari si metteva lì a controllare la cottura del rotolo e non lo mollava un attimo. Nel frattempo, è pronto il mio caffè, prendo lo zucchero di canna e me lo bevo.

Arriva un'altra cliente e chiede al barista: "come sono le fragole?". Da notare che
le fragole messe nell'espositore refrigerante, classico espositore da panini e dolci da bar, sono ancora confezionate nelle vaschette classiche delle fragole. Io le avrei risposto "belin sono fragole, come vuoi che siano? Sono dolci e sanno di fragola".

Il barista, che è un professionista serio, dice "sono fresche (chi ammetterebbe che
invece sono surgelate?). come le vuole? con la panna?". La cliente risponde che le vuole lisce. il barman conclude "ok, gliele preparo con un po' di limone e zucchero". Il barista è un medium, la cliente sprizza gioia da tutti i pori, perché lui ha interpretato i suoi desideri: le aggiunge un po' di limone e zucchero - che non è panna - però le dà qualcosa di dolce. Lei stessa, da notare, lo zucchero non
l'aveva chiesto.

Intanto, il tizio del rotolo non ce la fa e continua ad aggirarsi dietro di me, che sto finendo rapidamente il mio caffè, e controlla con la coda dell'occhio che il suo rotolo non bruci. Il barista lo vede benissimo, finge di ignorarlo, il rotolo si scalda, il tizio del rotolo paga, io esco, le fragole sono ancora nella confezione di plastica. Ancora per poco, la cliente delle fragole fissa la confezione e mentre cammina mi scontra, mi chiede scusa.

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27 marzo 2006

Da quando ho aperto il mio blog


Da quando ho aperto il mio blog invece di scrivere a qualcuno scrivo al mio blog. Da quando ho aperto il mio blog scrivo di merda. Diciamocelo, da quando ho aperto il blog mi sono montato la testa e penso di essere diventato uno scrittore vero, uno di quelli che sono convinti di avere delle cose importanti da dire e peggio ancora pensano bene a come le scrivono. Da quando ho aperto il blog, quando scrivo non faccio più errori di battitura perché rileggo dieci volte e correggo gli errori e penso anche alla sintassi e alla punteggiatura.

Pensa che sono diventato talmente figo, io e il mio blog, che oggi mi sono letto un articolo sull’uso del punto e virgola, che non l’ho mai usato in vita mia e sul mio blog l’ho già usato, io e il mio cazzo di blog di merda. Un articolo sul punto e virgola, ti rendi conto, di Beppe Severgnini su Io Donna della settimana scorsa. Ero al cesso, non ero ancora uscito a comprarmi le parole crociate. Oggi è domenica e ho dovuto anche lavorare, non ho parole.

Da quando ho aperto il mio il blog sono grave. Belin, non ci siamo, da quando ho aperto questo cazzo di blog penso di essere diventato uno scrittore, uno che si deve sforzare per dire delle cose fiche, io e il mio blog del cazzo che c’ha un colore che fa vomitare un cane cieco, il mio blog. In più, da quando ho aperto il blog non mando più le mail ai miei amici. Butto tutto dentro nel mio blog e mi sembra di essere come uno di quelli che ormai, soltanto perché mi sono aperto il mio blog – che te lo apri in sette minuti netti se vuoi - allora mi devo dare un tono. Sono un blogger. Che oggi ho letto su Io Donna che c’è una cinese, una blogger cinese, che si è aperta il suo blog e lo leggono undici milioni di lettori e lei scrive di tulipani. Belin, sono grave, sui tulipani, meno male che è in cinese che i tulipani puzzano più dell’angolo di via Merulana che quando aspetti che diventi verde per attraversare c’è sempre puzza di piedi.

E’ un mistero, ma all’angolo via Merulana Largo Brancaccio, verso l’ufficio postale, c’è sempre puzza di piedi. Una puzza di pedi da panico al volante, come se proprio lì Tito o Marco Aurelio, non mi ricordo che dei due, insomma il padrone dell’enorme piedone di marmo quell’imperatore, il piedone di marmo, dai quello che c’è in tutte le minchia di cartoline di Roma per turisti con il gatto sdraiato mollemente fra i ditoni, proprio come se l’imperatore si fosse tolto proprio lì, nell’angolo di via Merulana, un’enorme Superga dopo duemila anni che se l’è tenuta senza calze per duemila anni addosso. Ecco, quella puzza di pedi lì. Puzza di piede millenaria con Superga senza calze.

Da quando ho aperto il mio blog mi sento bravo, mi sento più bravo che cerco le foto per i racconti, perché adesso sarei uno che scrive racconti, e cerco le foto per il mio blog. Che in realtà non le cerco mica io, le cerca Raffo, il mio amico che mi ha creato il blog, e da quando ho aperto il mio blog mi censuro perché sono diventato un bloger del cyber spazio e allora non scrivo mica più come prima, scrivo da blogger. Che secondo me i blogger non sanno scrivere, i blogger. Buttano dentro nel blog tutte le cazzate che gli vengono in mente, i blogger, che secondo me gli puzzano i piedi anche a loro, che secondo me i blogger usano le Superga senza calze anche d’inverno, sti blogger.

Che vorrei vederne uno di blogger, dal vivo, che secondo me i blogger sono come gli inarco- insurrezionalisti, non esistono per davvero. Che secondo me gli anarco - insurrezionalisti sono come l’uomo di Atlantide, non esistono per davvero. Hai mai visto un uomo che ha le dita palmate, come l’uomo di Atlantide? Io no. Hai mai visto un anarco insurrezionalista che lascia un ordigno fabbricato artigianalmente fuori da qualche caserma dei carabinieri in Sardegna, un ordigno inesploso? Io no. Però sembra che l’Italia sia piena di piste anarco insurrezionaliste, l’Italia.

L’anarco-insurrezionalsita è una categoria di gente che secondo me se l’è inventata il ministro Pisanu e la tira fuori quando non sa che pesci pigliare, cioè molto spesso. Se l’è inventata mentre guardava una puntata dell’Uomo di Atlantide, alla tivù, che secondo me Pisanu, il ministro Pisanu che gli ronzano sempre gli elicotteri sopra il Vicinale che li sento sempre che passano che vivo a un chilometro dal Viminale, c’ha tutta la serie in cassette Vhs, dell’uomo di Atlantide. Comunque, adesso che c’ho il blog, magari faccio un forum e mando online sto sondaggio: se hai la foto di un anarco-insurrezionaista mandamela, che se me la mandi vinci centomila accessi gratis al mio blog. Oppure ti metto in contatto con il ministro Pisanu, che ti registra la serie dell’uomo di Atlantide, che ce l’ha tutta in cassetta.

Che prima, prima di aprirmi il mio blog, non mi censuravo mica. Scrivevo tutto quello che mi veniva. Poi, prima mi veniva tutto così. Adesso no, non mi viene più così, mi devo sforzare per scrivere. Da quando ho aperto il mio blog penso alle storie prima di scriverle. Controllo la struttura, guardo la grammatica, penso a lasciare gli spazi fra le parole. Insomma, da quando ho aperto il mio blog mi rompo il cazzo, scrivo di merda, anzi mi sa che sono diventato un bel rompi cazzo, e scrivo di merda. Scusate, da quando ho aperto il blog.

Da quando ho aperto il mio blog invece di scrivere a qualcuno scrivo al mio blog. E poi lo leggo solo io, il mio blog. Ieri ad esempio ho costretto Raffo a scaricarmi tre ore le foto nel mio blog. Poi, leggevo le storie che ho scritto da quando ho aperto il mio blog e sono delle palle micidiali, delle vere pompe di racconti leziosi che li potrebbe scrive appunto un blogger.

Scusate, da quando ho aperto il mio blog. Non so com’è potuto accadere. Non lo so proprio, sono diventato come quelli che aspirano, che aspirano, che si ispirano, si ispirano e poi scrivono cagate. Come quelli che poi quando trovano l’ispirazione, poi quando trovano una particina in un filmetto di serie B se la tirano, se la tirano. Non so cosa mi è successo, che da quando ho aperto il mio blog mi sento online, mi sento che c’ho delle cose importanti da dire, che faranno svoltare la gente, che alla fine da quando ho scritto il mio blog nessuno mi manda più nemmeno uno straccio di mail. Perché almeno prima del mio blog invece scrivevo alla gente, avevo delle cose da dire, adesso invento le cose. Si vede che la gente è contenta che ho aperto il mio blog così non rompo più il cazzo nella posta, io mi sento più solo, da quando ho aperto il mio blog.

Bhè, gli do ancora una settimana al mio blog, però se continua a farmi questo effetto, che il mio blog mi allontana dalla gente, allora lo chiudo, il mio blog. Oh, blog del cazzo, guarda che come ti ho creato – che ti ha creato Raffo - così ti distruggo, il mio blog, che c’ho voglia di riprendere a spammare la gente, a rompere il cazzo a tutti via internet come ai vecchi tempi andati, fino a una settimana fa, prima del mio blog. Che scrivo di merda da quando ho aperto il mio blog.

Allora, ti racconto un po’ di cose che mi sono successe in sti giorni. Giusto per tentare un riavvicinamento, che detto fra noi senza di te sono diventato un bel rompi cazzo. Che adesso mi sto facendo preparare dalla Pina spaghetti ajo ojo e peperoncino – mi ha appena chiesto se voglio pecorino o parmigiano, sono troppo un para culo – e dire che non sono nemmeno capace a metterci le foto da solo, nel mio blog, che poi se lo guardi bene fa cagare, il mio blog, compreso il nome da megalomane. C’ha un colore assurdo, il mio blog, un verdolino vomito di cammello con la gastrite, che non beve un po’ di latte da almeno tre mesi nel Sahara. Il mio blog.

Poi, allora, abbiamo appena visto un bel film, si intitola “La damigella d’onore”, che c’è una pazza che però è fichissima, che irretisce un ragazzo, un bravo ragazzo di provincia, per amor suo, di lui, lei, la damigella d’onore, che assomiglia un po’ a Bjork ma è molto ma molto più fica – che nel film scopano tutto il tempo – bhè, lui come ricompensa che per la prima volta in vita sua scopa come dio comanda, la denuncia alla polizia. E c’è un cadavere in putrefazione al secondo piano della villa di lei, l’ha ammazzato lei che è pazza e l’ha ammazzata per gelosia – come la capisco, io e il mio blog - che nel cadavere, truccato benissimo da Oscar, si vedono tutte le vene blu in rilievo del cadavere in putrefazione. Chissà che puzza, in quella villa, ma è un film coglione, è fiction, che secondo me da quando ho aperto il mio blog mi sono rincoglionito di brutto. Belin.

Belin, oggi la Samp, sesta sconfitta consecutiva. Va male, sul fronte del calcio, basta così, no comment. Che Raffo mi ha detto che nei miei racconti – ma è ovvio, sta parlando di quelli che ho scritto da quando ho aperto il mio blog, che prima mi convinco sempre di più che scrivere sapevo scrivere, adesso mi sono come dimenticato – scrivo sempre a sproposito troppo di calcio. Ma non va male solo lì, nel capitolo calcio cioè nel capitolo Samp.

Va di merda pura anche sul lavoro. Oggi, ho dovuto lavorare (domenica pomeriggio) un bel freelance, che se no poi non c’ho i sacchi per pagarmi il medico, che curarsi il cervello costa, belin se costa andare in via Opita Oppio. Poi, c’è un altro problema non sogno più, non sogno. Il medico dice che devo rispettare i tempi dell’inconscio, ma guarda, dottore, che io ti pago anche quando vengo lì a sparare cazzate, almeno sognare, almeno. Che le cazzate le sparo anche gratis, almeno sognare.

Ieri sera siamo andati a magnare come cessi con l’ingorgo da Bisteak, il miglior ristorante di carne di Roma e dintorni, in via Fosse Ardeatine. Che sembravo Obelix, mi sembravo Obelix lì da Bisteak. Da Bisteak, mi sono ordinato una fiorentina con l’osso da settecento grammi, meravigliosa, la carne è debole, poi di fianco, di contorno al bisteccone con l’osso cottura media, una cipolla al cartoccio e patatine fritte a sfoglia, che sembrano patatine normali, la patata tira, però calde e non a bastoncino.

Ho goduto, culinariamente parlando e magnando, poi c’abbiamo avuto culo che non c’era posto, ce ne stavamo andando, eravamo lì davanti ma ci hanno richiamato che si è liberato un posto all’improvviso e ci hanno subito richiamato. Che culo, che magnata, che lì in coda per ordinare la carne, che dentro c’è questo banco da macellaio, dentro nel ristorante, c’era anche Andrea Pezzi. Mi dirai, chi se ne fotte. Bhè, hai ragione, solo che uno come Pezzi, che secondo magnare gli piace, se ci va lui capisci meglio che tipo di carne buona c’è. Belin, se ci va quel grassone di Pezzi, belin che panza che c’ha, allora vedi che non ti racconto cazzate.

Ok, abbiamo magnato come cessi. Eravamo in sette, sette cessi. Sono contento perché c’erano un sacco di donne con noi al tavolo e quando vedi le donne che mangiano come cessi delle gigantesche slerfe di carne da paura mi metto di buon umore. Che le donne al tavolo sembravano Obelix con le tette. E non ci siamo nemmeno risparmiati sul golaggio. Ah, che bello, pancia mia fatti capanna, che alla fine io non glielo devo nemmeno dire.

Raffo anche lui ha mangiato come un cesso, che di pomeriggio, sabato pomeriggio, me lo stavo menando a morte. L’ho chiamato per la storia delle foto del mio blog. Stava dormendo, di sabato pomeriggio. Sabato pomeriggio, splende il sole e Raffo cosa fa? Dorme. Belin, non gli ho nemmeno chiesto il permesso e gli ho detto che stavo arrivando da lui, che almeno invece di dormire, che non aveva voglia di uscire a farsi una passeggiata che c’era il sole dopo sei mesi che a Roma piove sempre, un tempo di merda a Roma che tutti pensano che c’è caldo e c’è sempre il sole a Roma, ma non è vero. Che ha sempre piovuto da sei mesi, con tutte le pozzangherate in faccia che mi sono preso quest’autunno-inverno da macchine che passando mi hanno inondato ci potrei riempire un’autocisterna per l’Africa senz’acqua.

Così, Raffo invece di dormire inutilmente di sabato pomeriggio con il sole, mi poteva mettere le foto nel mio blog. Arrivo a casa sua, lì dietro piazza Navona, e Raffo mi prepara il thè verde. Non ho parole il thè verde, non lo bevo dai tempi che me l’offriva la madre di qualche amico con cui giocavo a subbutteo ai tempi delle elementari, il thè verde. Sono talmente allibito dal thè verde che quasi mi dimentico che prima, poco prima, mi era toccata la spesa al Sir. E’ sabato, spesa. Che mi sono comprato non so quanta pizza bianca, che me la sono calata tutta oggi, domenica, che ho dovuto lavorare e la Pina anche lei a lavorare, di domenica, solo che lei è dovuta addirittura andare in ufficio.

Sti pezzi di merda di datori di lavoro, che oggi c’era la maratona a Roma, 50.000 persone da tutta Italia, a meno di un chilometro da casa mia e non me ne sono nemmeno accorto che non ho avuto tempo di mettere il naso fuori di casa a lavorare ero, che l’unica cosa che ho fatto oggi, la cosa più emozionante della giornata, è stata uscire a comprarmi La Repubblica e le parole crociate, che mio nonno che è morto vent’anni fa è più attivo di me, mio nonno lui e le sue orecchie a sventola. Uh, che emozione dal giornalaio con la copertina di Chi l’ha visto davanti agli occhi. Io e il mio blog di merda.

Che tra l’altro ieri ho scritto un racconto, si intitola Gianni il lavapiatti, che fa cagare. Mi sono anche impegnato. L’ho riletto, fa cagare. Che poi quel Gianni non esiste, è ovvio che sono io, e poi a me lavare i piatti mi fa cagare, non sono mica Gianni il lavapiatti, un minchione sto Gianni che invece di dormire la domenica mattina lava i piatti. Nella realtà, io le pile di piatti le faccio crescere come costruzioni del Lego, che alla fine ci sono delle incrostazioni sui piatti da lavare che per toglierle altro che Nelsen piatti diluito, ci vuole l’ammoniaca o il veleno per topi che ci crescono sopra i funghi e il muschio, sui piatti del lavello.

Che se lo diluisco, il Nelsen, le croste non vengono via nemmeno con lo scalpello. E le inondazioni in cucina le faccio semmai perché ci sono talmente tante stoviglie da lavare accatastate lì che quando lavo è ovvio che viene fuori tutto, l’acqua non ci sta dentro nel lavello. Gianni il lavapiatti, ma chi è un minchione che lava i piatti a casa d’altri, quando lo invitano a cena, poi per di più se c’è la lavastoviglie.

Ieri andando a piedi a casa di Raffo sono passato a Piazza Navona, c’era un bordello di turisti, che secondo me quello che ha detto Bush o chi per lui, che ha detto ai turisti americani di non andare in Italia che sotto elezioni è pericoloso, non l’hanno proprio cagato nemmeno di striscio. Non l’hanno cagato perché ieri a piazza Navona c’erano più turisti americani che americani veri nella città di Dallas. Non so se mi spiego. Un mare di americani, dappertutto, che c’era il tizio che fa Michael Jackson con le dita e lo stereo che secondo me ieri ha guadagnato 30.000 dollari ieri a piazza Navona, lui e Michael Jackson.

Poi, c’era una madre che cazziava – oh, il correttore del word è stronzo, volevo scrivere cazziava e me l’ha corretto in razziava, meno male che me ne sono accorto, sto cazzo di correttore del word - la figlioletta perché si stava per macchiare con il gelato. Ma belin, le compri il gelato e poi glielo meni che c’è troppo gelato e lei rischia di macchiarsi? Ma cosa sei scema? Pensaci prima, mamma stronza che non sei altro, prima le compri un gelato da sei euro, poi le impedisci di buttarcisi dentro di testa? Cogliona di una mamma stronza, io e il mi blog.

Che se scrivi cogliona il correttore di word te lo corregge in fogliona. Ma il correttore di word, ma chi cazzo l’ha impostato il correttore di word? Il fratello di Buttiglione? Il papà di Casini? Lo zio di Amanda Lear? Che quando scrivo minchia viene fuori mischia, con i correttore di word. Che ogni volta che voglio scrivere non me ne frega una minchia invece viene fuori non me ne frega una mischia. Ma vaffanculo al correttore di word e al figlio di Buttiglione o chi per lui, che quando scrivi Buttiglione il correttore di word te lo corregge il Bottiglione, il correttore automatico di word.

Sto già un po’ meglio adesso, io e il mio blog. Che tra l’atro ci siamo stati tre ore a mettere le foto, ieri pomeriggio con Raffo, che mentre mi metteva le foto nel frattempo faceva le seguenti centomila cose: chattava; - belin, punto e virgola, lo vedi che non ci siamo mica, io e i mio blog? - guardava una trasmissione in americano nella web tivù; mi raccontava quattro sogni di seguito che ha fatto chiedendomi l’interpretazione junghiana in chiave comportamentista – oh, Raffo, guarda che io sono un tifoso del Doria, mica una tutta ciccia e brufoli, belin - che poi tra l’altro io sono tutto incazzato infiammato perché invece da un po’, da quando vado dal medico dei sogni e lo pago come una banca svizzera con gli interessi zero, sono in sciopero di sogni; - di nuovo punto e virgola, sono gravissimo, io e il mio blog - che invece li dovrei fare come il pane con il cioccolato a merenda, i sogni; che vado dal medico dei sogni e per pagarmi il medico dei sogni, dove vado fondamentalmente per raccontargli i sogni, non sogno più ma devo lavorare extra per questo faccio i freelance la domenica pomeriggio. Belin, ti rendi conto, che di domenica pomeriggio nemmeno do lavorava, che secondo me dio è milanista o juventino e comunque tutto il calcio minuto per minuto gli arriva nell’etere, eccome se gli arriva a quel milanista di dio.

Mi sono calato almeno tre etti di bavette ajo ojo peperoncino e ora mi sento meglio, la Pina è un tesoro culinario.

Poi, cose divertenti sto weekend, poche. Allora, ieri sera dopo Bisteak siamo andati a un locale. Titolo della serata: “Non solo single”. Belin, c’era di tutto. Una carogna di scopare generalizzata, uomini e donne dai trentacinque in su con più testosterone in corpo di me. Ti lascio dire. C’era una in pista - musica dance oscena, volume bassissimo, ci voleva l’apparecchio acustico per sentire qualcosa, era una ex cripta di un monastero dolciniano il locale a Salita del Grillo - con minigonna bianca, cannottierina bianca, capelli lunghi neri, stivali, che sembrava che ti diceva da tutti i pori: “trombami”.

Però, quando il JR del locale, un lumacone con capello liscio longuette, felpa con scritte in americano che non mi ricordo ma non importa poi tanto - il testo modello felpe Fiat di Lapo Elkann - scarpe giuste Hogan oppure stivale, ma non importa, basettine sfumate rasatine, caccaro come pochi fino all’ossobuco del midollo osseo (vuoto, secondo me). L’uomo perfetto per lei, insomma, quando lui la avvicina per lumacarla lei non lo caga nemmeno di striscio. In compenso mi ballano sia lui sa lei a un centimetro per mezzora. Lei mi struscia tutto il davanti addosso, senza però guardarmi in faccia nemmeno un attimo, che io non posso fare niente di concreto, e boh, chi ci capisce qualcosa me lo spieghi che da quando ho aperto il mio blog mi sembra che mi sono anche un po’ rincoglionito. Lui mi sembra che mi lumacheggi a me, ma forse è solo una mia impressione, io e il mio blog.

Altra cosa divertente del weekend, niente. Ah, sì, siamo andati dal tizio che affitta dvd, da Gesù di Colle Oppio, hai presente. E abbiamo preso in prestito questo film francese, di cui ti parlavo prima, “La damigella d’onore”, lui, Gesù di Colle Oppio, l’aveva detto che non era il massimo da vedere. Però, la Pina si era fissata, allora l’abbiamo preso. Bello.

Poi, ho letto sul giornale che l’Italia è allo sfascio. Che scoperta. Poi, ho letto tutti i commenti al Caimano, voglio andarlo a vedere anche se lui, Moretti, odioso è odioso, lui e il cinema Sacher che ci sono i sedili più scomodi d’Europa. Che il Sacher è all’aperto mi ricordo una volta d’estate, mi accendo una sigaretta. Una stronza dietro voleva che la spegnessi. Le ho detto se ti da fastidio il fumo vai in un cinema al chiuso, stronza, e mi sono voltato. Non ha detto più niente e mi sono fumato sette sigarette in tutto il film, divertente, era Il mio grosso grasso matrimonio greco. Nemmeno suo marito mi ha detto niente quando ho sfanculato sta rompi cazzo, che cazzo vuole, vai al cinema al chiuso, se non vuoi che ti fumano in faccia, stronza. Vacci vacci che è agosto e muori di caldo, sola in ultima fila te e i tuoi Smarties da mezzo chilo.

Che da quando mi sono fatto il mio blog faccio il figo, me la tiro, vado nei blog degli altri e va a finire che prima o poi ci lascerò i post, ma parla come mangi, belin, te il post. Che l’altra sera mi sono fatto dire da mister raimo quali sono le riviste letterarie, belin come sto messo male, i canali per far leggere le mie cose che scrivo che mi vengono le ambizioni da scrittore. Belin, come sono messo male, ragazzi, io che di solito mi divertivo di solito a scrivere. Io che scrivo per sfogarmi, che da quando c’ho il mio blog faccio finta di essere uno scrittore, non ci siamo mica, non faccio mica più refusi, io e il correttore di word, mister word.

Ah, una roba bella del weekend è stata quando da Bisteak, che commentavo con Muriel e la tavolata degli Obelix e delle Obelix sta cosa della censura alla copertina del Mucchio, che aveva messo in copertina un disegno del Belrluska con la faccia con un cazzo al posto del naso. Un cazzo moscio mi sembra – ma magari era duro, non mi ricordo, ma ne dubito, il Berluska c’ha settantenni e ho sentito dire da fonti vicine che non gli tira più da secoli - con il preservativo.

Una delle persone con cui mangiavamo diceva che in Francia non l’avrebbero mai censurata, questa copertina del Mucchio, boh. Però forse hanno fatto bene a censurarla la copertina del Mucchio, che era pubblicità in più per quella faccia di merda che è andato a dire che a Genova quei sette o otto liceali in croce che sacrosanti l’hanno contestato davanti al Carlo Felice erano squadristi. Che venisse a vedere a Roma i cortei della Fiamma, la compagine di estrema destra che fa parte della sua coalizione, quelli vanno in giro con la camicia nera e fanno il saluto romano e nessuno dice niente.

Che l’altro giorno, un’altra cosa bella del weekend, ero lì a Monti a farmi una birra e c’erano i manifesti della Fiamma. C’è la foto di uno pelato, con la barba nera lunga, che sembra Bin Laden senza capelli. Che ci sono passato di nuovo oggi davanti a quel manifesto e qualche genio, lo adoro, gli ha disegnato una capigliatura afro – stile Arnold – e gli ha fatto i ciglioni, sì i ciglioni, che per una volta volevo scrivere ciglioni, che di solito viene fuori ciglioni invece di coglioni perché il cazzo di correttore di word lui è proprio incorreggibile. Un bacchettone del cazzo, sto signor word.

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25 marzo 2006

All inclusive


La prima volta che li ho visti non me ne sono nemmeno accorto. Il mio sguardo è scivolato su di loro quasi per inerzia nella sala d’attesa della Malpensa, partenze internazionali, terminal 2. Il nostro charter per Cancun era in ritardo di due ore, ma dicono che non c’è niente di strano.
“I charter sono sempre in ritardo, è normale”, diceva la madre alla figlia, una ragazza alta sui quindici anni, che si stava lamentando dell’attesa sbuffando annoiata. E’ lì che li ho visti per la prima volta, senza quasi accorgermene. Non sapevo ancora che erano gli interisti.

Stavo passeggiando avanti e indietro fra le poltroncine rosse della Malpensa, guardandomi le punte delle scarpe, le mie Puma nuove scamosciate, gialle e grigie, che spuntavano sotto l’orlo troppo lungo dei jeans neri, nei piedi a papera, piatti come le chiatte che avanzano lente e pigre piene di rifiuti sul Tamigi.

Mi guardavo i piedi piatti camminando piano per ingannare l’attesa. Meditavo se prendere la scala mobile e salire al bar al piano di sopra per comprarmi l’ultimo panino in vista della sfacchinata di dodici ore di aereo per il Messico, dove con Giusy, mia moglie da meno di tre mesi, abbiamo deciso di goderci la nostra luna d miele a scoppio ritardato, sfruttando il periodo di vacanze natalizie.

“Giusy, vado su a prendermi un panino, vuoi qualcosa?”. Mia moglie fa di no con la testa e vado da solo. Mi compro un panino con il crudo e una bottiglietta d’acqua naturale. Scendo la scala mobile giusto in tempo per vedere il segnale d’imbarco e salire sul charter mezzo vuoto.

E’ il 20 dicembre, a Milano fa freddo, per questo indosso ancora il mio eskimo imbottito e il cappello di lana verde scuro, che l’altra volta in trattoria mi dicevano che sembravo un pescatore vestito così. Il cappello con la visiera me lo tolgo una volta a bordo per dormire sdraiato sui sedili da tre posti. Madre e figlia interisti sono lì, qualche fila più indietro.

Sull’aereo ci danno il tipico mangiare da aereo, mi guardo un film tremendo con Jonny Depp. Mi tocco un po’ il brufolo che mi è spuntato monumentale, solitario e maestosamente enorme sulla fronte. Di lì a poco mi addormento profondamente, mentre la Giusy non riesce a chiudere occhio durante tutto il viaggio.

Siamo arrivati a Milano il 18 dicembre, verso le otto di sera. Mia moglie deve tenere una lezione all’università il giorno dopo, per questo abbiamo deciso di partire insieme il 20 dalla Malpensa. La accompagno a Milano, così siamo già lì pronti per il decollo. Dormo da mio fratello, in Ripa di Porta Ticinese, la Giusy dorme dal suo di fratello, a Porta Romana. Io e Giusy viviamo a Roma, i nostri rispettivi fratelli vivono entrambi a Milano, tutti e due vicino a una Porta. Lollo, mio fratello, vicino a Porta Genova, Giò, il fratello di Giusy, vicino a Porta Romana.

Il viaggio di nozze ce lo paga mia madre. Una settimana piena in una struttura cinque stelle in Yucatan, nel Golfo del Messico. Un all inclusive completo. Io non sapevo nemmeno che lo Yucatan si trova in Messico.

Il viaggio di andata passa liscio. Arriviamo a Cancun, il capoluogo dello Yucatan, di notte. Ci vengono a prelevare in pulmino, un minibus da dieci posti. Siamo stanchi, e lì rivedo gli interisti per la seconda volta. Sono al completo, sono in quattro. La madre, un peperino di donna con i capelli neri carré, si siede davanti di fianco all’autista messicano. La figlia grande, la quindicenne annoiata della Malpensa, si siede dietro di noi, di fianco alla sorella piccola e al padre. In pulmino la madre parla. E’ ciarliera, nonostante la stanchezza del viaggio parla e parla, ha una voce familiare. E’ la prima volta che la sento parlare. “E’ milanese stretto”, penso nei fumi del sonno. Nel tragitto fino all’albergo mi addormento profondamente.

E’ il 29 dicembre, siamo tornati ieri a Milano dalla vacanza in Messico. Sono appena stato al bagno dell’Eurostar, il Milano – Roma che ci sta riportando a casa. Sono abbronzato di brutto, mi è anche venuto l’eritema solare. Prude abbastanza. Il brufolo del 20 dicembre è acqua passata, seccato e assorbito dal sole e dalla tequila messicana.

Gli interisti, come dicevo, sono quattro. Padre, madre e due figlie. Con la Giusy li abbiamo conosciuti meglio il primo giorno delle vacanze. Siamo andati a sentire cosa diceva la tizia dell’agenzia con cui abbiamo prenotato il viaggio.

Il complesso alberghiero dove ci troviamo è un cinque-stelle all inclusive, situato in mezzo alla giungla della penisola dello Yucatan, a un centinaio di chilometri da Cancun, che non lo sapevo ma un paio di mesi fa l’uragano Wilma l’ha spazzata via la città di Cancun. Una città artificiale, costruita su una lingua di terra in mezzo al mare, una città come altre, costruite per volontà di qualche governante nel mezzo del nulla, come Las Vegas o Brasilia. Città nel deserto, città costruite sul nulla.

La tizia dell’agenzia di viaggi elenca le diverse escursioni e gite disponibili. Decidiamo di prenotare la visita alla piramide di Chichen Itza e quella al cenote. La guida per la gita al cenote è un bergamasco di mezza età, mi dà affidamento. Stranamente, sono io e non Giusy che decido di prenotare la visita al cenote, la grotta sotterranea con stalattiti e stalagmiti dove ci immergeremo di lì a qualche giorno. Soltanto in un secondo momento scopriremo che la guida bergamasca, un ex imprenditore di Treviglio con tre blocchi cardiaci alle spalle, si è trasferito in Yucatan sei anni fa, dopo il terzo attacco di cuore e che ora gestisce un diving center e fa parte di un network internazionale di sub impegnati nella mappatura scientifica dei cenote messicani (sono più di tremila quelli ad oggi rilevati nel sottosuolo dello Yucatan).

Gli interisti si siedono sui comodi sofà enormi nella hall dell’albergo, una fazenda messicana ricreata ad arte con simpatica pacchianeria. Li battezzo così, gli interisti, perché il padre, il pater familias, un uomo dal volto sincero con barbetta grigia, alto e sorridente, porta bermuda e un cappello con visiera da baseball dell’Inter. La madre è più piccolina. Sono una famiglia milanese tipica.

La madre si trova subito bene con la Giusy e chiacchierano senza sosta come soltanto le donne sanno fare. Sembrano palle di neve in discesa, la conversazione si trasforma in breve in una slavina, una valanga di parole, per lo più sensate, intervallata da domande, risposte, accenni, mezze parole, verità masticate, risate di donne, sbalordimenti femminili, teste che annuiscono, gesticolamenti, ricette, bagliori oculari, orecchie tese, teste che annuiscono facendo sì “ma va….”, segni convenzionali di assenso consenso. Linguaggio di donne. Il normale flusso di parole femminili in libertà, un codice a parte, tutto loro.

Nel frattempo, io guardo l’uomo. Siamo seduti nella hall messicana, fumando sigarette, ascoltiamo in background il tormentone natalizio dell’enorme hall dell’area alberghiera, un motivetto musicale semplice semplice che fa: “feliz navidad….feliz navidad….feliz navidad….feliz navidad….”.

Mamma e papà interisti sono molto affiatati fra loro. Sono due presone che si calzano a pennello, come due paia di scarpe vecchie e comode che riconoscono i calli del padrone. Si vede lontano un miglio che non si fanno venire le vesciche nei piedi, non stringono, non sono scivolosi l’uno per l’altra.

Ben presto scopriamo che sono sposati dal 1983, un’eternità, la figlia grande è alta e ha quindici anni. La “mia piccola”, come la chiama il padre, ne ha nove. Due grosse finestrelle si aprono nei denti di sopra, gli incisivi ci sono già, mancano i denti di lato, simmetrici, quelli prima dei canini. La piccola è carina e ha lo sguardo vispo.

La piramide di Chichen Itza sarà alta sì e no una cinquantina di metri. In cima ci arrivi salendo i gradini che ci sono su tre dei quattro lati che la compongono. E’ una costruzione antica, che sorge in mezzo a un grosso prato. Per i Maya la piramide aveva un valore religioso. Il giorno del solstizio di marzo un gioco di ombre, di luce e di sole crea la sagoma di un serpente, del dio serpente, sul lato principale della piramide.

La cosa più impressionante è salire in cima alla costruzione. Salendo non ti rendi ben conto di quanto ripida sia la parete. Salire è sempre più facile che scendere. Soprattutto se mentre Sali non guardi di sotto. Non ti rendi conto di quanto in alto sei salito. Te ne accorgi soltanto quando sei in cima. Quando ormai è troppo tardi per fare dietro front in maniera indolore.

Quando arrivo in cima alla piramide di Chichen Itza mi batte forte il cuore perché sono salito veloce. Mi volto e la vista del vuoto sotto mi fa venire le vertigini e un colpo secco al cuore. Pompo adrenalina e mi devo appoggiare al muro per non essere tentato dal tuffo nel nulla. Il giro intorno non lo faccio, c’è troppa gente e non ci sono ringhiere.

L’attrazione che è insieme terrore del vuoto mi atterrisce. Cerco di frenare il battito cardiaco, in lontananza vedo il campo della pelota, dove i sacerdoti maya giocavano il loro rito secoli fa. Chi vinceva veniva sacrificato agli dei. Mi domando se qualcuno di loro, degli antichi sacerdoti, abbia mai sbagliato apposta, per salvarsi la vita. Le regole sono semplici. Si tratta di una specie di minibasket, soltanto che facevano canestro in un cerchio posto in posizione verticale, come un bersaglio, e non verticale come la nostra pallacanestro.

Poi penso ai kamikaze islamici, capisco così in quel momento che quando giochi per la vita, quando in gioco c’è la tua vita, non giochi per perdere, non pensi certo a sbagliare ma al contrario ti concentri per vincere. Morire così non deve essere poi così male, ti sembra di aver vissuto per qualcosa di grande, di più grande di te, di trascendente.

Mi distraggo così, pensando alla pelota, il cuore si calma e pompa sangue più piano, mi siedo prima del bordo della piramide, scendo i gradini di culo, forzandomi a guardare le punte dei piedi per non perdermi con lo sguardo nello spazio intorno. Fisso le mie Puma, anzi le viviseziono, per non guardare il vuoto che mi circonda. Man mano che scendo, le sagome della gente sotto nel prato si fanno più grandi. Il ritmo cardiaco torna normale quando arrivo in fondo.

Alla fine, mi concedo di guardare liberamente il prato e vedo mamma interista riversa nel suo vomito. Anche lei è appena scesa dalla piramide.

Sono appena sceso alla stazione di Bologna a fumarmi una Marlboro Light alla stazione di Bologna. L’Eurostar per Roma è in orario. Uscendo, ho notato lo screensaver del portatile di un passeggero. Era un fotomontaggio curioso, con l’immagine di Russel Crowe nel film “Il gladiatore” con di fronte la foto speculare del viaggiatore, la stessa barbetta e la stessa semi armatura dell’attore di fronte a Russel Crowe sullo schermo del computer.

Ho guardato in faccia il passeggero, con la mia Marlboro già infilata fra le labbra, in effetti si assomigliano. Dopo la sigaretta, ritornando al mio posto, noto che il passeggero sta modificando al computer la pianta di una costruzione a forma di cupola. Sembra un’enorme voliera, senza uccelli. Magari è la pianta di una moschea e il Gladiatore dell’Eurostar è un fondamentalista islamico o cattolico.

La figlia piccola degli interisti si è fatta le treccine. Sta molto bene, sono chiuse con la stagnola, con piccole perline bianco-azzurre che tintinnano anzi picchiettano quando corre. La figlia piccola degli interisti fa ginnastica artistica e non perde occasione per accennare una verticale appoggiandosi alle seggiole di plastica del bar degli hamburger, in riva alla spiaggia. Il tempo si è messo al bello in Yucatan, anche se alle cinque diventa buio pesto. La figlia piccola degli interisti è molto meglio della grande. A me gli interisti mi sono simpatici perché perdono sempre.

Entrare nel cenote è come andare in cantina. L’aria è più fredda sotto la crosta di terra calcarea che copre lo Yucatan. Una terra porosa, carsica, da cui filtra l’acqua piovana creando enormi cunicoli di grotte acquifere sotterranee. Stalattiti colano dal soffitto del cenote. I pesciolini galleggiano nell’acqua di questo laghetto sotto terra. Radici gigantesche pendono dal soffitto e si infilano nell’acqua, facendosi largo nella roccia ed allargandosi come funghi a contatto con l’acqua.

La superficie interna del cenote sembra un enorme gruviera svizzero. Guardare sotto l’acqua con le maschere dà un’impressione strana. Grossi buchi neri, cunicoli e rientranze rocciose, si aprono sotto il fondale irregolare del cenote. Come sempre, il buio mi attira e nello stesso tempo mi spaventa fino al terrore, ricacciandomi verso l’ossigeno del boccaglio verso l’ossigeno e la luce superficiale.

E’ come se due forze opposte e contrarie convivessero dentro di me. Da un lato, la vita e la luce, che filtra dalle fessure solari, dall’altro l’irresistibile fascino dell’autodistruzione, di immergersi nel buio liquido del cenote per calcificarmi per sempre nella superficie delle pareti coralline, impastato con le radici millenarie della grotta sotterranea.

Una lotta costante, il cui risultato sono io. Mi rendo conto che l’equilibrio di queste due forze uguali e contrarie che si annullano a vicenda sono io, che con la testa sott’acqua nuoto lentamente nel cenote fissando il buio a debita distanza per poi uscire dall’acqua, togliermi la maschera e la muta da sub per seguire i raggi solari e riemergere in superficie, entrare nella giungla con le infradito, nella giungla dello Yucatan, per mollare una pisciata memorabile per potenza di getto e durata ai piedi del tronco di un albero secolare che risale all’epoca delle piantagioni spagnole di caucciù.

Intanto, in lontananza, ascolto il richiamo di una scimmia urlatrice che si sgola a chilometri di distanza. Ho la tentazione di rispondere ma desisto. Penso che in effetti il mio accento genovese sarebbe difficile da decifrare per le scimmie urlatrici. Penso anche che il mio cellulare triband in Messico non mi serve e che una volta l’anno disintossicarmi dal mondo civilizzato – cellulare, giornali e internet – è una cosa buona e giusta. Scrollandomi l’uccello penso che peccato che l’uragano Wilma abbia raso al suolo Cancun. Sono passati appena due mesi dal suo passaggio, mi sarebbe piaciuto andarci.

Nell’all inclusive dello Yucatan sono compresi diversi libri. Ho finito con Wallace, per un po’ mi prendo una pausa. Mi sono letto un libro con sette inchieste americane che hanno vinto il premio Pulitzer. Mi ha colpito moltissimo quella sul plutonio, dove si descrive la paranoia dell’arto fantasma di un paziente-cavia, un uomo di colore e bassa estrazione sociale sottoposto all’amputazione della gamba in seguito a iniezioni di plutonio somministrate su base sperimentale negli anni ’40 da staff medici americani impegnati nella realizzazione della bomba atomica, interessati alle conseguenze delle radiazioni sul corpo umano.

Il paziente, anni dopo l’amputazione, accusava forti dolori alle dita dei piedi della gamba recisa. L’immagine di questo mutilato mi ha profondamente colpito. Me lo immaginavo seduto in cucina con sua moglie che stira, mentre si lamenta del dolore immaginario ad un piede che da tempo ormai non è più attaccato alla caviglia, accusando chi sta torturando dita dei piedi che a occhio e croce sono già putrefatte da anni.

Tutto questo mi fa pensare alle gravidanze isteriche di molte cagne che danno naturalmente latte per cuccioli inesistenti. Tutto ciò mi fa pensare a quanta sofferenza ci attraversa al pensiero di lesioni emotive legate a fatti ormai morti e sepolti, che appartengono ad un passato remoto che riaffiora sotto forma di dolore lancinante per qualcosa che non c’è più, amputato dal trascorrere inesorabile del tempo, un dolore per qualcosa di indefinibile sommerso dalla vita, un dolore per qualcosa che non c’è più e mai tornerà.

Come una gamba amputata, che mica ricresce. Ma non importa, perché la gamba sarà pure andata, kaputt, putrefatta mangiata dai vermi, ma il ricordo torna a galla, creando l’illusione ottica di una sofferenza profonda, la certezza che il dolore lo provi davvero nell’arto tagliato. Secondo me al tizio del plutonio la gamba gli faceva male sul serio.

Scendo dal treno a Firenze a farmi una Marlboro Light. Il salva schermo di Russel Crowe è cambiato. Adesso c’è l’immagine di un sub con le pinne in movimento con le bolle d’acqua che fanno splash, blob e plaf sul monitor del pc. Il passeggero ha sempre la barbetta del gladiatore, ma la sua faccia non sembra più quella di un kamikaze.

Il filtro delle Marlboro acquistate al duty free dell’aeroporto di Cancun è bianco. E’ sempre bianco il filtro delle Marlboro americane. Fumare sigarette con il filtro bianco è sempre strano. Non riesco a regolarmi su quanti tiri mi mancano per finire la sigaretta. Di fianco a me c’è una ragazza milanese che fuma anche lei. Il filtro della sua sigaretta è marroncino, sta fumando sigarette europee. Mi guarda con insistenza in viso, probabilmente vorrebbe che le rivolgessi la parola, ma non lo faccio. Mi guardo con insistenza le punte delle puma nuove, scamosciate gialle e grigie, manco fossi in cima alla piramide di Chichen Itza. Intanto passeggio in tondo di fianco al predellino del treno.

Ho sempre paura che mi chiudano fuori dall’Eurostar quando sto fumando alla stazione, per questo preferisco il filtro colorato delle sigarette, per regolarmi meglio su quando sto per finire. La ragazza bionda mi fissa, io guardo le mattonelle in terra. Lo faccio apposta di non lazare lo sguardo per guardarla negli occhi, ma il suo sguardo su di me lo sento lo stesso.

Stamattina in metropolitana a Milano ho fatto il mio gioco preferito. Entrare nel vagone ed evitare apposta lo sguardo della gente. Vince chi durante il tragitto riesce a non guardare nessuno negli occhi. In metropolitana è difficile, perché a volte lo sguardo della gente lo incroci anche se non vuoi. A volte, quando vivevo a Milano, entravo in metropolitana con gli occhi chiusi. Conoscevo a menadito la stazione di Lanza, quindi riuscivo a tenere gli occhi chiusi fino alla fermata di porta Genova.

Ala fine, a Milano è facile non guardare negli occhi la gente. Quando sei nel vagone della metro, basta che ti concentri a leggere trenta volte di seguito la pubblicità dei manifestini della fitness Conturella oppure dei corsi dell’Istituto europeo di design, appesi alle pareti e sei a posto. Poi, la gente si guardano tutti le punte delle scarpe e questo aiuta.

Il libro che mi è piaciuto di più in Yucatan è stato “La camera azzurra”, un romanzo di Simenon sul tradimento. Il protagonista ha un’amante pazza, o meglio pazza di lui, con cui si incontra di solito nella camera azzurra di un albergo; la relazione finisce in tragedia. L’ho letto tutto d’un fiato il romanzo, mi ha colpito molto e mi è venuto anche l’eritema solare leggendolo. Ero talmente immerso nella storia che mi sono dimenticato di mettermi la crema protettiva, il sole picchia di brutto nello Yucatan.

Gli hamburger dell’all inclusive erano spettacolari. Mi mancheranno. Anche la cerveza, una cerveza mas mi mancherà eccome. “Se non ci sei abituato a sbafarti tutto gratis non ti viene subito automatico”, diceva papà interista. Poco prima di partire mi sono fatto un triplo giro di margarita e tequila, per ricordo. Ci stava tutto, in previsione del viaggio di rientro.

La notte dopo aver letto “La camera azzurra” di Simenon ho fatto due sogni. Non sognavo da tempo, i sogni in un certo senso penso di averli evocati con le mie mani, dicendo piano fra me e me “cavolo, da troppo tempo non sogno”.

Primo sogno: c’è una cena, organizzata nel cortile di un palazzo. Ci sono lunghe tavolate strette, messe a ferro di cavallo. Finisco seduto a fianco di una donna sorridente. Indossa un top nero aderente. Sorride, le tocco i seni prosperosi, sodi, con pieghe di benessere all’altezza del costato. Ride di gusto, manco le avessi fatto il solletico. Poi, senza alcuna vergogna, si alza il top nero. Fa vedere i grossi seni, me li fa vedere sotto il naso. Sono strizzati in un grosso reggiseno nero contenitivo, che regge grazie a due sottili tiranti, fili neri che tengono su tutto. Lei ride. All’improvviso, un gruppo rock in mezzo ala tavolata inizia a suonare musica heavy metal assordante. I musicisti attaccano gli spinotti degli altoparlanti con un baccano feroce. Poco dopo, al terzo piano del palazzo di fianco una donna in camicia da notte bianca si affaccia, esce sul terrazzino e con voce acutissima urla di smetterla con le chitarre elettriche, che in quel contesto sono effettivamente fuori luogo. Mi alzo dalla tavolata e mi sposto in una vicina balera sotterranea. Underground.

Secondo sogno: sono in seduta. Di fronte a me c’è il medico. Di fianco a me, stranamente, c’è una coppia di persone. Inizialmente, stiamo insieme e parliamo a turno. Poi, il medico mi invita ad uscire. La coppia ha la priorità. Mi alzo senza protestare, esco e mi faccio un giro nell’appartamento. Non ci sono mai stato lì, ma di certo è la casa del medico. Vado in giro e guardo i libri nelle librerie. Poi, mi siedo in cucina. Mi sto rivestendo per andarmene quando il medico arriva in cucina e mi pala lì, offrendomi amichevolmente un caffè. Non è più il mio medico, in effetti, ma si è trasformata in un’amica con cui parlo tranquillamente del più e del meno in cucina.

Nello Yucatan abbiamo visto gi iguana. Sembrano grossi lucertoloni venuti su a proteine e palestra. Facendo snorkeling, che alla fine vuol dire infilarsi maschera e pinne e guardare sott’acqua, ho visto le tartarughe marine e ricci giganteschi, dieci volte più grandi di quelli di Moneglia. Al ristorante mi sono pappato una bistecca gigante, buonissima, sembravo Obelix.

Abbiamo conosciuto i pistoeisi. Una coppia di ragazzi che fanno gli infermieri. Quando penso a Pistoia penso subito allo zoo e alla maglia della Pistoiese, che è arancione. I pistoiesi sono belli, lei è giovane giovane, vuole tanti “figliuoli”, auguri e figli maschi come dice la “tu’ nonna”.

Di ritorno da Playa del Carmen, un posto per lo shopping a mezz’ora dal nostro mega resort cinque stelle all inclusive, ci mettiamo ad aspettare un “taxi collectivo”. Aspettiamo un po’, ma non arriva. Altra gente come noi aspetta. Una donna biondissima – notevolmente fica - ad un certo punto si avvicina a noi per domandarci se abbiamo voglia di “share a taxi”. Dividere un taxi normale, che ci riporti all’hotel. Ci ha riconosciuto dai braccialetti fucsia di plastica che portiamo al polso, che servono per identificare tutti gli ospiti dell’hotel.

Accettiamo e saliamo sul taxi di linea dopo aver concordato preventivamente la tariffa, che divisa per quattro risulta irrisoria. La donna fica bionda è con il suo uomo, sembra suo marito, che nel frattempo non ha aperto bocca, sembra imbestialito.

Il marito siede davanti di fianco al guidatore messicano. E’ apertamente accigliato. Io mi siedo dietro, in mezzo a Giusy e alla bionda, che continua spasmodicamente a starnazzare: “we have been waiting for a taxi for so long…..Thanks God you wanted to share a taxi with us, my husband was getting mad to wait such a long time for a taxi…”. In poche parole, la bionda fica canadese, tanto fica quanto logorroica, mi dice che stavano aspettando un taxi collectivo da almeno un’ora.

Aggiunge che da quando erano arrivati in Messico, cinque giorni prima su una settimana complessiva di vacanza, lei aveva fatto shopping tutti i giorni, trascinando con sé il marito che era arrivato al momento di non ritorno. Era incarognito come un lama che gli strizzano le palle. Non ce la faceva più, per questo era ammutolito. Venivano da Calgary, in Canada, dove ci sono state anni fa le olimpiadi invernali. Loro alla piramide di Chichen Itza non ci sono andati, in compenso hanno comprato più o meno una decina di sombreri rigidi originali.

Sono in stanza. Decido di uscire a fumare. Tengo in mano le sigarette, nell’altra l’accendino blu della Bic. Chiudendo la porta della stanza, avvisto un bacherozzo che cammina sul muretto fuori. Accendere l’accendino e dargli fuoco è un attimo. Ci vogliono un paio di secondi prima che l’insetto avverta il dolore. L’ho affumicato come dio comanda. Inizia a volare all’impazzata, sembra accecato. Sbatte ovunque, contro i muri rosso-arancioni. Mi accendo la sigaretta. Sento per l’intera durata della sigaretta il ronzio incessante del bacherozzo, che continua a sbattere contro i muri.

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Gianni il lavapiatti


Il protagonista di questa storia è un uomo che di domenica mattina lava i piatti. L’uomo si chiama Gianni e lavare i piatti gli piace. Lo rilassa. I suoi amici, scherzandolo un po’, lo hanno soprannominato “il lavapiatti”, perché quando lo invitano a cena a casa loro, dopo mangiato, si mette in cucina e fa i piatti. Fa i piatti anche se c’è la lavastoviglie.

A volte, per non deludere i suoi amici che c'hanno la lavastoviglie, Gianni lava i piatti a mano e poi li infila in lavastoviglie. Questa cosa del doppio lavaggio – prima a mano, come piace a lui, poi in lavastoviglie, come piace a loro – Gianni “il lavapiatti” la fa di solito anche quando lo invitano a casa di conoscenti. I conoscenti, più degli amici intimi, si stupiscono un po’ di questo bizzarro comportamento. E' strano vedere un invitato che non conoscono troppo bene che dopo cena chiede il permesso di lavare i piatti a mano, anche se c’è la lavastoviglie.

Ma non c’è abbastanza confidenza con quel bizzarro conoscente per impedirgli di entrare in cucina e fare i piatti a mano. Di solito, a tavola, quando Gianni è di là in cucina che lava i piatti, questi conoscenti parlano di lui. Di solito sono un po’ straniti. Però alla fine concludono contento lui contenti tutti. Gianni fa i piatti a casa di questi conoscenti, poi li mette in lavastoviglie per non deludere il proprietario di questo elettrodomestico, saluta e torna a casa avendo ringraziato per l’invito a cena.

E’ domenica mattina e Gianni il lavapiatti è in piedi di fronte al lavello di casa. E’ pronto per entrare in azione, saranno le otto. A quell’ora molta gente nel palazzo starà ancora dormendo. Di solito, la gente alle otto di domenica mattina dorme, se non ha qualche impegno urgente. Ma Gianni è mattiniero, nel lavello c’è una montagna di piatti da lavare e lui è felice.

Il lavapiatti è felice perché si appresta a fare quello che sa fare, lavare i piatti a mano. Intanto pensa al caos e sorride sotto i baffi, mentre l’acqua tiepida gli bagna le mani.

Gianni prende il flacone di Nelsen, è mezzo vuoto, prima di regolare la temperatura dell’acqua svita il tappo, poi riempie il flacone per tre quarti. Lo agita un po’. Sembra il barman del Liquid, che sta shackerando un cocktail dietro al bancone, mentre chiacchiera amabilmente con i clienti del sabato sera.

E’ un trucco. Quando il Nelsen è agli sgoccioli, Gianni prende il flacone, lo apre e diluisce il sapone superstite con dell’acqua corrente. Così, il liquido sgrassante si diluisce un po', ma funziona lo stesso. Così, il lavapiatti ha l’impressione di aver fatto una furbata, si sente un furbacchione, ed è contento così. Nel frattempo pensa che nel pomeriggio dovrà andare a fare scorte di Nelsen. Il trucco del barman non dura per sempre. E’ un espediente che può andare per due o tre lavaggi extra, poi non c’è più sgrassante, soltanto acqua tiepida.

Il lavapiatti regola la temperatura dell’acqua, tiepida, prende la spugnetta rossa, ruvida, raccoglie il primo piatto e comincia a strofinare. Strofina con rapidi gesti concentrici, sembra Karate Kid che lava il cofano della macchina - metti la cera, togli la cera - partendo dal centro del piatto sporco allargandosi lentamente verso il bordo di ceramica. Poi, volta il piatto, attento a non farlo cadere, e compie la stessa operazione sull’altro lato del piatto, che è tutto unto perché giace da un paio di giorni appoggiato sul piatto della pila sporca.

A volte, il lavapiatti accende la radio che c’è sul mobile di cucina lì di fianco al forno a microonde, un Whirlpool jet system ribattezzato “il catafalco” perché da mesi sta lì, sul mobile di cucina, mai usato, con la spina staccata. Alla presa della corrente al posto del forno a microonde è collegata la radio. Ma quella domenica mattina la radio è spenta. Gianni detto il lavapiatti dai suoi amici più intimi preferisce il silenzio. E' concentrato sul caos.

Quando pensa al caos Gianni lava i piatti. Lì, davanti al lavello con l’acqua tiepida che scorre, è un momento molto adatto per pensare al caos. Lui, il caos e i suoi piatti da lavare belli unti e bisunti, impilati nel lavello di cucina la domenica mattina. Questo è il quadretto.

Il primo piatto è tutto bello insaponato. Gianni risciacqua con cura, le ante dello scolapiatti sono aperte di fronte alla sua faccia, pronte per la fase due: inserire il piatto lavato dai muscoli di Mastro Lindo a sgocciolare la risciacquatura del detersivo sgrassante diluito in precedenza.

L’acqua del rubinetto scorre placida e tiepida. All’improvviso una scheggia di caos inattesa lo colpisce in fronte. C’è un problema nella fase di risciacquo. La pentola sporca della pasta, in fondo alla pila di piatti da lavare, ostruisce il buco di scarico del lavello. L’acqua del risciacquo non scorre nel tubo, non defluisce là sotto, nei tubi invisibili che portano l'acqua al mare. Il livello dell’acqua nel lavello si sta rapidamente alzando.

Il pelo dell’acqua ha già coperto le posate e le tazzine di caffè. Gianni le vede e conta: sette cucchiaini e nove fra forchette e coltelli che giacciono sott’acqua; quattro tazzine di vetro, sul fondo del lavello in acciaio inox, sembrano la statua di Gesù sul fondo del mare al largo di San Fruttoso vicino a Camogli, che con la maschera la vedi benissimo. La pentola sporge ancora per metà di fuori. Sembra il campanile della chiesa che sporge da quel lago in sud Tirolo, ricordo di pietra di un allagamento che decenni prima aveva immerso per sempre quel villaggio alpino sotto l’acqua lacustre. Là sotto al lago tirolese ci sono ancora le case del villaggio coperte di alghe, il campanile invece sporge ancora.

I piatti e le stoviglie da lavare sono troppi nel lavello. Il lavapiatti è costretto a chiudere il rubinetto per evitare che l’acqua superi il bordo del lavello bagnando così il pavimento della cucina. Il lavapiatti è costretto a modificare il suo rituale, che di solito vede l’acqua tiepida sempre in movimento mentre lui insapona e risciacqua le stoviglie sporche. Gianni deve interrompere la consueta liturgia, costretto a spezzare in due le fasi di lavaggio, anzi in tre. Prima bagna i piatti incrostati di sugo, con un rapido spruzzo d’acqua. Poi li insapona con la spugnetta rossa ruvida. Alla fine li risciacqua, con il minimo sindacale d'acqua, per evitare che il lavello non esondi.

Se tiene l’acqua aperta quando è inutile, il lavapiatti rischia di causare una tracimazione e lui non vuole che l’acqua tracimi, come spesso capita a Genova, quando piove troppo, e il Bisagno si gonfia, superando gli argini e invadendo le strade del quartiere di Marassi. Si sa, quando un torrente tracima è peggio di un fiume, perché il greto del torrente è più stretto e se l’acqua non ci sta più dentro l'ondata è più violenta.

Risolta con un pizzico di intelligenza questa improvvisa scheggia di caos, Gianni si gasa di se stesso e pensa quanto sono intelligente, intanto continua a pensare ad altre schegge di caos domestico che ha risolto con astuzia. Pensa che sarebbe davvero bello trovare un espediente per fare con il tubetto del dentifricio la stessa operazione che fa di solito con il flacone del Nelsen quando è agli sgoccioli. Ma il tubetto di dentifricio non lo puoi diluire con niente.

L’unico trucco che Gianni conosce per prolungare il tempo di vita del Mentadent è quello di appoggiare il tubetto quasi finito al bordo del lavandino del bagno, facendo scorrere sul marmo del bordo del lavandino la confezione di plastica, creando così una pressione interna, che raccoglie la parte residuale di dentifricio ancora appiccicata alle pareti interne del tubetto, spingendo la pasta dentifricia verso il foro d’uscita.

Con questo piccolo espediente Gianni il lavapiatti ci ricava due o tre lavaggi dentali extra, quando il tubetto di dentifricio sembra finito ma in realtà non lo è, perché dentro, sulle pareti, c’è ancora della pasta del Capitano soltanto quando non c'era il Mentadent al supermarket. Basta pressarla, la pasta, in questo modo, che esce. Ma spingendo normalmente non esce niente, per questo bisogna far scorrere il tubetto contro il marmo del lavandino del bagno e creare la pressione usando l'astuzia, perché con le mani hai voglia a schiacciare, puoi morire che non viene fuori niente. Gianni lo sa.

Lo stesso espediente del Mentadent vale anche per i tubetti di crema – soprattutto la crema per mani, che il lavapiatti consuma a chilate, perché con tutti quei lavaggi di piatti se le screpola sempre, le mani, e ha bisogno di un po’ di Sos Glisolid se no le mani gli diventano ruvide come la spugnetta rossa e screpolate e seghettate e sembrano incartapecorite – e soprattutto, dulcis in fundo, il metodo del Mentadent è perfetto per il tubetto del gel per capelli.

In realtà, per raschiare le pareti interne del gel per capelli Gianni usa un altro espediente. Quando la pressione delle mani non basta più per far uscire il gel, il lavapiatti taglia in due con le forbici il tubetto, che di solito è poggiato in veticale perché la gelatina, rispettando da brava bambina ubbidiente le regole newtoniane della forza di gravità, sia già il più colata possibile verso il foro d'uscita.

Tra l’altro, rispetto alla pasta dentifricia, è più facile controllare se c’è ancora del gel nel tubetto, perché la confezione è trasparente, quindi è semplice vedere se c’è ancora del gel dentro, che si rifiuta di uscire con la semplice pressione delle mani. Basta tagliare in due la confezione di plastica e a ditate prendere la massa di gel che resta appiccicata sulle pareti e spalmarsela normalmente scolpendo così i tuoi capelli, come vuoi tu. Gianni il gel lo usa raramente, perché porta i capelli corti, però quando ce li ha un po’ più lunghi lo usa, il gel, che però poi si impiastriccia tutto nel casco quando va in motorino. Per questo il fondo del suo casco è pieno di schifezze atmosferiche che si appiccicano lì, perché il gel checché se ne dica, è colloso.

Con questi espedienti, il bagno di Gianni il lavapiatti è pieno di cadaveri di confezioni di gel aperte in due con le forbici, in attesa che lui a ditate ne prenda un po’ per impiastricciarsi i capelli. Ma questo succede di rado, perché Gianni non lo usa quasi mai, il gel, perché porta i capelli corti. Quindi, il bagno di Gianni il lavapiatti sembra un cimitero di confezioni di gel, tagliate in due a metà, con il gel che si secca dentro, all’aria aperta e inutilizzato, che a volte dei moscerini per sbaglio ci restano dentro incollati e muoiono nel gel. Così imparano a non restare in cucina sopra ai mandarini, i moscerini. Questi tubetti di gel aperti sono inutilizzati come il catafalco in cucina. Contenti loro, contenti tutti, come direbbero i conoscenti di Gianni il lavapiatti riferito ai moscerini.

Gianni sta risciacquando la pentola della pasta, lì in fondo al lavello. L’acqua della risciacquatura torna a defluire libera nel tubo. Il lavapiatti sente con soddisfazione il rutto del gorgo che si sblocca e vede abbassarsi il livello dell’acqua, che senza il suo intervento risolutivo di modifica della prassi lavatoria rischiava di finire sul pavimento della cucina. Intanto pensa al caos.

Un’altra scheggia di caos lo coglie all’improvviso, mentre un bicchiere rischia di scivolargli dalle mani. Una scheggia di caos che lo ributta indietro, ai tempi dell’infanzia.

Gianni ha dieci anni, è con suo fratello Leo di otto anni. Sono all’aeroporto di Genova Voltri, con la madre. Stanno per imbarcarsi per Stoccolma, dove ogni estate trascorrono due mesi delle loro vacanze estive nella casa di campagna dei nonni materni, a mezz’ora di autobus da Stoccolma, in una casetta di legno a spioventi marrone e rossa con un cancello verde, immersa in un bosco di betulle. Immersi nelle betulle, Gianni e Leo passano l’estate raccogliendo mirtilli nel secchiello e facendo lunghi bagni nel lago di acqua dolce, dove si galleggia meno che al mare di San Giuliano a Genova.

Gianni insapona l’ultimo piatto, intanto pensa a quella volta che lui e suo fratello Leo sono seduti nella casetta di campagna dei nonni, a mezz’ora da Stoccolma, lui ha dieci anni e Leo ne ha otto. Stanno giocando a canasta, seduti in veranda. Al tavolo ci sono anche la nonna dei due e Tante Tyra, un’amica ottantatreenne della nonna. Tante Tyra è famosa perché quando gioca a canasta bara sempre. Bara anche adesso, che gioca in coppia con Leo. Tutto il tempo della partita Tante Tyra lancia segnali a Leo, strizzandogli l’occhio, spostando da destra a sinistra il contenitore di caramelle. Ad ogni segnale corrisponde una certa strategia.

Gianni e la nonna sanno benissimo che Tante Tyra bara a canasta, Leo sa benissimo che la nonna e suo fratello sanno che la partita è truccata. Il divertimento è proprio quello, osservare Tante Tyra che bara. Gianni e la nonna perdono apposta, Tante Tyra non sopporta le sconfitte, in fondo ha ottantatre anni e se non sai perdere a quell'età è meglio se ti lasciano vincere a canasta.

Gianni sta per calare una carta, quando in veranda entra una scheggia inattesa di caos. Un passero piomba all’interno della veranda, per errore si è lanciato in volo dentro alla veranda, dall’unica parete aperta. Per errore, il passero si schianta a tutta velocità contro il vetro della parete di fronte, alle spalle di Tante Tyra. Le pareti vetrate che danno sul prato dei mirtilli sono tre.

Tante Tyra, che bara sempre quando gioca a canasta, caccia un urlo di spavento. Il passero pigola, si è fatto male ad un’ala, però continua a volare e a sbattere contro le altre pareti di vetro. Non trova l’uscita. I giocatori sono imbambolati da quell’improvvisa scheggia di caos piombata in veranda. La madre di Gianni e Leo, con un sangue freddo che i due figli non le conoscevano, arriva in veranda con la scopa in mano. Dopo qualche tentativo fallito riesce a sospingere il passero verso l’uscita. I quattro giocatori si alzano dal tavolo della canasta e in piedi accanto alla madre con la scopa in mano osservano il passero che riprende il volo, un po’ a zig zag, sembra ubriaco.

Intanto, fuori di fianco alla veranda, il vecchio nonno dei due bambini, il vecchio di settantasei anni con le orecchie più a sventola del Nord Europa, che in passato era stato l’amante decennale di Tante Tyra, non si è accorto di nulla. E’ seduto là fuori, beve un bicchiere di succo di ribes raccolti dalla nonna nel cespuglio che si trova sul retro della loro casetta di campagna; ascolta la musica alla radio in attesa delle previsioni del tempo, intanto oscilla a ritmo di jazz sul dondolo all’ombra, mentre si accende l’ennesima Prince della sua vita fatta di troppo lavoro, troppo alcol e macchiata dal tabagismo come la sua camicia bianca lo è di succo di ribes.

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23 marzo 2006

Tappeto volante


Ieri sera ho visto Fez. Ci siamo incontrati davanti al cavallo pazzo della Rai, a viale Mazzini. Mi ha fatto aspettare tre quarti d’ora, davanti al cavallo, pioveva anche e faceva freddo, per fortuna c’era una tettoia che mi sono fumato mezzo pacchetto di Fortuna. Blu.

Però, mi ha fatto piacere vederlo, Fez. Magari mi dà una mano per quel lavoro, speriamo. Dice che aprono un ufficio a via del Quirinale e che forse cercano una posizione per ufficio stampa e rassegna e poi chissà cosa. Siamo andati in trattoria con Fez, abbiamo magnato di brutto. Gricia e cotoletta, io, ravioli e parmigiana, lui. Intanto parlavamo. Ne ha fatta di strada Fez da quando a Zena si strinava tutti i giorni come un maiale in letamaio di alcol e robe varie. Lui e il totip, lui e l’agenzia dei cavalli giù alla Foce. Lui e la montagnetta di San Siro a prendere il sole vicino all’ippodromo. Lui e il pic nic che abbiamo fatto vicino a San Siro, era domenica, giocavamo a freesbe, c’era anche Lele e i belgi dell’Erasmus e c’era uno di fianco che giocavano a calcio sul prato di San Siro, era domenica, c’era l’Inter che giocava e si sentivano i boati dei tifosi da fuori, e c’era uno che urlava fortissimo “Sheeevaa!!!!!!! Sheevaa!!!!!” intanto tirava calci al super tele e correva da solo.

Me lo ricordo certe volte Fez sconvolto, sdraiato per terra – una volta davanti alla porta di un cesso rannicchiato in posizione fetale – dopo una strina alcolica da panico al volante. E quella volta alla stazione con Sisto dopo il Palio di Siena, erano almeno le tre di notte, aveva vinto il Giraffone. Che poi il giorno dopo del palio dovevo andare a Torino per un colloquio di lavoro.

Che poi sono arrivato a Zena dal Palio alle sei di mattina, dopo la notte passata a bere per le contrade di Siena e a suonare le campane che aveva vinto il Giraffone che erano decenni che non vinceva. E io che sembravo uno di Siena, che invece era la prima volta che ci andavo, al Palio dico, e che il giorno prima la mossa non sapevo nemmeno cos’era.

E io che alle sei di mattina entro in casa a Genova dormo due ore poi mi alzo, mi vesto col vestito nuovo del colloquio comprato con mia madre alla Coin, per il colloquio di lavoro, due giorni prima, nuovo il vestito, con la cravatta e vado a Torino per il colloquio. Era luglio, arrivo a Torino sudato fradicio, con la cravatta, alle 11.00 c’ho il colloquio, ho 26 anni, per un posto ad un punto vendita Smart, arrivo al colloquio e devo correre al bagno, c’ho uno squarone da paura con tutto il vino e le salsicce che mi sono calato a Siena di notte per festeggiare la vittoria del Giraffone.

E io che poi al colloquio, che era di gruppo, che ti mettevano te con gli altri che si erano presentati per il lavoro, gli altri colloquianti, intorno al tavolo, che bisognava fare finta di collaborare insieme per inventarsi insieme la gestione del punto vendita Smart, che bisognava inventarsi in gruppo una strategia di gruppo per vendere Smart insieme con gli altri – questi colloquianti sconosciuti – e io che sudavo e dovevo andare al bagno e mi girava intorno la stanza perché il rosso del Palio di Siena ce l’avevo tutto nel cervello e non riuscivo a spiaccicare parola, con il mio vestito della Coin e la cacata che ci avevo lasciato di là, nel bagno, prima del colloquio di gruppo. Appena arrivato lì a Torino con due ore due di sonno in corpo, nel posto del colloquio della Smart.

E io che l’unica cosa che facevo, intorno a quel tavolo con gli altri colloquianti sconosciuti – c’erano due delle risorse umane che ci guardavano, ci osservavano, ci valutavano l’interazione – era dire sempre, a ogni proposta dei colloquianti “no, non mi sembra per niente una buona idea”. Però poi stavo zitto, sudavo, diventavo sempre più verde adrenalina in faccia, quasi in tinta con il vestito grigio chiaro di cotone della Coin, e non proponevo niente di costruttivo e sudavo come un maiale, mi scappava da vomitare e volevo scappare. E io invece che sono rimasto fino alla fine, come a un sit in, che mentre me ne andavo le due delle risorse umane che mi dicevano “le faremo sapere”, non le ho più sentite, le risorse umane della Smart. Era meglio se me ne restavo a dormire. Torino a luglio col vestito della Coin fa schifo, è da zero a zero.

Che poi, se c’è una cosa che odio sono le Smart. Belin, quei parcheggi a lisca di pesce improbabili nelle strettoie più strettoie, che sembrano le fessure più assurde, solo per far vedere che c’hai la Smart. Brava, c’hai la Smart. Brava, brava c’hai la Smart. Quelle stronze che non sanno guidare ma c’hanno la Smart. Col cellulare, la messa in piega, lo stereo al volante della loro Smart e il sorriso Durbans che glielo vendono in allegato nel portabagagli della Smart insieme al triangolo, una bella confezione gigante di sorriso Durbans, in dotazione. Che cazzo ti ridi, te e la tua Smart che vai in contromano ridendo soltanto che c’hai la Smart e allora ridi. Prima o poi un frontale non te lo leva nessuno. Belin, ho appena riletto sta roba delle Smart, sembro Masini, non è che poi mi porto sfiga con le mie mani, vero? Che poi alla fine la Smart non è così male, pratica.

Il mio amico Fez è arrivato a Milano nell’aprile del 2000. Mi ha chiamato intorno al 25 aprile del 2000. Erano tre anni che non lo sentivo, il mio amico Fez. Erano tre anni che stavo a Milano a fare il bravo bambino flessibile, a cambiare lavori su lavori, che il contratto più lungo era un cazzo di call center in alta stagione nella sala operativa dell’Automobil club tedesco, che a volte conoscere le lingue serve.

Sì che servono le lingue, per mandare i turdeschi in officina a Brindisi, servono le lingue. Il tedesco serve tantissimo quando rispondi al numero verde dell’Automibil club tedesco, a un turco che sta tornando in Germania e gli fonde il motore del suo Mercedes del ’75 stracarico di figli, mogli, zie, bagagli, mobili, canotti, mangiare.

E gli fonde appena arriva a Brindisi, dopo il terremoto del ’99, che è arrivato quando lavoravo lì, in agosto, e tutti i turchi di Germania erano in vacanza a casa loro, e poi sono tornati in massa in Germania, milioni di macchine di turchi che arrivavano a Brindisi con il traghetto, stracarichi e terrorizzati dopo il terremoto, e molto spesso gli fondeva la macchina appena arrivavano in Puglia, e chiamavano il numero verde (me) che stavo a Milano nel mio bel call center e gli dovevo organizzare la macchina sostitutiva o la riparazione.

Ero diventato amico di tutti gli elettrauto di Brindisi, nell’agosto del ’99, che gli mandavo questi turdeschi con il motore fuso in officina il 15 di agosto. A Milano si schiattava di caldo, quartiere Greco, in fondo a via Melchiorre Gioia, che una volta c’avevo in coda talmente tante chiamate di associati in panne, incidentati, con macchine da rottamare, che mi sono dimenticato una famiglia di quattro persone in un aeroporto, che non gli ho trovato la stanza per la notte, avevano distrutto la macchina sul lago Maggiore in vacanza, e se ne sono stati tutta la notte all’aeroporto, senza soldi e senza mangiare perché hanno perso la priorità di chiamata e non li ho più sentiti.

Il giorno dopo la mia capa di Bolzano mi ha chiamato, voleva farmi vergognare che mi ero dimenticato questi poveri bambini tedeschi all’aeroporto tutta la notte, le ho detto “mi dispiace, non penserai che l’ho fatto apposta, vero?”, poi mi sono alzato e sono andato a infilarmi la mia cuffia come quella che usava Ambra a Non è la Rai, ma ero nel call center italiano dell’Automobil club tedesco. Ho studiato il tedesco io, serve per trovare lavoro.

Mi ricordo che un associato una sera, erano le undici, mi chiama perché la macchina è in officina, ha diritto ad una macchina sostitutiva, però mi dice che vuole una macchina di grossa cilindrata. Chiamo un meccanico, lo vanno a caricare lui e la sua macchina in panne, arrivano in officina, mi dice il meccanico che ha soltanto una Uno. Glielo dico, all’associato, lui non vuole una Uno, vuole una Mercedes. Gli dico che c’è soltanto la Uno, prendere o lasciare, lui si incazza con me, vuole una tre volumi. Faccio cadere la linea.

Dopo un po’, sono le undici di sera, mi richiama, ero solo con un altro alle undici di sera, di notte c’è meno gente al call center, statisticamente ci sono meno incidenti di notte sulle strade italiane, anche i tedeschi in macchina muoiono di meno in vacanza in Italia di notte. Di solito a quell'ora mangiano o dormono o bevono, sì, bevono. Birra su birra.

Sto coglione mi richiama, è incazzato perché ho fatto cadere la linea, m chiede nome e cognome, che si lamenterà con la centrale a Monaco. Glieli comunico con lo spelling, a sto coglione, nome e cognome. Poi dice che pretende una macchina tre volumi sostitutiva, gli dico che non c’è, che se vuole c’è una Uno se no può morire lì, in quella cazzo di officina, a centinaia di chilometri dal suo paese, con la sua bella macchina in panne. Poi faccio di nuovo cadere la linea.

Richiama almeno dieci volte, urlando come un pazzo, perso in qualche minchia di officina sperduta per l’Italia, è impazzito. Ogni volta riattacco. Mi dice, mi giura che mi farà licenziare, gli dico “sai quanto cazzo me ne frega di questo lavoro di merda, brutta testa di cazzo”. E glielo dico in italiano, siamo in Italia, impara l’italiano stronzo.

Invece la cosa più bella che mi è successa quando lavoravo al call center dell’Automobil club tedesco, quattro mesi con la Manpower a rispondere ai tedeschi incidentati in vacanza in Italia, è stata una coppia in luna di miele. Chiama lui, hanno avuto un terribile incidente, l’auto è andata in fiamme però loro sono rimasti illesi, in autostrada sulla via di Sorrento dove hanno prenotato 14 giorni di luna di miele. Lui era completamente sotto shock quando mi ha chiamato e voleva assolutamente tornarsene a casa. La sua polizza copriva il rientro in aereo pagato e la rottamazione della macchina. Non se la sentiva più di guidare dopo l’incidente.

Gli ho detto, “senti, è andata bene, non ti sei fatto niente né tu né tua moglie, potevi morire ma non sei morto, né tu né tua moglie. Supera lo shock, fai presto, se no poi torni in Germania e penserai sempre al terribile incidente sulla strada per Sorrento. Pensaci un’ora, richiamami fra un’ora, adesso io non faccio niente di definitivo per te, mi rifiuto. Tu, associato golden card, in base alla tua polizza assicurativa, hai diritto al rientro in aereo se vuoi, anche a due notti di pernottamento in albergo, però fammi un favore, richiamami fra un’ora. Parlane bene con tua moglie, secondo me, visto che ti è andata di lusso e non ti sei nemmeno fatto un graffio mentre la tua macchina è esplosa, e nemmeno la tua novella sposa si è fatta niente, ti consiglio di prenderti una macchina sostitutiva. Ne hai diritto per due settimane, tutto pagato dall’Automobil club tedesco, sei associato golden card. Ti fai la luna di miele a Sorrento, che quando cazzo di ricapita di avere due settimane a Sorrento, hai già pagato l’albergo e tutto, che sei tedesco e che se ti va bene la prossima volta che ti sposi magari non ci vai nemmeno in luna di miele”.

Mi ha chiamato dopo un’ora, ha preso la macchina sostitutiva, si è fatto la luna di miele con la moglie e dopo un mese e mezzo mi è arrivata una cartolina, diretta a me, da questo associato golden card, dalla Germania, che mi ringraziava per averlo trattato male quella volta, di averlo fatto riflettere, mi ha detto, e che Sorrento è bellissima. Ero contento.

Alla Manpower di Trezzano sul Naviglio secondo me c’avevano la mia foto sullo screensaver dei pc, quelli della Manpower. Ero sempre lì, a chiedergli un altro straccio di contratto da quattro mesi, a quelli della Manpower di Trezzano.

Insomma, Fez mi chiama intorno al 25 aprile del 2000, e mi dice “ciao, il 2 maggio inizio a lavorare a Milano, non è che mi ospiti per un po’?!”.

Cosa gli rispondi a Fez, “sì, ok, ti ospito per un po’”. Arriva, ci sta quattro mesi. Vivevo in un monolocale, Fez dormiva per terra sul materasso, sul tappeto volante, l’abbiamo battezzato così quel materasso, il tappeto volante, che mi si era incrostato sul tappeto di casa, Fez, di fianco al mio letto a una piazza e mezzo, incancrenito in stanza, che le rare volte che c’avevo una donna con cui scopare dovevo chiamare a casa mia e vedere se non era lì, Fez. E lui, Fez, non si schiodava, alla fine gli ho dato l’ultimatum e se n’è andato. Alla fine. Fez è volato via sul tappeto volante.

Io mi alzavo alle sette, lui dormiva, lavoravo in una fabbrica di tubi, indovina dove. A Trezzano. Mi alzavo alle sette, all’inizio facevo piano, per non svegliarlo, Fez, poi me ne sono fregato. Facevo la doccia alla mattina, poi andavo sul tappeto volante, nudo come un verme appena docciato, aprivo i cassetti e mi prendevo le calze e le mutande pulite, che a volte Fez apriva gli occhi e la prima cosa che vedeva appena sveglio era il mio scroto sopra il suo naso, che stavo prendendo le calze e le mutande nel cassetto, che stava dietro la sua testa. “Cosa ci vuoi fare Fez, siamo in un monolocale, questo è un monolocale, io ci vivrei, qui, devo andare a lavorare, in fabbrica, dormi dormi”, gli dicevo a Fez e poi andavo indovina dove, a Trezzano.

Ieri sera Fez mi diceva che in quel periodo nel 2000 ero un po’ aggressivo. In effetti, come vuoi essere se non aggressivo quando i tuoi migliori amici sono quelli del Manpower di Trezzano, che secondo me c’avevano la mia foto salvata sullo screensaver del pc, e lavoravo a contratto da otto mesi in uno stabilimento produttivo – taglia il tubo, piega il tubo, forni, componenti, fiamma ossidrica, Ute A, Ute B, Ute C, Ute D – con i clienti Fiat, Alfa, Iveco, Bmw, che mi mandavano affanculo dalle otto di mattina alle sei di sera. Anche in tedesco, che le lingue servono per lavorare, meno male che c’avevo l’esperienza dell’Automobil club tedesco e quando mi mandavano affanculo in tedesco lo capivo subito. Eccome se lo capivo, lì a Trezzano.

Che il primo giorno che sono andato alla fabbrica di tubi, esco a pausa pranzo e la mia Polo non c’è più. Non lo sapevo, non si poteva parcheggiare di fronte alle villette a schiera che fioriscono a viale Industria, a Trezzano, e quella simpatica signora che l’avevo notata che mi guardava mentre parcheggiavo, un po’ intimorito per il primo giorno del nuovo fantastico lavoro in fabbrica - una prova, quattro mesi, per vedere se ero in grado - quella simpatica signora ha chiamato il carro attrezzi e mi ha fatto portare via la macchina.

Che alle sei di sera sono dovuto andare al deposito dei vigili di Trezzano, a meno di un chilometro, a piedi in viale Industria, e pagare trecentomila lire per il trasporto e il divieto di sosta. Grazie signora, non ti ho mai ringraziato di persona, ora lo faccio, mi hai insegnato molto con quel tuo gesto, certo che potevi anche aprire la finestra, alle otto meno dieci di mattina, e dirmi “guarda, lì non puoi parcheggiare, sei di fronte al cancello della mia villetta a schiera e non si può lasciare la Polo lì”.

Non l’hai fatto, signora, però il numero dei vigili invece l’hai trovato, probabilmente ce l’hai stampigliato su un post it, vicino al telefono, attaccato lì, sopra al tuo telefono in tinello, scritto a mano sopra al numero di casa del tuo medico curante, che spero di cuore che tu l’abbia dovuto chiamare spesso negli ultimi tempi, signora di Trezzano dietro la tua tendina della tua villetta a schiera in viale Industria. Un bel posto, delizioso, Trezzano.

Che poi in produzione, lì nello stabilimento, c’era Rigliaco, in mezzo a quelle macchine piegatrici, Rigliaco, il re delle piegatrici. Che quando passavo nello stabilimento, in mezzo a quelle macchine piegatrici che piegavano il ferro dei tubi, il mio lavoro era di rompergli le palle, agli operai.

Perché eravamo sempre in ritardo con le consegne dei tubi, in ritardo siderale con le consegne dei pezzi dei clienti, che producevamo i componenti per il servo sterzo e l’aria condizionata delle macchine e dei camion delle case automobilistiche. Quando passavo in mezzo alle macchine gli operai mi guardavano in cagnesco, manco fossi uno dei padroni della fabbrica.

Ma guarda che io ero messo molto peggio di loro, anche se portavo addosso la camicia e loro la tuta blu, che erano tutti metalmeccanici. Che io ero niente di più e niente di meno della foto nello screensaver dei pc di quelli che lavoravano alla Manpower di Trezzano, non c’è mica il sindacato della Manpower, che spesso invece loro, le tute blu, facevano sciopero, non come me che ero uno screensaver. Hai mai visto uno screensaver lasciare il suo monitor? Io no, a Trezzano non scappavo dallo screensaver del Manpower.

Che Rigliaco era un pezzo di merda che non montava mai un componente, era il capo di una Ute ma se ne fotteva alla grande della fabbrica. E Rigliaco mi imbarcava che i pezzi li aveva mandati avanti, in produzione, da un reparto all’altro reparto, nella fase successiva di lavorazione, ma non era vero, non era vero niente, i pezzi erano fermi. Non c’erano mai in piegatura e in saldatura i pezzi che cercavo, i miei pezzi che erano i pezzi dei miei clienti, che mi chiamavano ogni due secondi, per rompermi le palle, che io ero un account, che cioè io mi dovevo occupare del destino dei tubi per l’aria condizionata e il servo sterzo di certi clienti, alcuni erano tedeschi.

Uno dei miei clienti era l’Alfa di Arese, e mi chiamava che fra due ore c’era un fermo linea. Allora di corsa correvo in produzione, facevo fare al volo 30 pezzi e stavo lì, fra le macchine, di fianco all’operaia della fabbrica, manco fossi il padrone dello stabilimento, controllavo, poi chiamavo un pony express e lo facevo volare con i 30 tubi fabbricati al volo, messi dentro in uno zaino, fino ad Arese.

Di solito arrivava in tempo per evitare il fermo linea, che un’ora di fermo linea allo stabilimento di Arese constava una penale di milioni di lire del vecchio conio, come dice quel simpaticone di Bonolis nel gioco dei pacchi in tivù, e il pony prendeva il suo Ktm 600 e si sparava come un proiettile in tangenziale, arrivava all’Alfa di Arese per il rotto della cuffia, dopo una miriade di zig zag fra tir e macchine in tangenziale che secondo me gli piaceva rischiare e correre contro il tempo a quel pony. Quando lo rivedevo gli offrivo una birra e ridevamo insieme in qualche lurido bar a Trezzano, laggiù, vicino alla Manpower.

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20 marzo 2006

Terremotati


Stavo messo sul terrazzino a fumarmi una sigaretta, sporgevo tutto dal balcone con il busto di fuori, sembrava che mi volevo buttare di sotto, con la cicca infilata fra le labbra. Ma era tutta una finta, il balcone era un balcone vero, però messo a piano terra.

Quindi, se mi buttavo, al massimo mi prendevo una craniata nel prato. Però, me ne stavo lo stesso lì, sporgente dal balcone, facevo finta di essere al settimo piano, col vuoto sotto. Era una prova.

Una prova tecnica, come quando alla radio o a un concerto il dj o il cantante fanno “sa, sa, prova, prova microfono, prova, saaaa-saaaaa…” dentro al microfono per vedere se funziona. Anche per buttarsi, alla fine, è meglio se ti sporgi prima, così almeno sai com’è, se funziona tutto come il microfono, che poi quando sei online oppure sul palco davanti al pubblico, quello vero, se non ti funziona il microfono è una bella figura da babbo di minchia.

Allora, sono lì che fumo la mia sigaretta, sporgo dal balcone a pianterreno, fisso per un po’ una specie di termitaio, anzi erano formiche, che stanno trasportando pezzi di viveri nel loro alveare sotterraneo per l’inverno – le formiche sono animali con la testa sulle spalle, pensavo, mica come le cicale che al massimo vanno bene per Heather Parisi – quando decido di tornare a dormire.

E’ giorno fatto, però è prestissimo, saranno le sette di mattina, mi sono svegliato e come sempre sono stato colto da un attacco di tabagismo spinto, quindi mi sono alzato a fumare. Ma ormai ho finito, posso tornare a dormire.

E’ il 14 di agosto del 2003, sono a Lefkadas, un’isoletta greca, in vacanza da due settimane con Fionda, la mia ragazza. Domani finisce la festa e ci tocca tornare in Italia, a Roma, però ci siamo divertiti in Grecia, non credevo.

Torno a letto, abbiamo preso in affitto un piccolo appartamentino, a pian terreno. Siamo a Lefkadas, un’isola non troppo battuta dal turismo di massa, anche se non è vero, di gente ce n’è. Soprattutto svedesi e inglesi, italiani anche, stanno arrivando a frotte, domani è ferragosto. Torno a dormire, i letti sono separati, la Fionda sta dormendo profondamente, nel suo lettino di fianco al mio, che si trova più vicino alla finestra e al balcone dove ho appena fumato. Torno a letto, mi sdraio, poi non so perché, sono le sette di mattina, mi alzo e mi infilo nel lettino di Fionda. Forse ho freddo ai piedi, il sole fuori non scaldava ancora.

Mi infilo sotto al lenzuolo di Fionda che non sente niente, anche se nel sonno si allontana un po’, probabilemtne la sto surgelando, non penso sia troppo piacevole trovarsi all’improvviso un surgelato nel lettino mentre dormi in fase rem, magari stava sognando, però non si sveglia, si sposta soltanto verso il bordo del letto, dall’altra parte del lettino. Mi avvolgo nel lettino e inizio a pensare, ma poco, voglio dormire.

Ci svegliamo più tardi, verso le nove. Oggi è il nostro ultimo giorno di vacanza e vogliamo andare nella punta sud di Lefkadas, dove sulla guida la Fionda – la chiamo Fionda perché torna sempre indietro, come l’elastico della fionda, che lo so che forse sarebbe più appropriato chiamarla Boomerang, però già adesso che la chiamo Fionda in pubblico la gente mi guarda strano, poi guarda strano lei che mi risponde quando la chiamo Fionda, pensa cosa direbbe la gente se la chiamassi Boomerang – ha visto che c’è il famosissimo (?) scoglio di Saffo, cioè lo scoglio dove la mitologia greca, secondo il mito, che è una specie di Vangelo secondo Giovanni ma greco-pagano, dice che Saffo, la poetessa greca madre del lesbismo – infatti in Grecia un’isola l’hanno battezzata Lesbo in suo onore, ma dovrei controllare sul Rocci per vedere se è vero o se me lo sto inventando – insomma, più tardi vogliamo andare a visitare questo scoglio dove Saffo si è suicidata gettandosi dallo scoglio.

Si è suicidata per amore, forse amava Lesbo, non so, comunque amava un’altra donna e secondo il mito greco si è buttata da questo scoglio perché questo amore era andato male, non so cosa era successo, forse non era stato corrisposto e la povera Saffo si era buttata giù dallo scoglio, nella punta sud di Lefkadas. E adesso lo coglio di Saffo era nella guida turistica e noi oggi ci andiamo. C'è anche una bella spiaggia, dice la guida.

Sono sotto il lenzuolo con la Fionda, che in realtà si chiama Pina, la mia ragazza con cui sono in vacanza da ormai due settimane in quest’isoletta greca, si chiama Lefkadas, che l’abbiamo scelta un sabato mattina di luglio quando lei è riuscita a trascinarmi fuori dal letto per andare a prenotare il viaggio in due in motorino all’Eur, in un’agenzia di viaggi specializzata in viaggi ellenistici, no, in viaggi in isolette greche e ci hanno consigliato questa Lefkadas.

Che poi noi a Lefkadas ci siamo affittati un motorino, un cento di cilindrata con le ruote che sembrano copertoni di un camion, un motorino giallo che è un trattorino, va come un bulldozer, e ci siamo girati tutta l’isola, che è tutta in salita e discesa, sarà grande come l’isola d’Elba.

Che da quando ho saputo che Faletti scrive i suoi romanzi all’isola d’Elba un po’ non so come dirlo, mi sento diverso perché prima all’Elba non ci associavo Faletti e il Drive In, ma semmai mi venivano in mente dei weekend a base di bloody mary con il mio amico Gippy, che mi veniva a prendere a Follonica alla stazione, che lui arrivava da Genova in macchina e ci incontravamo lì, che io arrivavo da Roma. Poi, andavamo insieme all’Elba, ma adesso è diverso, sapendo che Faletti scrive lì è molto diverso. Non è più l’Elba di una volta, che magari una sera incontro Faletti in discoteca che firma autografi con il pizzetto e mi viene in mente Drive In.

Insomma, sono sdraiato lì nel lettino e si sono fatte ormai le sette e dieci. La Fionda ronfola beata nel regno di Nettuno e dei sogni, io sono bello pacifico che penso alla campagna acquisti della Samp, all’improvviso sento un rumore sordo che arriva da lontano. Una specie di enorme rutto, ma forse è una frana, poi, dopo un secondo, apro gli occhi e vedo l’armadio che trema. Ci metto un po’ a realizzare, io non vengo da una zona sismica - la Fionda invece è siciliana - quindi è soltanto dopo qualche secondo che mi rendo conto che sta arrivando il terremoto. Che sta arrivando di gran carriera, da lontano. Ma arrivare arriva, non ci piove.

Reagisce molto più veloce la Fionda, che in un batter d’occhio spalanca gli occhi e lucidissima mi urla: “scappiamo, c’è il terremoto!!!!”, intanto vedo le valigie vuote che cadono in terra dall’armadio e sento che trema il pavimento e il letto si sposta di traverso, in mezzo alla stanza e va a sbattere contro il mio lettino vuoto.

Dopo un tempo indefinibile, con l’abat jour rovesciata sul pavimento, in mezzo alle mutande e al costume che era volato dallo stipite della porta del bagno che nel frattempo si era chiusa sbattendo slatabam, mi alzo. Mi alzo con i tempi di reazione di un ippopotamo che stava prendendo il fresco nella savana, magari sull’amaca tirata fra due palme con i Ray Ban addosso e un drink sul tavolino di fianco, cioè molto ma molto in ritardo.

Oppure, più semplicemente, per chi conosce il calcio, dimostro i tempi di reazione di Agostino di Bartolomei, che buonanima era tutto fuorché rapido, però che castagna che c’aveva da fuori area. Oppure di Andrade. Oppure di Evaristo Beccalossi, l’uomo più lento di Milano negli anni ’70, che quando arrivava la metropolitana nel tempo che ci metteva a salire al Duomo la metro era già a San Babila. Lento, insomma, davvero di marmo, sembravo Tomas Skuravy fuori forma, Platinette che corre i cento metri. Insomma, ci siamo capiti.

Il terremoto è qui, il pavimento sta ballando il tagadà, il ciaciacià, batte le nacchere e intanto la Fionda urla sempre “scappa, il terremoto!!!!”, ma intanto lei non si alza.

Sono in piedi, in mutande, mi volto verso la finestra, la tenda bianca svolazza, c’è un vento forte che entra nella stanza. Poi, realizzo in un barlume di lucidità – come l’ippopotamo che alla fine si alza perché sta arrivando una tigraccia famelica che la sta per azzannare – che la Pina non si schioda. Torno sui miei passi e la sollevo di peso, intanto le urlo “Fionda, corri, che fai ancora sdraiata, dobbiamo uscire!!!!”. Intanto il pavimento è quasi di traverso e vedo nell’aria una specie di calce che si mischia alla trasparenza classica dell’aria. L’aria non è più aria, è aria terremotata.

All’improvviso, capisco perché la Fionda non vuole alzarsi, è nuda e si vergogna di uscire così. La tiro su di peso con il lenzuolo addosso, sembra la mummia di Tutan Kamon, con le braccia incrociate davanti al petto, sembra quasi dentro avvolta in un sudario la Pina durante il terremoto, e di peso la imbelino – la getto, in italiano –sul prato, oltre il balcone.

La lancio letteralmente nel termitaio, sul prato, che stavo guardando non più tardi di dieci minuti fa fumando, quando facevo le prove generali di lancio nel vuoto. Poi, scavalco, mi faccio un po’ male nel cemento del terrazzino, ma alla fine siamo fuori, la casa è in piedi, il terremoto sta svaporando. Alla fine passa. Torna il silenzio, ma aspetto un altro fragore, non so perché, me l'aspetto. Che non arriva. Non si sente più il rutto liberatorio della terra, soltanto gli uccelli che impazziti volano in cielo coprendo l’azzurro del cielo greco, questo grande azzurro che torna sereno come se niente fosse accaduto, mentre loro, gli uccelli, cacano nel blu e gracchiano terrorizzati.

Il cuore mi batte come quello di un fondista keniota sul rettilineo finale che sta per vincere le olimpiadi dei tremila siepi. Sono sudato come Maradona nella sua ultima partita, l’addio al calcio, che pesava centosette chili per un metro e sessantacinque di altezza (non si era ancora fatto tagliuzzare l'intestino). Non riesco a tenere ferma la mascella, si muove a scatti regolari, sto digrignando i denti.

Vedo la Pina in piedi, non si è fatta niente, soltanto una piccola sbucciatura al ginocchio, figlia del mio lancio del peso nel prato fuori dal terrazzino. E’ avvolta nel lenzuolo bianco, chiazzato di sporco – verde del prato, terriccio marroncino con qualche cadavere sparso di formica che ha ammazzato atterrando sul formicaio. Intanto osservo che le formiche continuano a raccogliere viveri per l’inverno come se niente fosse. Forse il terremoto non ha danneggiato le loro immense stive sotterranee, cantine ultra fornite con cui probabilmente tengono in piedi un mercato nero degli insetti che d’inverno sanno a chi rivolgersi, quando sono senza roba da mangiare. Soprattutto le cicale (belin, Heather Parisi che tipa che è, allegra). Che secondo me le formiche accettano soltanto i dollari in cash – ma sta bene, la Fionda. L’abbronzatura della settimana di sole e mare spicca sul candore leopardato e ormai compromesso del lenzuolo sporcato. “Sta bene”, penso.

Alzo lo sguardo e vedo il nuovo scenario, come il terremoto ha modificato il paesaggio. Un masso caduto dal soffitto del garage abusivo costruito in mezzo al prato – una struttura in calcestruzzo che serve da tettoia per le auto dei turisti – ha sfondato il cofano di una Bmw 740 targata Stuttgard. Un albero si è schiantato, un albero di ulivo, e giace riverso con i rami che sembrano le braccia di un fucilato, in mezzo alla strada, dove profonde crepe si sono aperte nell’asfalto già rovente per il sole alto.

Sono le sette e venti e mi sono inoltrato a piedi nudi sulla strada, le piante dei piedi bruciano.

La gente intanto si è riversata in massa per strada, lontano dalle pareti delle case, per paura di qualche crollo postumo. Un uomo in costume è rimasto con la schiuma da barba bianca cosparsa sul viso, non se l’è nemmeno tolta, si sta incrostando. Sulla guancia destra, parzialmente rasata, si vede un rivolo di sangue già essiccato. Si vede che la scossa lo ha colto nel momento del contropelo.

Il nostro trattorino giallo è per terra, il cavalletto non ha tenuto, e ora ostruisce il passaggio delle auto sulla carreggiata. Mi avvicino e lo sollevo. Di fianco c’è il camion dello spaccio, che si trova di fronte alla nostra casa, con tutte le angurie che sono volate dal carico. Si vede che stavano scaricando, quando il rutto della terra è sopraggiunto senza preavviso. Una striscia di succo rosso, sembra un rivolo di sangue, esce con lentezza da un cocomero aperto in due, sembra un ferito, infilandosi nelle fessure che si sono aperte sulla strada bituminosa.

I vasi sono tutti rovesciati, un misto di terra e fiori giace dappertutto nel cortiletto della casa. La gente si guarda in faccia e non dice nulla, ancora sotto shock. Di buono c’è che molte donne sono mezze nude, con le zizze di fuori, ma è un attimo. Poi, arrivano loro. I protagonisti.

Sono i nostri vicini di appartamento. Una coppia napoletana, arrivata lì appena ieri. Sono lì in viaggio d nozze. Lui, alto, un marcantonio scuro, forte e possente, avrà sui trent’anni. Lei, una donna fichissima, classico tipo mediterraneo, li abbiamo visti la sera prima sul terrazzino gemello, di fianco al nostro, ci chiedevano consiglio su dove andare, su quali spiagge vedere ecc.

La Pina aveva tirato fuori la guida e gli aveva fatto l’itinerario della luna di miele – Cefalonia che è lì di fronte, Skorpios, l’isola di Onassis, che è poco lontano e altre spiagge in particolare io dicevo Amoussa Bay, che mi ricorda la mussa, che chi è di Genova sa cosa vuol dire, e ovviamente un giorno siamo andati anche lì, la spiaggia della mussa, non me la perdevo per niente al mondo anche se al ritorno in motorino mi ha punto un’ape, che male, nell’inguine che stavamo per volare per terra - ben contenta di mettere la nostra esperienza al servizio dei novelli sposi.

Gli abbiamo anche offerto il caffè, agli sposi, che io le vivisezionavo il bikini, c’avrà avuto una quarta, che in vacanza ci eravamo portati la caffettiera e la moka.

Insomma, lei, la novella sposa, quando la terra ha cominciato a ruttare, è fuggita dal balcone senza aspettare il marito che è rimasto dentro solo e si è beccato una valigia sulla fronte. Gli usciva il sangue. Lei non si era voltata per vedere cosa gli era successo e dopo, quando ero sul prato, dopo, lei era senza reggiseno, mi aveva chiesto se potevo rientrare a vedere che fine aveva fatto suo marito.

Non aveva il coraggio di rientrare, aveva paura che arrivasse un’altra scossa di assestamento. Sono rientrato, ho visto il novello marito sdraiato nel letto, che guardava il soffitto, sotto al lenzuolo, perdeva sangue dalla fronte, e piano diceva “mi ha lasciato qua, non si è nemmeno voltata, come cazzo ci torno a Stuttgard con lei”. Rivolto al soffitto, parlava con il soffitto.

Ovviamente si stava riferendo a sua moglie, la sua novella sposa mediterranea fichissima, che ora stava fuori, con il cellulare in mano – quello aveva avuto tempo di raccattarlo prima di saltare dal balcone sul prato – e piangeva al telefono con sua madre a Napoli. La Bmw con il cofano sfondato era la sua, tra le altre cose. Un regalo d nozze del padre di lui.

Sono partiti in giornata, annullando il viaggio di nozze e tutto. Lo stesso hanno fatto quasi tutti gli italiani dell’isola, gli inglesi e gli svedesi invece sono rimasti. Intanto non ci sarebbe stato spazio sui traghetti per altrove. Le strade erano intasate di auto in fuga dal ferragosto. Noi, io Fionda, abbiamo rimesso in pedi il motorino e siamo andati lo stesso allo scoglio di Saffo.

Sulla strada c’erano un sacco di massi che erano franati durante la scossa, 5,3 della scala Richter. Non c’erano stai feriti, soltanto due scalatori, precipitati da un parete rocciosa a picco sul pare, e gli occupanti di un camper. Un masso gli era volato sul tetto mentre dormivano, erano rimasti intrappolati, ma niente di grave.

Non dimenticherò mai lo sguardo del marito napoletano alla novella sposa, che gli diceva “Antò, guarda un po’ se la macchina si mette in moto, che dobbiamo partire di qua, che io non ci resto manco morta”, con quel seno sodo a vista e la paura negli occhi bassi, la faccia dello scampato pericolo a nascondere la vergogna per la ferita del marito, che copriva di sangue incrostato il lenzuolo in cui era avvolto, pure lui, come la Fionda, sembrava una mummia di Kheope.

Quella notte io e lei siamo rimasti a dormire su una sdraio in riva al mare. La gente, tutta la gente era rimasta all’aperto quella notte, la notte del terremoto. Niente effetto tsunami, soltanto qualche piccola scossa di assestamento. Poi, il giorno dopo, siamo tornati nel nostro appartamento a pian terreno, abbiamo rifatto i bagagli, Fionda mi aspettava fuori che anche lei c’aveva la paranoia di nuove scosse, e siamo partiti per il porto di Igumenitsa, un posto schifoso peggio di Cornigliano, e abbiamo preso il primo posto ponte disponibile per tornare in Italia. Meno male che il terremoto è arrivato il giorno prima del nostro ritorno.

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