talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

24 aprile 2006

E' scoppiata la bugna


Oggi il sole splende e sono felice perché è scoppiata la bugna. C’avevo questa bugna globale nel culo, una pustola tutta rintanata dentro, che mi stava facendo impazzire. Non sapevo più come stare seduto dal male pulsante che mi procurava. Per fortuna, questa mattina, dopo una notte insonne di dolore (mi faceva male anche da sdraiato) – sembrava che tutto il dolore dell’universo mondo si fosse concentrato nel lato sinistro della parte interna della mia chiappa - puf, è scoppiata. Meno male, non riuscivo più a stare seduto.

Detto questo, la storia della mia bugna nel culo è nata tre giorni fa. Non so perché, anzi lo so ma non lo dico, mi comincia a pulsare pericolosamente l’osso sacro. Un po’ più a sinistra del coccige, dove rimangono le vecchie vestigia dell’osso caudale. L’indelebile ricordo calcificato che qualche millennio fa noi essere umani avevamo la coda. Ne è passata di acqua sotto i ponti, oggi abbiamo il silicone, la coda sarebbe davvero fuori luogo sui nostri corpi scolpiti e volendo glabri. Insomma, pulsa che ti ripulsa, ho iniziato a preoccuparmi. La bugna me la sentivo proprio fin dentro al cervello.

A periodi, come molti esemplari del genere umano, soffro di emorroidi. Mi vengono a volte, con sofferenze indicibili, le subisco, le soffro, mi uccidono le emorroidi. Ma questa bugna era esterna. Sul lato interno della chiappa sinistra, tutta rintanata come molti esemplari del genere umano, che preferiscono incistarsi dentro casa, dentro di sé, invece di spurgare quello che gli rode. E invece di uscire si accartocciano su di sé, sembrano contorsionisti chiusi in una cassapanca, come il mago Houdini.

Si vede che a me rodeva di brutto, perché questa bugna, che in realtà è durata poco, al massimo 72 ore, è venuta fuori con prepotenza. Sembrava un fungo che scaturisce dal sottobosco, bello turgido e caldissimo. La chiappa mi pulsava e l’altro giorno quando sono andato a vedere la partita a via dei Serpenti, sembravo un tarantolato. Non riuscivo a stare fermo, lì seduto sulla sedia bianca di plastica. Ero in moto perpetuo, alla vana ricerca di una posizione accettabile per sopportare quel dolore interno, sordo, pulsante. Meno male che abbiamo fatto zero a zero, il mio ondeggiamento davanti al megaschermo è servito a qualcosa.

Il clou della mia bugna, fra fitte terribili che mi hanno quasi portato alle lacrime, è arrivato questa notte alle tre. Mi sono svegliato per il dolore. Stavo sdraiato sulla schiena, sentivo la bugna pulsare, sembrava che mi parlasse o che ballasse una danza ritmata, uno di quei balli africani dove in sessanta intorno ad un fuoco battono insieme i talloni sul terreno. Solo che al posto del terreno c’era la mia povera chiappa, martoriata dal di dentro. E non sapevo cosa fare, se mi rivoltavo sulla pancia era anche peggio.

L’aureomicina, l’unguento che utilizzo per qualunque genere di problema cutaneo, dai brufoletti alle abrasioni ai punti neri sul naso, non mi dava alcun sollievo. L’unica posizione in cui riuscivo a stare abbastanza bene, senza sentire il bisogno di aprire la finestra del cortile interno e urlare dal dolore insostenibile che mi stava mangiando dal di dentro come un topo che mi fosse scivolato nell’intestino, era in piedi. Appoggiato al tavolo di cucina, piegato a novanta, con le braccia puntellate al tavolo, allargando al massimo le chiappe. e mi sono messo così.

Con santa pazienza, mi sono posizionato in questa postura apparentemente sottomessa. A novanta gradi, in cucina, dalle tre alle cinque di mattina. Da solo, io, la mia bugna, una Moretti e i miei crampi alle gambe. Mi sono un po’ distratto, ho fatto le mie parole crociate – stranamente mi venivano bene, la bugna nel culo mi aguzzava l’ingegno – poi, esausto con i crampi alle gambe per la posizione innaturale e quel formicolio bastardo ai piedi addormentati, che devi stare immobile mentre la circolazione torna normale per non stare malissimo anche per quel motivo secondario – sfido chiunque a stare più di mezzora a novanta gradi senza sentire il bisogno chessò, di sedersi, di passeggiare, di sdraiarsi, di farsi fare un massaggio shiatsu – sono crollato dal sonno.

In quella posizione statica e sottomessa, mi sembrava di essere una pecora pronta per la tosatura o un agnello pronto per il sacrificio o un tacchino pronto per essere farcito – si capisce partendo da dove - mi consolavo ricordandomi che le stesse bugne le aveva subite ciclicamente mia madre e anche mio padre. Ora capisco cosa vuol dire diventare adulti. Vuol dire che ti vengono delle bugne nel culo. Si vede che sono somatizzazioni di famiglia -ti rode il culo eh?”, sentivo la mia carognetta personale bisbigliarmi all’orecchio - mentre una piccola scossa elettrica mi saliva dai nervi del coccige fino al collo partendo sempre da lì, il centro della pulsazione universale, la mia chiappa sinistra all’interno, poco sopra l’osso caudale. Perché questo dolore è bastardo: è un dolore sordo, costante, che cresce, che non ti molla, che si propaga a ondate concentriche.

Sono tornato a dormire, mi sono addormentato supino, gambe larghe, con la mandibola serrata per non digrignare i denti e per non urlare. La mia personale soglia di sopportazione del dolore fisico è ridicola, pensa che quando per sbaglio mi pestano un piede faccio delle scene come se mi avessero infilzato con uno spiedo, per non parlare di quando per errore prendo qualche colpo fortuito in uno spigolo. Piango subito, non mi trattengo e grido. Se mi storcono una mano o un braccio, per gioco, non resisto più di due secondi, poi mi arrendo. Se prendo una capocciata, svengo in real time. Perdo i sensi. Se vedo il sangue, divento bianco come un cencio. Quando mi fanno il prelievo del sangue, ho lo sguardo vacuo di un condannato a morte che va alla ghigliottina. Se mi taglio facendomi la barba chiamo l’ambulanza.

Questa mattina mi sono alzato e il dolore era sempre lì, come la bugna maledetta. Prima di addormentarmi speravo che scomparisse per miracolo, prima del risveglio. L’unica cosa da fare era passare in farmacia, comprare il cortisonchemicetina e pregare che succedesse qualcosa. Il coraggio di fare vedere la bugna al farmacista non ce l’avevo. Per sopportare il dolore che cresceva come un climax del tutto simile al Bolero di Ravel, in queste ultime 72 ore – fra le più dolorose della mia vita - ho nell’ordine bevuto litri di alcolici (birra) sembravo un tedesco che dopo mesi di sequestro di persona va a festeggiare la sua liberazione all’Oktoberfest, mangiato come uno che è rimasto chiuso in casa con delle scorte di Jocca e basta, senza nemmeno crackers, per un mese, camminato a gambe larghe in via Merulana che sembravo uno che nella vita fa il cavallerizzo ma invece di montare cavalli monta bufali – allargando le chiappe potevo fare passin passetto una piccola passeggiata, sembravo uno che aveva subito uno stupro di gruppo da una banda di orango tanghi in astinenza da otto mesi – guardato la tivù in piedi, a gambe divaricate, pregato e bestemmiato contemporaneamente.

Poi, all’improvviso, il miracolo. Nella doccia, mi chino in avanti per raccogliere lo shampoo che mi era scivolato, e puf, la liberazione. Lo spurgo, l’evacuazione, lo stappo dell’ingorgo, la rottura della membrana, il parto, il crollo del muro di Berlino, il traforo del Montebianco è iniziato per pressione, la chiappa mi era diventata tutta incandescente, sembrava un boiler dell’acqua calda o unas pentola a pressione dimenticata sul fuoco da due gironi, e finalmente il cratere si è aperto e ha cominciato ad eruttare non so bene cosa, anzi lo so, sembrava lava incandescente. Sono restato venti minuti sotto la doccia, ringraziando mentalmente tutta la schiera di angeli e apostoli e guru e positive thinker e Baci Perugina e cartomanti che hanno ascoltato all’unisono la mia richiesta di aiuto, con un sorriso ebete stampato sulla faccia, me lo sentivo sotto al gonfiore alcolico del volto e delle labbra, non so perché ma stamattina guardandomi allo specchio mi sembrava di avere la bocca di Valeria Marini, che mi ero procurato per sopportare questa puntura che mi tormentava.

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18 aprile 2006

Mail per George Dabbeliu


Il buco dell’ozono esiste, è arrivato pure in Piazza Argentina. Se avessi l’indirizzo di George Dabbeliu, oggi gli manderei una bella mail per dirgli che qua a Roma il buco dell’ozono eccome se esiste, checché ne dicano molti scienziati prezzolati della Casa Bianca. E sto buco mi ha rotto di brutto.

A Dabbeliu gli direi che invece di comprarsi l’ennesimo paio di durango laggiù in Texas, nell’outlet vicino al suo ranch che assomiglia tanto a Neverland, la casa di quel pedofilo del suo connazionale Michael Jackson – che in un ranch secondo me ci vivono soltanto dei lesionati al giorno d’oggi, non ci sono mica più i bufali o gli indiani, Dabbeliù. Comprati un appartamento in città, Dabbeliu, che tra le altre cose c’avresti anche da fare - Dabbeliu farebbe meglio a tirare fuori la Bic dal taschino del suo vestito stile cow boy del Marlboro country o del Denim che non deve chiedere mai, e mettere una firmetta sotto il protocollo di Kyoto.

Perché Dabbeliu, mi sono davvero rotto per colpa tua e del buco che stai pesantemente contribuendo a creare nell’ozono, te le Porsche Cheyenne che ci stanno in giro, per lo più alla guida di madri mashate di biondo che ingorgano il traffico per andare a ritirare i figli a scuola a Piazza di Spagna, di vivere in una città che negli ultimi mesi, con il clima impazzito e le buche che Veltroni si ostina a non vedere – si vede che quando va in giro Veltroni non è mai a piedi, sui sampietrini fra le pozzanghere - si sta trasformando sempre di più in una città tropicale come Bangkok.

Una metropoli asiatica, sembra Roma, dove a fare i miliardi non sono i pusher italo-thailandesi del turismo sessuale, come succede a Bangkok, ma le frotte di cingalesi che girano con gli ombrelli in tasca, pronti da estrarre alla bisogna, cioè un giorno sì e un giorno no, quando Roma si trasforma in un acquitrino. Chissà da dove li estraggono tutti questi ombrelli i cingalesi romani, per venderli quando arrivano i soliti scrosci d’acqua inattesa, che certe volte a Piazza Argentina sembra di stare a Sumatra dall’acqua che viene giù a secchiate. Secondo me, se li tengono nelle mutande gli ombrelli, quando c’è il sole, o embedded, da qualche altra parte, Dabbeliu, vedi che a te ci penso, ti scrivo in inglese, Dabbeliu.

Ma andiamo con ordine. Oggi, verso le 12.45 esco per la mia solita passeggiatina. Pausa pranzo. Vado a Campo dei Fiori, sempre la solita passeggiatina, sono un metodico autistico, mi sembro quasi un metodista del Minnesota, Dabbeliu. La solita camminata purificatrice, per sgranchirmi il cervello, che sto sempre ore e ore connesso al web, fra un po’ mi trasformo in un sito internet che cammina, mi ci mancano solo i pop up che mi spuntano dalle ascelle e i virus che rutto dopo la Ferrarelle. A volte navigo talmente tanto che mi sembra di avere il mal di mare, navigo talmente che mi sembra di andare alla deriva, senza bussola, in questa rete virtuale che mi sembra di andare in giro senza navigatore satellitare – svolta a destra, fra cinquanta metri a sinistra. Stop - in mezzo all’Oceano Indiano, mi sembra di essere quando vado su internet.

Ma torniamo al punto. Esco a Piazza Argentina dalla redazione, comincio a camminare, e dopo qualche metro, sto all’attraversamento verso Largo Arenula, comincia a pioviccicare. Non ci faccio caso, in questo periodo pioviccica spesso e non voglio rinunciare alla mia passeggiatina, l’ora d’aria è un momento catartico per uno che sta ore e ore in apnea dentro al suo pc. Quando mi tolgono la passeggiatina, bhè, divento nervoso, Dabbeliu, mi capisci vero Dabbeliu, e semmai fatti tradurre, ce l’avrai un traduttore lì al ranch.

Comincia a pioviccicare, ma vado avanti. Da notare che per me, che come molti altri metalmeccanici del web journalism (vedi che ti penso, Dabbeliu), farsi due passi fra sessantaduemila megabyte scaricati nel cervello e trentamila battute di articoli e pezzi vari ed eventuali scritti per sbarcare il lunario nel mare magno della flessibilità globalizzata, farsi due passi in santa pace, sotto il sole romano, è un piccolo regalino che mi concedo per resistere a tutte le frustrazioni che tu, Dabbeliu, tu e tutti i tuoi amici, ci imponete mentre fate shopping in qualche outlet texano.

Insomma, io lavoro perché tu ti possa comprare i tuoi vestiti alla texana, i tuoi bei durango, però tu devi fare in modo che non piova a tradimento qua a Roma, lo capisci o no? A metà di via dei Giubbonari, all’andata, comincia a piovere di brutto. E’ troppo tardi per tornare indietro, e come Ulisse mi spingo oltre, fino al panettiere solito, dietro Piazza Farnese, per comprarmi il solito pezzo di pizza bianca mortadella e provola, più un’acqua da 33 cl naturale, Nepi, costo 3.80 euro, anche se oggi me l’ha messo in totale a 3 euro, penso che si sia sbagliato, ovviamente sono stato zitto. La ruota gira, la ruota della fortuna.

Esco dal panettiere, e Dabbeliu, se non ti è venuto un coccolone è un miracolo, perché te ne ho mandate di ogni, Dabbeliu, pensavo a quelle tue camicie a scacchi, blu e bianche, che assomigliano tanto alla tovaglia della Gallina d’Oro, vicino a Termini, e ai tuoi occhi, i tuoi occhi vicinissimi che nemmeno Salvatore Bagni c’ha gli occhi più vicini di te, presidente dei miei stivali, che se ti calcolano il quoziente intellettivo, Dabbeliu, secondo me te la giochi con Flavia Vento (Flavia Wind, Dabbeliu, vedi che a te ci penso).

Tutto per dirti, Dabbeliu, che oggi a Roma in centro mi sono lavato dalla testa ai piedi e che la tua ostinazione a non sottoscrivere il protocollo di Kyoto inizia ad essere davvero molto irritante, considerato che scrivere sai scrivere, anche se dicono che sei dislessico, non è questo il problema. In fondo, una crocetta sarai in grado di metterla, visto che se continuiamo così il tuo amico Berlusca non ti può più invitare in vacanza in Sardegna, te e tua figlia, e che la tintarella al massimo te la potrai fare al solarium che c’è in piazza lì, a Villa Simius o dove c’è la villa abusiva del nostro premier maximo illustrissimo egr. dott. Cav. Perché pioverà sempre anche lì, in Sardegna, Dabbeliu, e tutti i turisti americani invece di venire qua in vacanza dovranno scegliersi un altro posto per andare a rompere i maroni alla gente, loro e le loro macchine fotografiche digitali e le loro pance che sembrano orsi polari che vivono a birra Bud pop corn e il loro classico percorso alla Dan Brown del Codice da Vinci, che si scaricano in digitale sulle loro Canon da seimila ram di memoria e quando entrano al Pantheon invece di guardare la cupola sono tutti lì a guardarsi la camera con l’adesivo americano appiccicato sullo zoom. Ma magari smetteranno di intasarmi Pascucci, sti americani, che quando voglio un frullato devo dribblare più americani che pozzanghere con tutti gli obesi che ci mandi in visita, Dabbeliu.

Sono arrivato all’altezza del Brek, Dabbeliu, che ero fracico d’acqua piovana grigiastra e marcia e mi ero mangiato una pizza bianca con mortazza e provola che sembrava che l’avessero centrifugata in una lavatrice Ariston o Rex, fai tu, e questo non è bello, Dabbeliu. Il buco dell’ozono mi rompe le palle sul serio, soprattutto se penso che oltre ai vari accattoni che mi devo sorbire in ogni caso nella mia passeggiatina quotidiana dell’ora d’aria che li devo dribblare anche quando c’è il sole – quello senza una gamba, che chiede una monetina per favore e soprattutto i mosconi in piazza Argentina: “Conosci Africa?”, “Conosci Greenpeace?”, che mi verrebbe da rispondergli “Ma tu lo conosci Donato Bilancia? è mio zio” - quando piove ci sono i cingalesi che ti dicevo prima. E i cingalesi sono una tassa, Dabbeliu, la tassa dell’ozono sono i cingalesi.

Arrivano a frotte, estraggono questa marea di “ombrellaaaa, ombrellaaaa, vuoi ombrellaaaa” e te li aprono in faccia. Secondo me, trasformano le rose in ombrelaaaa, con qualche strano rito vudù appena sentono arrivare due gocce d’acqua, e arrivano tutti i giorni, ci mancano i monsoni e gli alisei, Gorge Dabbeliu, e poi qua a Roma ci sarà la stagione delle piogge tropicali e sul Tevere ci saranno le chiatte attraverso il Mecong, come in Platoon, che vanno a sfociare dal tuo amico Paparazzinger, che sono sicuro che giocate insieme a scarabeo, via internet, dopo che tu sei andato a farti shopping all’outlet, tu e i tuoi durango con le cuciture che te le avrà cucite qualche sarto paraguayano clandestino che hai regolarizzato in mondovisione perché ti insegna lo spagnolo mentre ti cuce l’orlo della giacca.

Arrivo al Brek, fracico, entro per farmi un caffè e la barista dice: “guarda come piove, ma a me non me ne frega niente, tanto stacco alle otto”. Sguardi di odio puro la attraversano manco fossero raggi X, gli avventori, quasi tutti fradici – nessuno si ferma dai cingalesi, vogliono cinque euro per un ombrellino che dopo due volte che lo apri ti si sfalda fra le dita, ombrellini made in Taiwan assemblati a Piazza Vittorio, sotto casa mia – la trapassano da parte a parte, la fanno a fette con lo sguardo.

La barista si rende conto che ha avuto un’uscita infelice, ma invece di tacere rincara la dose: “Per me, può piovere fino alle sette e mezzo, tanto sto murata qua dietro, a sto bancone e preparare caffè tutto il santo giorno”. Poi scoppia a ridere, guardando la sua collega. Un avventore, fradicio, dalla faccia e dal vestiario ha tutta l'aria di un quadro intermedio del ministero, la guarda e le chiede: “a che ora smonti stasera?”. Lei dice “alle otto, perché?”. Lui dice: “perché ti vengo ad aspettare fuori e spero che c'è il sole e ti riempio di secchiate d’acqua, bella”.

Poi, usciamo, vorrei accendermi una sigaretta, ma la pioggia e l’umido, Dabbeliu, hanno bagnato la pietrina del mio zippo, che non si accende, così sono costretto a tornare indietro, in tabaccheria, e comprarmi l’ennesimo accendino, perché lo zippo è anti-vento, mica anti-pioggia, e da quando tu non firmi sto protocollo di Kyoto piove molto più spesso, il clima si sta tropicalizzando a piazza Argenitina, ma allora tu dovresti mandarmi gli accendini a casa, gli accendini anti- tropicalizzazione. Mi compro l’ennesimo Bic, settanta centesimi non preventivati, li scalo dagli ottanta che per sbaglio ho risparmiato a pranzo, e fatti due conti, Dabbeliu, settanta centesimi qua settanta centesimi là, c’ho più Bic io a casa che calzini lunghi tu, quelli che vanno bene per quando ti metti i durango, quelli belli piegati nel cassetto del tuo ranch texano, Dabbeliu.

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16 aprile 2006

Weekend a Genova


Tornare a Genova è come infilarsi un vecchio vestito. Un vestito comodo, magari non all’ultima moda, però non stringe. Genova è come un maglione di quelli che li lasci nel cassetto, ma che poi se fa freddo ti metti quello perché sai che ti scalda. Era da luglio che non tornavo a Genova, in questo periodo di cose me ne sono capitate tante. Cose grosse.

Quando mi stavo avvicinando a Genova, in treno, facevo il vago. Mi sono immerso nella lettura de “La vita Agra” di Bianciardi, così le quasi sei ore di viaggio mi sono passate. Il libro mi è piaciuto, è bello secco, non lascia molto spazio ai compromessi. Dice le cose come stanno. Sul treno c’erano i soliti stronzi, questa volta erano napoletani ma non è una questione geografica. Sono quelli che si mettono in piedi nel corridoio e per tutto il viaggio parlano a raffica, anzi urlano, senza pensare che delle loro cose non gliene frega niente a nessuno. Di solito questi biechi personaggi, muniti di panini, arance, bottiglie di vino, ci manca soltanto la pasta al forno, invadono con le loro chiacchiere il silenzio del viaggio. Sono da multare per disturbo alla quiete pubblica, perché per me il treno è una questione personale e bisognerebbe stare zitti, leggere oppure guardare il paesaggio dal finestrino al massimo alzarsi per pisciare.

Facevo il vago leggendo, però quando siamo arrivati sulla litoranea per Genova non ce l’ho più fatta e mi sono messo a guardare il mare. C’era un sole che spaccava le pietre, il mare era un po’ mosso, il cielo tesissimo anche se grosse macchie di mare marcio mi ricordavano che è sempre lo stesso mare sporco di sempre.

Mio padre quando l’ho visto ci siamo baciati, non ci baciamo mai, si vede che aveva il culo sporco, non è nemmeno venuto giù in Sicilia per il matrimonio. Ma si vede che è contento di vedermi, così c’è qualcuno che ascolta le sue cose, una volta ogni tanto. Apro il frigo, non c’è manco una birra. Allora esco, vado al Super Sconto, che non si chiama più così da anni, ma per me resterà sempre il Super Sconto, prendo tre Moretti e vado alle casse. C’è un po’ di coda. Soltanto vecchi, perché Genova è fatta di vecchi, ma vecchi veri, dai settanta in su. Sono lentissimi a pagare, contano i centesimi e ci vogliono venti minuti pieni per pagare tre Moretti. La solita Genova, la cassiera voleva le monetine contate, avevo soltanto dieci euro ma non gliele avrei date lo stesso le monetine, anche se ce le avessi avute, perché anche se è giovane, la cassiera, è più lenta dei vecchi che deve servire.

Con mio padre parliamo bene, è tutto mieloso e lecca culo, si vede che è contento di vedermi e me lo dice anche. Non è mai venuto a trovarmi una volta da quando sto a Roma. E’ fatto così, uno stronzo vero, certificato. Però resta sempre mio padre, grasso come un maiale, con quei capelli bianchi pettinati con la riga, sempre Forlani, Arnaldo Forlani, ma soltanto nei capelli. Una volta ce li aveva tendenti al blu, i capelli bianchi, adesso sono soltanto bianchi e basta. E’ vecchio anche lui. Se penso che il Berlusca ha due anni più di mio padre, belin il Berlusca mi sembra Alain Delon da giovane in confronto a mio padre. Però penso anche che se mio padre si mettesse il fard come il Berlusca sto cazzo che lo bacerei quando entro in casa, mi farebbe troppo schifo avere un padre con il fard, a sessantotto anni meglio un vecchio che non fa finta di essere giovane piuttosto che un vecchio che finge di essere suo figlio.

In questi giorni ho visto Gippi, il mio amico Gippi. L’altra sera è venuto a prendermi con la moto. Mi sono messo questo casco integrale, una morsa, strettissimo, e siamo andati a bere in un locale alla moda. Ci siamo messi fuori, si stava bene come temperatura, sotto all’impalcatura davanti alla facciata a berci una birra dopo l’altra. C’erano persone che non vedevo da tempo, ciao ciao, come va, cosa fai, dove sei. Le solite cose. Però erano tutti un po’ più vecchi, d’altra parte anche io ormai c’ho i capelli grigi non soltanto nell’isola davanti, ma un po’ dappertutto. Belin, ci siamo bevuti l’impossibile con Gippi, che secondo me nella pancia del mio amico Gippi c’è una piscina olimpionica dove si deposita tutto l’alcol che si mette in corpo. Dopo qualche pinta, Gippi mi ha raccontato chi è il suo nuovo mito delle folle, il suo nuovo idolo. E’ Gorge best, un calciatore anni ’60, centravanti del Manchester United dai diciotto ai ventidue anni, un puro talento del calcio, un genio dice Gippi. Lì, al bancone dei Mattoni Rossi, Gippi mi dice che Gorge Best è il suo idolo dopo che ha letto la sua recente autobiografia, è morto da poco di alcolismo, Geroge bet, l’autobiografia se l’è comprata in una libreria di Johannesburg, a Piazza mela, in una città satellite di Johannesburg, perché i bianchi in centro non ci possono andare. In realtà, Gippi non legge mai libri, un po’ ne va anche fiero di questa cosa che non legge. Però, mi ha raccontato Gippi che quel libro l’ha comprato perché stava puntando una figa in libreria e per darsi un tono è uscito con un libro in mano. La tipa, non l’ha cagato nemmeno di striscio, però adesso George Best è il suo idolo, perché è un poveraccio dell’Irlanda del Nord, prelevato a 15 anni dai talent scout del Manchester United, capocannoniere della Coppa Campioni a 19 anni e a 25 anni già finito come giocatore perché era già alcolizzato. Non ha retto al successo, diceva Gippi, come dargli torto, tutta quella pressione, non ha retto. Geroge Best è l’idolo di Gippi per ché è morto alcolizzato però è stato anche un grande calciatore.


Nella mia di pancia c’è un secchiello, di quelli che usi al mare, con la paletta, dopo un po’ inizio ad andare al bagno, quando bevo devo andarci tante volte, sono sempre in coda e ascolto le cazzate della gente. La coda del bagno è sempre un osservatorio privilegiato. C’era una che si è truccata per venti minuti davanti allo specchio. Mascara su mascara, si guardava di fronte, di profilo, di tre quarti, le ho detto stai bene, tranquilla, lei non ha risposto, poi le ho chiesto, mi fai un po’ di posto,. Mi lavo le mani, non si smuoveva, allora l’ho spinta un po’ di lato, lei infastidita. Guarda bella che lo specchio non è tuo, poi entrava e usciva dal bagno.

C’era una mi ex, ci siamo salutati, lei era venuta a vivere con me qualche mese a Milano. Mi ha raccontato una cosa che mi ero assolutamente dimenticato. Una volta, a Milano, lei si era appena rotta un piede, lei mi ha detto che io le ho lasciato un biglietto sul tavolo di cucina con disegnato sopra un pac man, era un giovedì, e le avevo scritto “ciao, vado a Genova, torno lunedì, il frigo è vuoto, ho mangiato tutto”. Ecco perché avevo disegnato il pac man, non capivo.

La mia ex diceva che questo bigliettino lo aveva raccontato a tutte le sue amiche e che ancora oggi, a distanza di anni, ne parlano. Per fortuna oggi ne ridono, non mi ricordo come l’aveva presa quella volta. Ma orami è acqua tirata nello sciacquone del cesso. Però è stato divertente parlare con la Ale, lei c’era quando lavoravo alla Mit, l’azienda di trasporti che per arrivarci a Milano prendevo la Vespa, era ottobre, e quando pioveva mi prendevo tanta di quell’acqua che arrivavo al lavoro e mettevo i pantaloni sul termosifone e me ne portavo un paio di ricambio. Una volta c’era un’allegra di scarafaggi che passeggiava sul monitor del pc al Mit a San Donato, non mi stupisce che dopo qualche tempo ho mandato sonoramente a fare in culo il capetto del posto, uno che si presentava al lavoro con la cravatta e gli stivali da cow boy. La mia ex diceva che ero un po’ nervoso in quel periodo, poi ti domandi perché, con gli scarafaggi sul monitor del pc l’atarassia mi sembra un obiettivo un po’ troppo lontano. La mia ex mi dice che adesso quello con cui sta, che sono contento che si è messa con uno subito dopo di me e ci sta ancora insieme, ogni volta che passa davanti alla Mit e la vede dalla tangenziale pensa a me. Non mi ha mai visto, però c’è della solidarietà nel suo sguardo verso il nome della Mit, solidarietà nei miei confronti. La mia ex secondo me l’ho traumatizzata perché dopo che se n’è andata non ci siamo mai più sentiti, era contenta di parlare con e l’altra sera, dopo anni ci siamo parlati e bene. A volte ci vogliono anni per riuscire a chiarirsi, la mia ex l’ho traumatizzata. Ma se sta con il suo uomo adesso e ci sta da così tanto tempo un po’ è anche merito mio, indirettamente, dopo che è stata con me si è rodata. Ero un po’ flashato quando parlando dei suoi uomini ha detto che io sono stato uno dei suoi tre uomini importanti della vita, la cosa mi ha flashato perché per me non so perché ma io lei l’ho rimossa completamente. Si vede che era un periodaccio, con gli scarafaggi sul monitor del pc, ci è andata di mezzo pure lei che per un sacco di tempo ci vedevamo soltanto nei weekend, lei stava a Roma e mi prendevo quel bell’Eurostar e mi sembrava di andare in vacanza, ma un conto è il weekend un altro la vita vera insieme, fra quattro mura e il frigo vuoto. E’ durata quattro mesi poi è scappata.

Oggi con mio padre siamo andati a mangiare l’agnello giù da mia zia. Buono. Mio padre si è messo dei pantaloni, di solito è in tuta o in mutande, è grasso come un maiale, e nei pantaloni dietro mancava un passante e la cintura era tesa direttamente sulla camicia. Era da una vita che non lo vedevo con la camicia, di solito è in canottiera. L’altra sera stava mangiando della polenta col formaggio direttamente dalla pirofila di vetro. Ce n’era una quantità spropositata, gli ho chiesto, ma non è un po’ troppa, non riusciva a finirla, ma di solito finisce sempre tutto per non buttare via niente. Però, si vedeva che era troppa la polenta. Allora gli ho detto di buttarla nel water, io faccio sempre così quando c’è qualcosa da buttare, la butto nella tazza, così non mi resta a marcire nella rumenta. Non ha voluto buttarla nel water, aveva paura che rimanesse a galla forse, non c’è stato verso, allora l’ha buttata nella rumenta.

L’altra mattina sono andato in banca, dovevo depositare un assegno, ho fatto una coda di mezzora alla Carige, c’era un vecchio talmente vecchio che per firmare il suo nome su un documento ci ha messo dieci minuti. Tutti a chiedere informazioni sulla pensione. Età media 82 anni e mezzo. Poi, il vecchio allo sportello sembrava che avesse finito e ha fatto per girarsi ma era una finta.

Ieri sera Gippi mi è venuto a prendere con la sua Bmw, non la moto la macchina stavolta. C’ha una Bmw nuova lunga tre chilometri. Quando sono sceso, stava guardando la televisione, è incorporata nella macchina. Secondo me, dietro nel portabagagli c’è anche un bagno, nella Bmw di Gippi. Secondo me Gippi dovrebbe fare il testimonial della Bmw. Siamo andati ai Sillo, c’era vento e pioveva però ci siamo fatti un bell’aperitivo, un sillone ci sta tutto anche sotto la pioggia. Scendendo agli scogli si scivolava e parlavamo di figa, non so se fosse più scivoloso il muschio sotto le suole delle Puma o l’argomento donne. Io le donne non ci acchiappo mica tanto, mi sembra che per lo più sono delle bucce di banana, mas magari è colpa mia, ma non credo, sono proprio delle bucce di banana anzi le donne sono come un pavimento che hanno appena passato la cera per terra o una distesa di ghiaccio in discesa, che porta verso uno strapiombo. Pericolo mortale sono le donne, soprattutto quelle fiche e beneducate e con le tette grosse e tutte lisciate e carine, che poi dentro c’è sempre la sorpresina, un bell’uovo marcio dentro c’hanno ste donne.

Poi, siamo andati nell’entroterra, ad Avegno, sui monti dietro a Recco. Gippi ha spento la tele nella sua Bmw e ha messo il satellitare, parlava con voce di donna – sono dappertutto ste donne – dopo un po’ siamo arrivati a questo ristorante con i nani finti davanti, cementati ai fianchi dell’ingresso. C’era anche Gian e Chef e la mia ex e sua sorella. Abbiamo mangiato tutti come cessi. Gian raccontava la sua esperienza a Barcellona per l’addio al celibato di un amico. E’ andato a visitare il Nou Camp. Aveva le foto nel cellulare, niente Sagrada famiglia, ma il suo primo piano abbracciato ad un cartonato di Ronaldinho e la foto delle scarpe di Ronald Koeman, quelle con cui segnò il gol della vittoria del Barcellona contro la Sampdoria in finale di Champions nel ’92.

Siamo andati in una balera vicino ad Avegno, ero pieno di alcol come un uomo sodo. Poi, siamo andati a Nervi, in un locale. Erano più o meno le due di notte, ero embriego fracico e uno mi chiede una Fortuna. Gliela do. Eravamo fuori sulla passeggiata, il tipo che mi chiede la sigaretta è lacero di alcol e forse anche di altro. Comunque, c’ha qualcosa di marcio nello sguardo, qualcosa di sospetto. Si accende la sigaretta, mentre parlo con Gippi sento un tonfo. Non l’ho visto cadere di sotto, sugli scogli di sotto. Ma ho sentito il tonfo. Il tipo lacero ha fatto due tiri della mia Fortuna, poi si è lasciato cadere oltre la ringhiera sulla passeggiata di Nervi. L’ha fatto apposta, dicono quelli che hanno visto. Mi sporgo dalla ringhiera e vedo la gente che lo mette seduto, sembra vivo, però il coccige almeno quello ce l’ha lasciato lì, sugli scogli.

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09 aprile 2006

L'amore per Sofia


Un po’ di tempo fa, di fronte ad una scamorza fumante pronta per entrare nel mio stomaco, un amico mi domanda a bruciapelo perché a suo tempo ho deciso di studiare filosofia. La scamorza continuava a fumare, ma dopo questa domanda non so perché non avevo più fame. Mentre vedevo quel ben di dio che andava in fumo, trasformandosi in un pezzo di formaggio colloso, ho iniziato a pensarci.

Poi ho risposto che non lo sapevo davvero, ma che al momento di dover scegliere ero andato per esclusione. Fin da piccolo alla domanda classica cosa farai da grande non ho mai dato una risposta. Continuo a pensare che avevo ragione allora, a quell’età come fai a sapere cosa vuoi fare da grande. Il mondo dei grandi ti sembra sempre così lontano, perché porsi dei problemi così grandi?

Non sono cambiato troppo da allora. Quando incontro qualcuno che pensa di sapere cosa sta facendo, che è convinto al 100% di quello che dice, che non ha un briciolo di dubbio, non so perché quella persona mi fa paura. Quelli che hanno le idee troppo chiare secondo me sono noiosissimi, mi viene da sbadigliare subito. Sai già che non cambieranno mai opinione, e chi ha voglia di discutere con chi non è disposto a mettersi in discussione? Chi invece ammette i suoi errori, quelle persone le stimo perché vuol dire che sono consapevoli dei milioni di piccole correzioni che costantemente limano e modellano il nostro stare nel mondo.

Quando avevo cinque anni mi ricordo che andavo a dormire e prima di addormentarmi mi domandavo chissà come sarò a otto anni. Poi, arrivavo a otto anni e mi domandavo chissà come sarà avere undici anni. A undici facevo lo stesso per i tredici, e così via. Poi, a un certo punto, ho iniziato a non domandarmelo più.

Ecco, forse per questo ho pensato che la filosofia poteva essere una buona scelta, almeno avrei smesso di farmi domande stupide per dedicarmi a questioni serie. Se per questioni serie intendiamo qualunque cosa, perché l’amore per Sofia, quella gran gnocca di Sofia della filosofia, è l’amore in sé per il sapere, la curiosità e lo sbalordimento, come diceva Aristotele, di fronte a qualunque scoperta. Per questo mi piace la settimana enigmistica, perché è tuttologa.

Ovviamente, era un errore, pensare che la filosofia fosse qualcosa per barboni eruditi, perché la filosofia è l’amore per la vita e per gli uomini che vivono e muoiono come possono, perché la filosofia non è nient’altro che continuare a porsi domande per le quali non c’è una risposta ma continuare a porsele. E’ come amare una donna, la filosofia, c’è la domanda, la risposta a volte arriva (raramente positiva) ma quello che conta è amarla, quella gran gnocca di Sofia.

Poi, un motivo che mi ha spinto a studiare la filosofia, quella gran gnocca di Sofia, è che l’idea di fare l’avvocato o altre professioni come quella non mi piaceva per niente. Non so bene su quali basi, però a pelle gli avvocati, i dottori, i professionisti in genere non mi hanno mai attirato come persone, mi sembravano Big Jim e io ho sempre preferito Diabolik, che stava con Eva Kant, dai, la zia di Immanuel. A volte li invidio, i professionisti, perché mi sembrano così sicuri di sé. Poi mi passa, abbastanza presto, quando penso alla cravatta è un attimo, mi passa.

Il fascino del filosofo invece l’ho sempre subito. Sarà per quei busti di marmo, che ritraggono Socrate e Platone, sarà perché mi piaceva leggere cose di cui non capivo niente, sarà perché si mettevano sempre quelle larghe tuniche addosso, che sembrava che stessero comodi vestiti così, a passeggiare peripatetici sotto la stoà a sparare le loro minchiate spacciandole per cose serie.

Ma soprattutto, sarà perché la mia prof di filosofia al liceo era una capra e non potevo credere che la filosofia si riducesse alle lezioni di questa prof tremenda, una donna sanguigna e bruttissima. Sofia per me, forse l'ho già detto, era una gran gnocca. Ero convinto di questo.

Ecco, un’altra delle ragioni che mi hanno spinto a studiare filosofia all’università di Genova è stata questa: la bruttezza e pochezza intellettuale della mia prof di filosofia. Una donna davvero spiacevole, era anche gobba ma portava sfiga lo stesso. Forse, se la prof di filosofia fosse stata diversa, magari più femminile e più carina, avrei fatto l’avvocato. Chi lo sa, questione oziosa tipica del filosofo, tipica di me, che non interessa a nessuno. E magari oggi avrei una riga di sacchi e di Sofia mi sarei già stancato, quella gnocca che non ho mai incontrato.

Un’altra cosa che mi ha spinto a scegliere filosofia era che mio padre non voleva assolutamente che la facessi, filosofia all'università. Poi, il fatto che c’erano soltanto 19 esami per concludere il corso di laurea, era la facoltà con meno esami di tutte, e pensavo che così facendo mi sarei laureato – la laurea, come voleva mio padre – con il minimo sforzo studiando cose “interessanti” e poi avrei cominciato a lavorare prima, diventando indipendente perché la ricerca di Sofia notoriamente ti porta lontano nella vita. Che illusione, pia illusione. Ma senza illusioni dove sarei adesso, e dove sarebbero tutti gli altri che come me si illudono di poter raggiungere qualcosa di più (le mutande di Sofia)?

Mi è sempre piaciuto studiare. Lo so che di solito la gente non lo dice a voce - a voce alta - però nel mio caso è così. Leggere, studiare, imparare cose nuove e sconosciute, cose lontane dalla mia vita di tutti i giorni, è una delle attività che mi danno più soddisfazione da sempre. Proiettarmi fuori di me, fuori dai vincoli della vita di tutti i giorni, per me è una necessità mentale, una questione di igiene mentale. Senza curiosità non sarei più io, e Sofia sarebbe una donna in carne ed ossa.

Poi, ho sempre pensato che la cosa che più mi attirava della filosofia era il metodo, la forma mentale che ti inculca il procedere filosofico, fatto di piccoli passi in avanti, dopo molti passi indietro, di lato, a zig zag. Insomma, mi sembrava che la filosofia, in definitiva, fosse la cosa più vicina alla mia indole, scettica e cinica, quasi nichilista e con i piedi piatti. Secondo me la filosofia ha i piedi piatti.

Le cose che ricordo dei miei studi sono pochissime. Ricordo di aver studiato tantissime cose, teorie di ogni genere, dalla metafisica dei costumi all’etica. Nomi strani, teorie dure da digerire. Quando lessi "Essere e tempo" di Heidegger, sono stato così suggestionato dal dasein e mi sono talmente immerso nella lettura del geworfener entwurf, che mi sono preso un’influenza e sono stato a letto una settimana, io che non mi ammalo mai, almeno fisicamente, ho una salute di ferro.

Alla fine, il pensiero filosofico non è consolatorio per niente, è un rasoio di Ockam piazzato sul culo che ti fa il pelo e contropelo appena metti il piede in fallo, cioè tutti i giorni, per un fantasioso come me è come incontrare il casellante di Busalla quando non hai una lira per pagare il tragitto e contemporanemanete ti si è smagnetizzato il bancomat.

Non ci sono facili soluzioni, soltanto l’onesta ammissione dei nostri limiti, accompagnata al sano esercizio di metterlo in quel posto a quell’Ockam, con il suo rasoio a farti barba e capelli sulle tue chiappette strette.

Però, che dire, capire qual è il campo di gioco della nostra esistenza è già un bel passo in avanti, almeno sai a che gioco stai giocando, te ne rendi conto prima che sia tutto finito in un puf inconsapevole e cerchi in qualche modo di vivere meglio che puoi, con la tua bella dose di umiltà e realismo e legittime aspettative di felicità o quanto meno di serenità. Aspettando sta Sofia, che palle.

Studiando, i concetti che più mi sono rimasti impressi sono pochissimi. Il ruolo dell’immaginazione produttiva nel sistema delle categorie kantiane è uno di questi, secondo cui l’immaginazione è la facoltà più importante perché tutto l’apparato razionale di cui l’uomo si vanta possa funzionare. Un uomo privo di immaginazione e fantasia non ha grosse chances di capire cosa vuol dire vivere, perché applica la ragione senza rendersi conto che la sta applicando, lo fa meccanicamente e non c’è niente di peggio della vita meccanica, anche se facendo il robot soffri meno. Però, godi anche molto meno. Se fai il semplice robot, ma alla fine mi basterebbe ssere un meccanico o un idraulico, se potessi fare un bel rewind a cinque anni direi voglio fare l'idraulico. Ma c'era già Sofia, che tramava, nel mio lettino, femme fatale d'una Sofia.

A volte, l’autocoscienza filosofica è una spina difficile da sopportare per chi si sente filosofo. A volte sarebbe bello liberarsi di questa eterna coscienza di sé e delle proprie azioni, che è lo strumento principale del pensiero filosofico. E’ un esperimento impossibile, eliminare la coscienza. Se sei filosofo non smetti di esserlo mai, nemmeno quando sei al bagno (ti porti il cruciverba) nemmeno quando stai imbarcando una tipa (lei se ne accorge subito dal fumo che ti esce dalle orecchie per fingere di fare la persona seria, impersonando l'immagine del filosofo che c'è incastonata nel suo cervelletto).

Non so se riesco a spiegarmi. Una delle cose che mi ricordo del mio corso di filosofia è la massima di Wittgenstein:

“wovon man nicht reden kann, darueber soll man schweigen (ciò di cui non si può parlare è meglio tacerlo). In soldoni, se non sai una roba, stai zitto.

Che alla fine vuol dire che uno dovrebbe parlare soltanto delle cose che conosce, in qualche modo. Ma questa massima fa a pugni con la natura umana, soprattutto quella del filosofo, che è immaginifica e fantasiosa in sé, per sé e per gli altri. Penso di avere ragione in questa cosa, perché altrimenti non si capirebbe il successo di riviste come Novella 2000, che vivono di gossip e sono i manuali di filosofia dei nostri giorni (ci sono anche le foto). Manuali che anzi proliferano e si arricchiscono con il sentito dire, non mancano mai nei templi della fitness e nei saloni di parrucchiera, cartine di tornasole del gradimento filosofico contemporaneo.

Siamo infarciti di atteggiamenti filosofici anche senza saperlo. L’uomo non può fare a meno di immaginare e pensare e soprattutto parlare di cose che non conosce, perché la curiosità e la meraviglia e l’immaginazione e la fantasia che prova di fronte all’ignoto lo spingono ad esprimersi su ciò di cui non sa, pensando di poter incidere sul serio sulla realtà, sul corso degli eventi. Se no, perché la starei ancora cercando, Sofia?

E’ così, Wittgenstein, non puoi pretendere che non si parli e non si sogni e non si immagini qualcosa di diverso, qualcosa di più rispetto a quello che si conosce e che ci è dato sapere. Qualcosa di diverso da quello che si può vedere e sentire nella minima cerchia di spazio e tempo in cui siamo immersi, in cui ci muoviamo. Lo capisci o no, Wittgenstein, si vede che ai tuoi tempi la tivù non c’era ancora.

E’ questo il pungolo del filosofo, andare oltre ciò che ci è concesso sapere per sapere di più, per sapere dell’altro. Altrimenti, l’uomo resterebbe sempre ancorato alle sue certezze, non si avventurerebbe oltre il suo naso, resterebbe attaccato alle sue cose ma soprattutto lo farebbe serenamente invece di sentirsi ingabbiato nella sua piccola e insignificante raltà e routine quotidiana come un criceto che corre nella ruota ed è contento di farlo. Ma l’uomo per natura vuole di più. Non lo fermi, con la ragionevolezza. Lo sappiamo tutti e due, Wittgenstein, basta che ascolti le discussioni della gente al bar. Ti sembra che parlino di cose reali? No, della realtà ne hanno abbastanza, vogliono tutti Sofia.

Un’altra cosa della filosofia che mi piaceva era che fare il filosofo non è un mestiere. Fare il filosofo è un po’ come fare il figo, non serve a niente e a me le cose inutili non so come mai mi sono sempre piaciute. E’ un modo di essere, l’inutilità, una specie di sfregio a tutta questa produzione, a tutto questo sudore versato sul lavoro, sulle relazioni, sul mantenimento di un’integrità e di una coerenza che ne ha ammazzati di più del vaiolo, la coerenza e l’integrità. Sono tutti cicatrizzati integrali e coerentemente cicatrizzati.

Per questo è possibile che un lattaio sia filosofo, e anche un benzinaio o un commesso di Trombetta siano più tosti di Kant. E’ vero che ci sono delle regole e tutto il resto, ma la filosofia più che altro è uno stato mentale, nasce da un amore. L’amore per Sofia, non l’ho mai incontrata Sofia, non la conosco. Scherzo, dai, l’amore per la conoscenza. Anche se Sofia mi piacerebbe conoscerla, prima o poi, Wittgenstein o no. E mi piacerebbe anche vedere una puntata della ruota della fortuna con Kant, Raffo e il lattaio di via trento, secondo me vince il lattaio, sono quasi sicuro.

Insomma, la filosofia è l’amore per la conoscenza. A me conoscere cose mi dà soddisfazione, conoscere cose e persone, scoprire comportamenti e reazioni, usando tutte le mie facoltà, tutti i mezzi, studiando, aprendo gli occhi e chiudendoli, facendomi male spesso e volentieri, senza rinunciare però ad andare oltre i miei limiti. So che è un piccolo inganno, non è possibile andare oltre, allora diciamo meglio, accettando i miei limiti, ma cercando di sfruttarli al meglio, nel bene, per essere contento di me devo sentirmi stanco alla sera, cioè che ho fatto muovere il cervello e tutto il resto. Perché puoi conoscere le cose anche soltanto guardandole, toccandole e annusandole oppure mangiandoti un bel piatto di parsoti al sugo di noci. Priam o poi, Sofia, ti ci porto nei vicoli e davanti ai pansoti mi svelerai il tuo mistero (magari sei una gran culona, ma va bene così, sono tollerante per natura).

Dai sensi alla parte di intelletto che mi è stata concessa e che tento di coltivare più che posso, leggendo i giornali e ascoltando la rassegna del gr parlamento ogni mattina, alla radio, prima di uscire, ancora rontronato di sonno. Perché il filosofo deve tenersi al corrente, deve leggere, si deve esercitare, deve muoversi mentalmente, non può chiudersi dentro di sé, come un Leibniz qualunque monade che non sei altro, Leibniz pensavo che fossero soltanto dei biscotti e invece è un filosofo pure lui. Un parruccone incipriato, quel Leibniz. Come Kant, sì Immanuel, che se va bene è fratello di Eva, la donna di "lui", Diabolik (che tra parentesi, inter nos, se per caso qualcuno mi dice il nome di battesimo di Diabolik, giuro che lo invito a cena dove vuole. Questo è un tarlo che mi mangia dentro da anni luce: come si chiama veramente "lui", Diabolik? quando vanno a letto, "lui" e Eva Kant, lei cosa gli dice: "lui", ti prego, sì, ancora; "lui", come fai a essere così maschio; "lui", che muscoli che hai; "lui" sei crudele ma è per questo che ti amo, "lui").

Non può rimanere ancorato, il filosofo, a convinzioni che passano, è inevitabile per lui (non per Diabolik, cretino, il filosofo) cambiare idea. Perché ci sono troppe idee per pensare perché che ne esista una sola superiore alle altre, più degna delle altre, più vera delle altre. Tutte le idee sono degne di rispetto, hanno pari dignità, un po' come le quote rosa, come tutte le persone, più o meno, hanno pari diritti, a parte i genoani. E Sofia, che se la incontro uno schiaffone se lo merita, sarete d'accordo, spero. Bisogna tollerare, aprire la mente, cercare di capire gli altri. Se non sparano troppe minchiate, se no poi ti uccidono di minchiate e non ti ripigli più e non è giusto farsi sommergere dalle minchiate altrui, come si legge nel famoso trattato sulla stupidità umana del Cipolla.

Ricordo che dopo la laurea giurai a me stesso che non avrei mai più aperto un libro di filosofia in vita mia. La promessa l'ho mantenuta fino ad oggi, che in un solo giorno, a dieci anni dall laurea, mi sono letto in serie "L'arte di essere felici" e "L'arte di trattare con le donne" di quel simpaticone di Schopenauer, un tipo che ti mette di buon umore, soprattutto il giorno delle elezioni, quando ti cachi sotto di restare altri cinque anni sotto il teleshopping del nostro paese. Uno che dà fiducia, insomma, quel Schopenauer. Che dopo oggi, secondo me prima che riapro un altro libro di filosofia passano altri dieci anni. Allegria, come direbbe Mike, leggiti Schopenauer e riparti di slancio.

Mi ero rotto le palle di studiare e di restare nel mondo delle astrazioni. Mi sono costretto a prendere in mano la realtà dal lato del trapano, a imparare a fare delle cose manuali, leggere un libro di filosofia mi sembrava inutile ecc. E’ durato per un po’ questo ostracismo per la filosofia, ma mi è passata. Questo rifiuto della cultura, che mi sembrava una cosa inutile, che mi serviva soltanto a soffrire. Poi, ho cambiato idea. Alla lunga, se sei filosofo non c’è niente da fare, te la tieni. Magari non sarai capace di cucinare un fantastico piatto di pasta con un sugo delizioso, però avrai sempre dalla tua il tuo cervello in movimento, le tue passioni lì, dentro di te, ansiose di saperne di più. Di muoversi. Non so se sono riuscito a spiegarmi. Spero di sì, adesso c'ho fame e quindi spero davvero che tu abbia capito, perché me ne voglio andare e non ho tempo di dilungarmi in discettazioni (tiè, beccati sot parolone per l'intanto).

Comunque, a onor del vero, se ho scritto sta sbrodolata assurda che, sarai contento tu per primo è in dirittura d'arrivo, è perché la Samp ha perso oggi a Empoli (settima sconfitta su otto partite) e dovevo far passare il tempo senza rischiare di accendere la tivù, per questo sono addirittura venuto al alvoro, oggi che è domenica, per non aver la tentazione di prendere comunque in mano il telecomando e fare hara hiri con el mie dita minchione e zappatrici (nel senso di zapping, ovviamente, Sofia lo dico per te perché ho idea che tu sia un po' rincoaway orzoway).

Belin, se andiamo avanti così la B è più di una chimera metafisica, belin Socrates resta con noi signore la sera, non farmi pensare che l'anno prossimo siamo di nuovo in B e magari c'è il derby, con loro, i genoani che vengono su e ci incontramo di nuovo a metà strada. Va bene che il mondo è fatto a scale, ma mentre cerco Sofia fatemela cercare con la Samp in A, cosa vi costa, intanto Sofia non la trovo, lo sappiamo tutti e due. E secondo te, scusa, se ero seduto davvero davanti a una scamorza pronta e fumante la lasciavo freddare così, sparando minchiate su Sofia, che se va bene va a letto con qualcun altro da anni e anni? Va bene tutto, ma un po’ di sano realismo a volte non guasterebbe mica.

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08 aprile 2006

La stagione delle piogge


Oggi a Roma c’era il sole, mi dirai che novità. E no, è una novità, sono sei mesi che piove sempre a Roma, anche se sui depliant turistici ci vedi sempre e soltanto la foto di Gary Cooper o Cary Grant, è lo stesso, in Vespa con dietro Anita Ekberg. In questi sei mesi a Roma sembrava di stare a Bangkok, pioveva sempre, lo sanno bene il mio culo bagnato, che mi sono venute le piaghe sul mio motorino, che oggi c’è ancora il sellino impregnato d’acqua, filtrata nella gomma piuma, di tutta la pioggia di questi sei mesi. Che forse lo dico piano la stagione delle piogge è passata. Belin, era l’ora.

Oggi c’è il sole e allora ci facciamo un bel programmino con la Pina. Prima la spesa, veloce, che se no finisce come l’altra settimana che il frigo sembrava il deserto del Madi, non riuscivo a dormire per la fame e mi sono toccati i Cioco Pops, che non c’era niente altro da mangiare. Ci facciamo la speedy-spesa, poi un bel giretto turistico in città non ce lo leva nessuno.

Andiamo al Sir e ce la sbrighiamo rapidamente, sto diventando un professionista della spesa, a proposito, se qualcuno vuole che gli faccio io la spesa, basta dirlo. Gli faccio la consegna a domicilio, cinque euro più la benzina, se volete vi faccio la spesa base io, senza bisogno della lista. Ormai sono standardizzato.

Sono un professionista soprattutto nella spinta del carrello, è la cosa che mi viene meglio in assoluto. Dribblo che sembro radiocamondato, non scontro nessuno, passo liscio negli interstizi dove nessuno oserebbe mai avventurarsi, fra vecchiette, bambini, nonni tutti accatastati lì, davanti al 3x2. Poi, lì al Sir, ormai mi muovo come una donna in profumeria, con leggerezza, sembro una pattinatrice sul ghiaccio, mi ci manca il tutù.

So anche consigliare le signore sui formaggi – “no, quello no, signora, prenda quell’altro, quello con il pepe”, "grazie ragazzo" – E sono talmente magister spesarum de sacchettibus sex aquas ferrarellis che entro con gli occhiali da sole e ci vedo, al neon del Sir. Sono da vista, gli occhiali, sembro Poncherello alla guida del carrello, ma non ho bisogno di girare con il doppio paio di occhiali, sono multi tasking a livelli che un coltellino svizzero davvero mi fa una pugnetta.

Sono talmente multi tasking al Sir che mentre spingo faccio rotolare nel carrello le cose con la forza del pensiero. Ho sviluppato questo nuovo potere neuro sensoriale, io le robe esposte abbiamo un rapporto magnetico, gli basta il mio sguardo, che dico, il pensiero e scivolano nel carrello. Lo voglio brevettare, il mio metodo, però prima devo verificare se funziona soltanto al Sir oppure se è replicabile anche in altre catene di supermarket – per cui mentre spingo penso “cavatelli, volate nel carrello, non fatevelo ripetere due volte che se non compro i rigatoni” - perché comunque se la metti sul competitivo funziona meglio anche con la pasta.

E voilà, i cavatelli volano di filata nel carrello. Non so se mi spiego. Gli yogurt oggi li ho saltati – non mi sono fermato davanti al frigo dei latticini, a casa ho fatto scorte per i prossimi sei mesi, ho 46 confezioni di yogurt che maniman restavo senza, prese da Trombetta tre giorni fa - perché l’ho detto, questa cosa del professionismo della spesa la sto prendendo sul serio e mi esercito con piccoli raid infrasettimanali al supermarket. Bisogna allenarsi, come quando vai in palestra, che se no gli addominali si allentano.

L’altra volta da Trombetta, sotto casa, c’era una ragazza di colore che sembrava uscita direttamente da East Enders, la mia soap opera preferita quando stavo a Londra, per capirci la versione londinese di Un posto al sole versione suburbi, che da un po' stopensando di proporre alla rai una versione in inglese di un posto al sole, A place in the sun, il orblema sono i doppiatori. Aveva un paio di mocassini rossi questa donna di colore da trombetta, troppo vistosi, rossi, si vede che non era italiana, perché erano dei mocassini eleganti e le italiane al supermercato ci vanno scasciate. In tuta ci vanno al supermarket le italiane, con i figlioletti e i bigodini ancora addosso, però al cellulare organizzano le loro scappatelle, almeno questo capita al Sir, mentre scelgono che tipo di senape comprare e alla fine prendono sempre quella di Digione, perché si vede che fanno la settimana enigmistica anche loro. E lo sanno tutti che Digione è la città della senape.

Dopo il Sir, torniamo a casa, smistiamo le vettovaglie, mi faccio un mega frullato kiwi e mele – sto smaltendo una paccata di kiwi che non finisce più, ho fatto le scorte l’altra settimana, per beneficienza, poi i kiwi dice che aiutano contro l’impotenza, non è ancora un mio problema, ma non si sa mai, prevenire è meglio che combattere, e comunque i kiwi dal nome mi sembra che sono il tipico nome di un frutto pieno di vitanime a b e c, magari e, mercurio, sodio, potassio, che sicuramente fanno bene, e magari senza saperlo fanno bene anche contro i brufoli, che in questi giorni mi sembra di essere la controfigura di qualche film di gangster, che c’ho la fronte che sembra crivellata di pallottole sanguinolente, invece sono cadaveri spremuti di brufoli – e siamo pronti per uscire.

Oggi, il tour soleggiato alla Cary Grant lo decido io. La Pina sono due giorni che è annoiata, quando dice così è un casino, mi ha raccontato sua mamma che la prima volta che ha detto “mi annoio, sempre le stesse cose, mangiare, dormire, mangiare” andava ancora all’asilo. Avrà avuto tre anni. Oggi aveva anche le voglie capricciose, si è comrata le fragole al Sir. Come dire, una ragazzina precoce, pensa adesso che è una donna bella e fatta, una professionista, e che il mio compito dovrebbe essere quello di intrattenerla e riempirle la vita. Pensa come sta messa la Pina, ma pensa come sto messo io, con le mie carcasse di brufoli spremuti sulla fronte.

Meno male che c’è il sole, e la porto su all’Aventino. Guardiamo san Pietro dalla fessura della chiesa, si chiama la Porta dei cavalieri - l'ho letto su Google - che si vede la cupola così, in miniatura, e lei comincia a concedere i primi sorrisi tirati, manco mi facesse un favore a me che l’ho portata in uno dei posti più belli di Roma.

C’è un matrimonio, in una chiesa lì, vicino al buco della serratura da dove si vede San Pietro che da lì sembra quasi bello, ci affacciamo in chiesa e la Pina se ne va via schifata. Gli sposi stanno per uscire, lei dice “andiamo, va, che è meglio”. Non commento, oggi c'è il sole, all’uscita gli invitati sono pronti con il riso e i fiori da gettare sulla coppia. Noi, per non saper né leggere né scrivere, ci spostiamo in un parchetto di fianco, si vede benissimo il Tevere, penso che il mare, quello vero, a un fiume gli farà sempre il culo sul terreno dell’acqua. E' come la scianca fra una piscina e una vasca da bagno, può anche chiamarsi Jacuzzi ma la piscina è meglio, anche se non puoi metterti con i piedi attaccati al getto della Jacuzzi che è una sensazione da fanta pedicure.

Tornando indietro, senza volerlo, vediamo l’uscita degli sposi. Lancio di riso moscio, invitati trattenuti, lui porta capelli alla Ridge di Beautiful, e se li ravviva sembra uno di Io Donna, che fa la pubblicità del balsamo Wella. Sembra finto. Lei non si vedeva, era nascosta da una tenda da campeggio, un canadair, ma forse era il vestito da sposa.

Siamo entrati dentro al cortile di un’abazzia, Sant’Anselmo, bellissima, con una fontanella che lanciava in verticale un pisciuelo d’acqua molto riposante e fino fino, mosso dalla brezzolina - sarà il ponentino - che si stagliava di fianco alla statua in bronzo del santo, il santo con il naso più adunco della storia dei santi, sembrava il naso di Franco Battiato, anzi la statua era una statua di Franco Battiato travestita da Sant’Anselmo. Sullo sfondo c'era una palma, sembrava di vedere Franco battiato in un'oasi, ci mancava il cammello. Ci dobbiamo tornare all’Aventino, perché in quel cortile di sera d’estate ci fanno i concerti spiritual.

Poi, scendiamo giù sul Lungotevere, la porto a villa Celimontana la Pina, che quando si annoia è meglio metterla al sole, che c’è un bel calduccio. Mi fermo dal giornalaio, sono le due, la saracinesca è già mezza abbassata, gli chiedo “che me lo dà il Corriere?”. Il giornalaio se ne stava andando, mi guarda un po’, mi squadra, e dopo tre secondo mi dice “vabbè, và, te lo do il Corriere”, dice ed è completamente sdentato, ma belin, c'hai l'edicola, rifatti i denti almeno per magnà ti servono.

Sorrido, gli sdentati mi piacciono di loro, mentre entro mi fa “attento alla capoccia” ma prendo una testata nella saracinesca abbassata, ma c’ho il casco, per fortuna, non mi faccio niente, ridiamo, esco e andiamo a sdraiarci sul prato di Villa Celimontana.

A villa Celimontana leggo il giornale a torso nudo, torso di mela, mi levo anche le scarpe e le calze, mi piace sentire l’erba sotto i piedi, poi stamattina mi sono lavato, non puzzo, e la maglietta c’ha le macchie bianche che prima non capivo mai cos’erano ste macchie, l’ho capito da poco tempo, è il deodorante, che quando mi infilo la maglietta mi lascia il bianco, che quindi non è sporcizia. Leggo delle elezioni, che prima in motorino ho controllato dove devo andare a votare, in via Bonghi. Al Caimano ieri a Napoli gli urlavano “duce duce” in piazza, stiamo messi bene, e del corpo a corpo fra Bossi e la Mussolini ad una delle prime riunioni storiche della Cdl.

Poi, arriva prima una barbona che vuole una sigaretta. E’ una barbona ma porta gli occhiali più belli della storia del cinema, meglio di quelli di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany. Gliela do. Poi, uno con il cane che ci chiede una cartina. “Non ce l’ho”. I raggi Uva mi penetrano nella pelle, le lenti dei miei nuovi occhiali da sole fanno il loro porco lavoro, grande acquisto dall’occhialaia marpiona vicino a San Lorenzo, che mi lisciava tutto mentre mi consigliava “una montatura particolare per un uomo particolare” (a quanti clienti l’avrà detta questa stessa frase?) poi, i morsi della fame sono arrivati puntuali come la domenica sportiva.

Andiamo a via dei Giubbonari e ci sfondiamo di pizza al taglio, con una Moretti. Seduto lì, masticando con mandibole efficienti e competitive, vedo una ragazza che si scioglie dall’abbraccio pitonesco del suo uomo, sento una donna dare appuntamento al suo amante che intanto “mio marito va a vedere la Roma”, noto l’insegna del Monte di Pietà sotto l’enorme bandiera del banco di Roma e toccandomi la fronte sento che i miei brufoli si stanno assorbendo mentre rutto di gusto l’ultimo sorso di Moretti.

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07 aprile 2006

Fame notturna


Stanotte mi sono alzato, intorno alle due. Non riuscivo a dormire. Ma me la potevo evitare, la nottataccia. So benissimo perché non riuscivo a dormire, avevo fame. Ero andato a letto con troppa non chalance, senza ascoltare i richiami della panza che borbottava in serbo-croato.

Mi alzo, alle due, dopo che mi ero rivoltato nel letto sperando di distogliere l’attenzione dalla fame. Mi alzo, consapevole che in frigo non c’è una mazza. Soltanto un pacco di wurstel – non me la sono sentita di mangiarmeli così, crudi – e una vasca piena di kiwi. Nella credenza, soltanto dolci; Kit Kat, ovetti di cioccolato, Bridge Blandning – il sacchetto di dolci dell’Ikea – che i dolci quando hai fame di cose salate non sono la soluzione giusta, ti fanno sentire come uno che si vuole comprare una Bmw e finisce con la Skoda.

Mi rassegno, e scelgo il meno peggio. Decido di giustiziare la confezione di Cioco Pops, le palline di non so che cosa, zucchero e cioccolato, con la confezione che c’è sopra una scimmietta. Un alimento estraneo alla mia vita, al quale ricorro esclusivamente perché non ho altra scelta. Apro il sacchettino plastificato dei Cioco Pops, la scimmietta della confezione mi guarda e ride, porta calzoncini corti e scarpe da ginnastica, si vede che è disegnata per un target giovanile, anzi per bambini.

I Cioco Pops sono una degenerazione dei Corn Flakes, lontanissimi parenti del muesli, che invece – a piccole dosi – mi piacciono pure, soprattutto di notte non so perché mi viene voglia di latte. Apro il frigo, verifico la presenza di un rimasuglio di latte – scremato, da mezzo litro, già aperto – e verso il tutto in un bicchierone da birra, di quelli grossi. Rovescio i Cioco Pops nel bicchiere, sono marroncini di cioccolato, sono simili a delle patatine. Poi, verso il latte. Non ricordo se in passato ho mai mangiato dei Cioco Pops, ma diversamente dal muesli e dai Corn Flakes, loro, le palline marroncine, non si ammorbidiscono a contatto con il latte.

I Cioco Pos galleggiano. Sono come boe nel mare, sono come palloncini in una vasca da bagno. Più latte verso, più galleggiano. Alla fine, quando il livello del latte è al massimo, le palline cominciano a rotolare fuori dal bicchiere, ticchettando sul pavimento della cucina. Alcune palline isolate rotolano nel lavello, per fortuna è vuoto, non ci sono piatti da lavare. Le raccolgo e me le infilo direttamente in bocca. Non mi azzardo a rimetterle nel bicchiere, provocherei un disastroso effetto domino.

In quel momento lì, saranno le due e dieci, sono seduto lì, in cucina, con questo bicchierone di latte pieno di Cioco Pops davanti, che raccolgo uno ad uno con le dita, perché stanno trasbordando dal bicchiere e mi rotolano dovunque, sul tavolo, per poi cadere sul pavimento. Prendo un cucchiaio, tento di mangiare come dio comanda, ma non c’è stata l’amalgama fra Cioco Pops e latte. I due elementi è come se si respingessero. Rimpiango l’assenza dei muesli e dei Corn Flakes e decido di giustiziare una volta per tutte i Cioco Pops per non dovermeli più trovare nella credenza, alle due di notte, in piena emergenza de panza.

Mentre faccio tutto questo, penso alla fermata di Piazza Vittorio, ci sono stato in giornata. C’erano due cose che non mi quadravano, di giorno alla fermata: la prima, non c’era il solito menestrello che suona la chitarra appena entri nel tunnel. E’ un menestrello che deprimerebbe anche un seguace new age al top della forma fisica. Canta soltanto canzoni di Guccini, di Masini, di Baglioni, di non so chi altri. E’ un attentato alla tua giornata. Nel tragitto a piedi sul linoleum nero della metro fino alle barriere per scendere ai treni, la voce potente del menestrello di Piazza Vittorio ti hanno già triturato i timpani che senza difesa subiscono questo assalto di depressione, magari mentre invece vorresti o dovresti ripartire di slancio, verso una nuova giornata lavorativa e produttiva. Non gli ho mai lasciato una monetina per principio, a sto menestrello. Da un lato, sono contentissimo di non dovermelo sorbire, dall’altro non so perché la prima cosa che mi viene in mente è “dov’è Guccini?”.

Timbro il biglietto – uno davanti a me bestemmia perché non riesce a infilare il biglietto nella macchinetta, e la manda vaffanculo, alla fine, la macchinetta, quando esasperato passa vicino al gabbiotto dell’Atac e chiede aiuto, sostegno perché è sul punto di esplodere in una crisi di nervi irrefrenabile davanti all’obliteratrice – scendo giù e mentre aspetto la metro, con la radio in sottofondo e Metro chiuso sotto braccio, vedo un mega poster di Alena Seredova – la fidanzata strafica di Buffon – che sponsorizza una nuova linea di lingerie.

La lingerie è fucsia, ma la cosa strana non è che la faccia di questo cartellone, la faccia ritratta lì della Seredova, si trova esattamente all’altezza del volto di chi aspetta la metro, no non è questo che mi stupisce, anche se comprendo il trucchetto di marketing che ispira chiunque si trovi lì a baciare quel volto perfetto nei lineamenti e ad appoggiare la testa, mollemente, su quel seno color fucsia. Che tra l'altro prova a cercare la Seredova sulle immagini di Google, cercavo la lingerie ho trovato una serie di calendari che secondo me dal mio meccanico la Seredova ha spodestato l'altra, dai, la Chiappini.

La cosa che mi colpisce del mega-cartellone della Seredova, appeso lì sotto terra, è il fumetto che qualche cittadino in attesa, con un uniposca nero, ha scritto sopra la bocca della Seredova: immaginati la classica nuvoletta dei fumetti, poi, dentro, c’è scritto:

VOTA BENE!

Vedendo questo messaggio subliminale, ho provato un profondissimo rispetto per colui che ha inventato il cartellone elettorale più efficace delle storia del marketing politico. Complimenti, chiunque tu sia, sei il mio graffitaro preferito. E non importa che dal finestrino della metro, una volta in moto verso la mia Porta, abbia visto miriadi di Alene Seredove campeggiare sulle pareti delle altre fermate deturpate da uniposca più prosaici, con ciuffi evidenti nel basso ventre, capezzoli finti, denti neri e commenti scurrili che le uscivano dalla bocca, nella solita nuvoletta non elettorale. Quello che conta è che anche Alena Seredova diventa un veicolo politico, lì a Piazza Vittorio, in attesa della metro. Un veicolo interattivo, fra Buffon e la cittadinanza votante.

Per dovere di cronaca, nel cartellone di fianco a quello della Seredova c’era la pubblicità di una scuola di portamento a via Veneto, se non erro, ma magari erro e semmai me ne frego, erro – due pezzi di figa alte un metro e ottanta, mezze nude, con un boa color pesca – e lì sopra il graffitaro politico si era un po’ più sbilanciato, scrivendo:

VOTA FINI!

Certo che Buffon è messo bene. Anche perché come lingerie mi sa che non ci mette tanto a levargliela di dosso, alla sua fidanzata. Per il resto, quando ho finito i Cioco Blocs mi sono bevuto finalmente il latte, che era diventato leggermente marroncino, poi me ne sono andato a dormire con l’impressione di aver mentito a me stesso, mangiando un rimasuglio immondo della mia credenza, e giurando a me stesso che le scorte alimentari sono una cosa seria e che la prossima volta che vado al supermarket devo pensare agli attacchi di fame notturna.

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05 aprile 2006

Lo chef consiglia


E’ un momento di vuoto al lavoro, così da bravo blogger consumato scrivo un po’. Scrivo un po’ a casaccio, che è la cosa più divertente di essere un blogger, cioè che scrivi quello che ti pare sul tuo blog. Che non c’è mica la censura, sul tuo blog. O no. Prima cosa, mi viene da scrivere di politica. Fra qualche giorno ci sono le elezioni. Secondo me la gente è contenta che questo strazio sta per finire. Dopo l’uscita di ieri del Berlusca, quella dei coglioni, si spera che anche gli indecisi vadano a votare. Soprattutto quelli del centro sinistra.

Bella davvero l’iniziativa auto convocata della sinistra di eri, qua a Piazza Argentina, con la gente che si dà da sola dei coglioni. Non male veramente. Tra l’altro c’erano delle belle ragazze, ieri sera, che ridevano con quel bel foglio con scritto sopra sono un coglione. Meglio di uno spot preparato, in effetti le cose che vengono fuori così, auto convocate e spontanee vengono fuori meglio.

Adesso sono in redazione, domani chiudiamo il numero del giornale, e oggi mi sono portato avanti per il prossimo numero. In effetti, lavorando in questo modo, in un quindicinale, la cosa è questa: ci sono dei picchi di lavoro. Soprattutto all’inizio delle due settimane. Quando si programmano i contenuti per il numero successivo. In quel momento, dopo che si decidono i contenuti, quando sai a grandi linee cosa e quanto dovrai scrivere, sei come un cuoco che gli hanno passato l’ordinazione.

Sei come il cuoco, in cucina, con un sacco di piatti da preparare. La prima cosa che fai, cerchi di organizzarti un po’ ai fornelli. Tiri fuori gli ingredienti, poi cerchi di capire quali sono quelli che ti mancano e che ti dovrai procurare, magari chiamando e intervistando qualcuno oppure facendo delle ricerche. Insomma, all’inizio delle due settimane ti trovi con tutta la roba da fare davanti insieme, disorganizzata. Quello che devi fare è cominciare a cucinare.

Non a caso, la cucina di redazione è una specialità del giornalismo. Io di mio penso di essere un buon cuoco, uno chef discreto, anche se dipende un po’ dalle volte. Per lo più, i pezzi mi vengono abbastanza bene, hanno un livello minimo di accettabilità, data da quella che la gente normalmente chiama il mestiere. Perché in effetti, a furia di scrivere, il mestiere ti viene. Se no non scrivi più. Ma penso che questo valga un po’ per tutti i mestieri.

La cosa che mi piace di più del mio lavoro è che di solito le cose non vengono mai fuori come te l’aspetti. Un articolo magari te lo immagini in un certo modo, poi alla fine vedi che va in tutt’altra direzione. C’è quasi sempre l’imprevisto, il casino, devi ingegnarti in qualche modo. E se accetti tutto questo, allora va bene, la prendi nel modo giusto, il modo possibilista.

Non sono certo un cuoco nella realtà, un bravo cuoco. Però, immagino che il massimo del godimento per uno chef sia vedere il suo piatto mentre si prepara, magari aggiungendoci di volta in volta qualche ingrediente nuovo, qualche spezia. La stessa ricetta non viene fuori con lo stesso gusto, ogni volta c’è qualcosa, un tocco diverso. Non so se riesco a spiegarmi, ma me ne fotto. Se non capisci, non so, non leggere.

L’altra settimana ho visto il Caimano, al Sacher. Mi è piaciuto. Mi è piaciuto il personaggio di Michele Placido e anche Silvio Orlando mi è piaciuto. La storia era pure divertente, a tratti. Al di là dei contenuti politici. Mi ha fatto impressione vedere la scena del Berlusca al Parlamento europeo in dimensioni di schermo cinematografico. Non siamo abituati qua in Italia a vedere i nostri politici in uno schermo diverso da quello tivù. Vederli al cinema li cambia totalmente, forse perché in ogni caso il cinema uno lo associa all’entertainement e vedere un pezzo tivù, che ritrae una delle peggiori figure di merda del tuo paese all’estero, riproposta sul grande schermo fa più impressione.

Oggi sul giornale c’erano molti commenti sull’uscita del coglione. Gian Antonio Stella ha scritto un articolo divertente, anche se a me la mia giornalista preferita è Concita de Gregorio. E’ lei la mia preferita, la mia penna preferita. Voi che ne pensate? Chi sono i vostri giornalisti preferiti? Vabbè, oggi scrivo così, a vanvera. E poi c’ho fame, c’ho sempre fame in sto periodo mi mangerei un montone anzi, mi mangerei una bella trota al carpione, che sono anni che non me la magno. Ce la pappavamo sempre con mio papà in Val di Susa, di ritorno da sciare, mi sembra dal Sestrière. E voi che vi magnereste ora come ora? Di salato, i dolci un’altra volta.

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03 aprile 2006

Il mondo visto da una scarpa


Il talebano sale sulla metro alla fermata Arco di Travertino. E’ un talebano originale, col turbante bianco sembra un sich, ma è un talebano. Ha la pelle olivastra, il turbante gli arriva all’altezza del culo. E’ tutto arrotolato, sembra una coda di cavallo, poi indossa una tunica di un bell’azzurro scuro, tendente al blu. Il talebano porta le Adidas, sono blu scuro con le tre strisce bianche, abbastanza nuove, un po’ impolverate e indossa un paio di calzini da querela, cortissimi, gli coprono a malapena il malleolo, di spugna, con due bande rosse. Il talebano è un talebano sportivo.

In realtà, che il talebano porta le Adidas è la prima cosa che vedo, perché da tre giorni cammino guardando le scarpe della gente, sto raccogliendo materiale per scrivere un racconto, il titolo è “Il mondo visto da una scarpa” ed è questo qua che sto scrivendo.

Il talebano si piazza con le sue Adidas ai piedi davanti all’uscita e guarda fuori dal finestrino, guarda il muro del tunnel mentre la metro va sottoterra. Sono seduto e lo guardo di spalle, è in piedi nella piattaforma di una di queste nuove carrozze della metro, con la tivù.

“Re di Roma, apertura porta destra”, dice la voce metallica, è maschile questa volta, altre volte è femminile. Sale un uomo nero, nero proprio, ha i jeans larghi, la giacca di jeans e sotto una camicia larga verde e bianca. Porta le Adidas, sono bianche con le strisce nere. Sono di un modello molto diverso da quelle del talebano, assomigliano di più per capirci alle Stan Smith, anche se non sono Stan Smith. I lacci sono spessi e slacciati.

In realtà che l’uomo nero porta le Adidas è la prima cosa che vedo, perché da tre giorni cammino guardando le scarpe della gente, sto raccogliendo materiale per scrivere un racconto, il titolo è “Il mondo visto da una scarpa” ed è questo qua che sto scrivendo.

L’uomo nero, che al lobo sinistro sfoggia un maestoso orecchino d’oro che riluce come una palla da discoteca sulla sua pelle scurissima, si piazza dall’altra parte della porta della metro, di fianco al talebano, soltanto che l’uomo nero guarda verso l’interno della carrozza. Il talebano invece continua a fissare il muro del tunnel che gli passa davanti agli occhi sottoterra. L’uomo nero porta a tracolla uno zainetto dell’Invicta. Probabilmente vive in Italia e non è un vucumprà.

Fisso il pavimento della metro a caccia di scarpe, ma non riesco a disotgleire lo sguardo dalle Adidas del talebano, che sopra la tunica azzurra indossa un leggero gilet marroncino. Il talebano sotto la tunica indossa una tuta da ginnastica, i pantaloni di una tuta da ginnastica, sono larghi, lasciano scoperto il polpaccio, glabro, e mettono in bella vista queste calzette blu cortissime con doppia banda rossa e le Adidas.

Alla fermata successiva sale una signora di almeno sessant’anni, dalla mole imponente, sembra la mole Antonelliana – ha un culo mastodontico e indossa una maglietta aderente a maniche corte, zaino in spalla e borraccia, sì hai capito bene, borraccia alla bocca che beve che sembra un San Bernardo – che secondo me è tedesca o austriaca ed è una turista oppure una pellegrina, sfatta da una giornata di tour de force fra i monumenti e le ascelle dei romani. Porta le Adidas.

Alzo lo sguardo e controllo le facce dei miei vicini di metro, siamo quasi a San Giovanni, mi domando se qualcuno di loro non sia un emissario della Adidas che sta filmando il nuovo spot dell’Adisas. Perché su quella piattaforma della metro uno direzione Battistini c’è concentrato tutto quello che c’è da concentrare in fatto di razze, a parte qualche americano e ungherese e belga di lingua fiamminga, e tutti portano le Adidas.

Non vedo nessun volto da cameraman, nessun volto sospetto, mi tranquillizzo, poi penso che in effetti se fanno lo spot dell’Adidas in quel momento non è un’idea furbissima, che io sono salito in metro a Porta Furba e vado a Piazza Vittorio. Non è un’idea furbissima perché io indosso le Puma, gialle e grigie, e come me molti altri, soprattutto ragazze, indossano delle Puma, che sono fra i maggiori competitor dell’Adidas. Mi tranquillizzo, non c’è nessuno spot a tradimento tipo candid camera in corso delll'Adidas.

Intanto, la donna dalla Mole Antonelliana - belin, ma quanti wuerstel si è calata per avere un culo così giganteco? - si appoggia ai tre sostegni centrali della piattaforma e fronteggia da un lato l’uomo nero (finte Stan Smith) dall’altro il talebano ("calzettini" - come dice mia madre, la Guldina - da querela). Il talebano che con quelle calzette e il polpaccio a vista sotto la tunica mi sembra davvero l’anti sesso, ma forse le talebane – ma esistono? Mi sa di no, però anche i talebani scopano – non hanno mai visto quello spot del whisky che c’è il tipo che sta per trombarsi una sorseggiando il suo bicchiere di whisky ma alla fine lei non gliela dà perché a lui gli si vedono i calzettini corti, bianchi, sotto a un bel paio di jeans mentre accavalla le gambe.

Pensa te che sfiga, stai per farti una però a lei gli scende tutto quando ti vede con i calzettini corti. Poveraccio, te l'eri pure giocata bene. E dire che bevevi l’whisky giusto e fino a quel momento non avevi detto cazzate, tanto che lei era lì lì per smollartela in saldo con tutto ciò che ne consegue ma poi ti è salito il pantalone (singolare).

Tornando alla metro, alzo lo sguardo e vedo una panoramica di scarpe da panico, una distesa di scarpe, perché nelle nuove carrozze della metro, lunghissime, non ci sono più interruzioni, praticamente potresti camminare avanti e indietro nella metro per ottocento metri – la lunghezza del serpentone del treno – senza trovare una porta.

Vedo scarpe nere, scarpe da ginnastica, scarpe comode e scarpe da lavoro. Le scarpe che mi fanno più schifo nella vita, sono quelle da lavoro, cioè quelle serie di cuoio, con le cuciture in risalto. Di solito, chi le indossa barcolla oppure c’ha la camminata scivertata, sai quelle camminate che tira il piede molleggiato in avanti, come nel gesto di volerle lanciare via, le scarpe. Ma gli restano, di solito le scarpe con le cuciture hanno i lacci e non vanno via facilmente.

Ok, adesso inizio il mio racconto, si intitola “Il mondo visto da una scarpa”. In questi giorno, sta arrivando l’estate, mi sono reso conto che molte donne sono sceme. Ne avevo già avuto qualche sentore, però molte donne me lo confermano in questi giorni, che fa un caldo primaverile nella capitale, infilandosi proprio in questi giorni degli stivaloni caldissimi.

Belin, c’è un sole che spacca le pietre del Colosseo, fa caldo che si suda, e tu cosa fai alla mattina? Ti infili stivaloni di pelle invernali, con tanto di collant e panta collant? Allora sei rinco, scusa, stivaloni da saloon, tipo durango, con sto caldo. Belin, ma allora te le meriti le caldane che ti verrano nelle gambe in sti giorni, scusa. Donna che non guardi le previsioni del tempo e che chissà perché ti infili stivaloni invernali, magari minigonnata, con collant ultra caldo, in questi giorni che finalmente è partorita la primavera. Belin, tirala fuori la gamba invece di inguainartela adesso che ci sono 28° all'ombra, belin.

Vabbè, ste donne qua sono come quelli che si mettono le scarpe senza calze a dicembre, con un freddo della madonna, e ti assicuro che se ci fai caso ce ne sono molti. Si vede che di gente strana in giro ce n’è a pacchi, le donne poi le persone le battono tutte, sia di sesso maschile sia di sesso femminile, ste donne con gli stivaloni. Invece, altre scarpe che vedo a pacchi in giro in questo periodo sono le ballerine, o comunque scarpe basse, con belle calze multicolor a righe orizzontali. Ottime, brava.

Ieri sera, mi stavo bevendo una birra a Monti, ho visto una donna che i suoi piedi secondo me a casa li poteva mettere a fare lo stufato di patate. Senti qua. Indossava gonna sopra il ginocchio senza calze – però faceva un freddo bucefalo, dopo il tramonto non fa mica ancora così caldo, oh donna donna – e i piedi le stavano esplodendo dentro a questi sandali con tacco alto.

Erano rossissimi, i piedi, sembravano come quando mia zia fa la cima, una specie di mega-involtino ripieno di carne trita, piselli, uova sode, che alla fine lega tutto con dello spago. Quei pedi secondo me non ci stavano più dentro da mò i quei sandali. Però, lei ostentava indifferenza, faceva la vaga, soffriva in silenzio, si era fatta uscire il sangue dal labbor e dalla lingua per non urlare di dolore, c'aveva vesciche purulente nei talloni ecc. Stava soffrendo le pene dell’inferno e contava letteralmente i passi per arrivare a casa a farsi un pediluvio, ma soffriva in silenzio.

Poi, sempre lì a Monti, ho visto una che tornava da sciare. Non c’entra niente, però lo dico lo stesso, la vedo sempre la domenica, lei che torna da sicare, con i carving in spalla, abbronzata, che torna a casa dopo una sciata. Brava e anche bona, poi porta le Adidas anche lei. Ma c’è per caso una spectre dell’Adidas, in giro?

Eppure un po’ di tempo fa, raccogliendo materiale per il mio racconto “Il mondo visto da una scarpa” (questo che sto scrivendo) ho letto che la Nike è incarognita nera con la Adidas che gli ha copiato un brevetto delle suole molleggiate. Ma si può rompersi le palle a vicenda fra Nike e Adidas e spendere miliardi di dollari in spionaggio industriale per ste cose qua? Ma ce l'ahho il canale all news della Cnn alla Nike oppure si sono fatti installare soltanto il pacchetto della Disney?

Secondo me la killer application nel settore delle sneakers (le scarpe da ginnastica) è la scarpa che non puzza. E’ questo l’aspetto più importante di tutto il mercato, senti a me, pubblicitario sfigato della Nike che fai causa alle Adidas perché ti copiano il design delle suole. Fatti furbo. Pensa alla puzza.

Perché la puzza, secondo me, è molto più grave del calzino corto. Parlo a voi maschietti, mi raccomando, lavarsi i piedi, ma soprattutto controllate lo status quo e il modus vivendi delle vostre scarpe quando ve le togliete, perché questa è la prima impressione che darete di voi mentre vi state spogliando, magari per la prima volta a casa di lei.

Questo mi fa pensare a quella volta che portavo i miei sandali ultra fighi della Timberland, vado a casa di una, è la prima volta, e non so cosa fare: so che se me li tolgo infesterò la stanza, un monolocale. Lei va al bagno, io corro al lavandino in cucina, mi tolgo i sandali, mi lavo i piedi in un nano-secondo imbalsamato con il Sole Piatti (lo adoro, molto meglio dello Svelto, poi non screpola le mani, in più sa un po’ di sapone di Marsiglia), getto i sandali nel lavello - fortunatamente vuoto) creo un bagnomaria in real time e voilà: nel tempo che lei si fa la toilette Ibidet, ceretta, si infila il diaframma, studia il pentagramma ecc. che comunque io sapevo che il diaframma stava più o meno vicino alla pancia, sbaglio? - evito di essere catalogato come quello che gli puzzano i piedi. Che non è mai un buon biglietto da visita, fidati, quasi peggio che se ti puzza l’alito, se la giocano.

Altre scarpe. Le Camper, ma a me piaceva il modello quello con la suola che sembrava spugnosa, quadrate davanti, non mi piacciono troppo quelle che fanno adesso, che sembrano un po’ scarpe da calciatore anni ’30. Questa moda di riproporre modelli antichi in veste nuova e sbarazzina, camuffando il modello delle scarpe da calcio anni ’30 per scarpe da tempo libero, mi ha sempre dato fastidio. Mi sembra una presa per il culo. Peccato che la gente ci cade sempre, come quando lanciano la nuova Vespa che sembra un modello di Lambretta degli anni ’50, però poi c’ha lo starter elettrico e nemmeno la pedivella ci mettono, sti deisgner che secondo me gli puzzano anche i piedi, gli puzzano i piedi in inglese ma gli puzzano lo stesso. Perché la puzza di pedi è come l'esperanto, lingua universale è, direbbe Montalbano.

Altre scarpe. Le Stan Smith. Sono Adidas, hanno un validissimo perché, poi al ginnasio erano le scarpe più fiche da mettersi, soprattutto le ragazze con la gonnellina corta, le calzettine (che a loro gli stavano bene, mica non come al talebano). L’unica cosa, le Stan Smith, ti rimanevano sempre i sassolini in mezzo alla suola, per non palrare del vero dramma delle suole: calpestare una merda per strada con addosso le Timberland.

Che le Timberland saranno anche delle belle scarpe, però secondo me il signor Vibram doveva pensarci, a questo piccolo particolare, che il carrarmato in città è un’arma a doppio taglio. A chi non è mai capitato di pestare una bella merda, magari senza accorgersene, e di trasportarla in casa, sul tappetto, sulla moquette di qualche amico o cose imbarazzanti di questo tipo. Hai voglia a dire “porta fortuna”, signor Vibram, signor Vibram, già il nome è un po’ come dire ambiguo, però di sicuro non starai simpatico a molte persone che si sono davvero smerdate per colpa tua. Lo stesso vale per chi ha inventato la suola delle Doctor Martin’s, anche quelle ne raccolgono, per strada, se metti il piede in fallo.

Però, parlando di spiacevoli infortuni scarpistici, non posso dimenticare il calcio che mia madre diede una volta ad una merda in via Trento, sotto casa, carica di due sacchetti stracolmi del Super Sconto, una merda colossale, sembrava una merda di cavallo – ma cosa gli danno da mangiare le vecchie ottuagenarie di via Trento ai loro cani, crusca e muesli? Prugne della Sunsweet, per farli defecare così violentemente fra le mattonelle sconnesse di via Trento? – un calcio, mia madre, che era estate e portava le infradito.

L’ho vista lanciare un sacchetto del Super Sconto contro una macchina parcheggiata e l’ho sentita con queste mie orecchi bestemmiare, si può dire, e secondo me è stata anche perdonata senza nemmeno confessarsi, che non può, è protestante. Poi, ha mollato tutta la spesa sul marciapiede - mi rocordo che ho recuperato i Ciocorì - è entrata dal lattaio che le ha lavato il piede samrronato sotto la pergola, con la canna dell’acqua e un diserbante, se non ricordo male. Mia madre digrignava i denti, già che odia i cani. A parte questi piccoli inconvenienti, a me le infradito piacciono e me le metto sempre, ne ho un paio nere ora come ora, mi piacciono perché fanno respirare il piede.

A proposito, vorrei fare una domanda, così, ma quella marca di scarpe che dice che ti fa respirare il piede dalla suola, ma cos’è, ci prende per rincoglioniti? Ma come fa a respirare la pianta del piede dalle suole, con le bombole d’ossigeno? Al massimo si respira del bitume. Sbaglio io? Perché il signor Tod’s, - è lui, vero, quello che ti fa respirare il piede dalla suola, giusto? - a parte la mia stima politica (è Della Valle, giusto?), mi sembra un po' come il signor Vibram in fatto di scarpe: uno che ci prende per il culo. Eh sì che adesso il piede ti respira dalla suola, dai, belin. Non ci crede nessuno, nemmeno la Debora.

Mi sono alzato un attimo per riempirmi il bicchiere di Moretti, così scrivo meglio, che scrivere con la sete non va bene. Poi, mi sono messo un po’ di crema per le mani, che ce le ho sempre screpolate, si vede che me le lavo troppo spesso, e adesso mi scivolano le dita sui tasti del pc, che stanno diventando sguiscianti, ma magari scrivo meglio, sono uno scrittore sperimentale io. Tra l’altro, sta crema ci mette delle ore ad assorbirsi, mi sembra di avere le dita che sui tasti del pc sono come dei bob nella pista di Torino 2006, belin, sono un minchione alle Olimpiadi della tastiera del pc con la vaselina al garofano fra le dita. Però sono troppo sperimentale, scrittura scivolosa. L’hai capita o sei scemo anche te, come quelle che si mettono le spadrillas per andare a fare una passeggiata in montagna?

Perché ci sono, ti assicuro che ci sono quelle là, che si infilano le spadrillas, vanno a duemila metri, in montagna, poi si devono sedere su un masso e aspettare che gli altri facciano la gita e tornino indietro a raccolgierla, se non se l'è già mangiata uno stambecco a merenda, perché non c’hanno addosso le scarpe adatte.

In compenso, vorrei che qualcuno mi spiegasse perché molta ma molta gente si mette addosso le scarpe da trekking (con due kk, mi piaceva così) in città. Cos’è, un desiderio metropolitano (non esaudito) di andare a farsi un weekend all’Aprica? Queste scarpe da trekking in città, che a Roma vedi ai piedi dei turisti per lo più –che forse pensano di trovare il ghiaccio e dei greggi di pecore in via Nazionale – mi ricordano in tutto e per tutto il mio amico Jaele (lo so che è un nome femminile, ma Jaele è un maschio) che si tiene in casa una bambola gonfiabile, nell’ingresso, così quando arriva a casa la bacia e la saluta e le chiede: “ciao cara, com’è andata oggi?”. Poi le chiede cos’ha cucinato per cena, alla fine quando lo fa in mia presenza e lei non risponde mi dice: “scusala, è timida, quando ci sono degli estranei sta zitta. Puoi andare di là che le parlo un attimo a quattrocchi?”.

Altre scarpe, bhè, come dimenticare le scarpe con il tacco a spillo della professoressa d'italiano delle medie, la donna con le scarpe più erotiche della mia vita, che buttavo sempre qualcosa per terra, a lezione, per guardare sotto la cattedra, che se le toglieva sempre le scarpe a lezione, ci giocava, e fissavo per minuti interi il suo pollicione immancabilmente laccato di rosso tentare di recuperare la scarpa persa, vagante, sotto la cattedra. Non ce la faceva mai alla prima, però era tenace.

Altre scarpe, quelle aperte in genere, le preferisco, soprattutto le Birkenstock, anche se mi dà fastidio il fatto che se le mettano anche i preti e soprattutto i frati. Ma i frati non fanno voto di povertà? Ma lo sai quanto costa un paio d Birkenstock? Facci caso, non ho mai visto un frate con un’imitazione di Birkenstock, sono sempre originali, sti frati loro e la Paulaner sei eruo a bottiglia, belin.

Altre scarpe, quelle di mio papà, che quando se le toglieva avevano la loro puzza inconfondibile, una puzza che si diffondeva in tutta la stanza, volatile, una puzza tutta sua, sempre la stessa indipendentemente dal modello di scarpe e dalla stagione, indipendentemente che si trattasse di Adidas o di Church. Si vede che alla fine erano i piedi di mio papà a fetere e non le scarpe, che gli fetevano anche gli zoccoli di legno del Dottor Scholl's.

Altre scarpe, le Clark, erano le scarpe che mi compravo sempre alle elementari per le cose serie. Tipo andare a scuola. Le Doctor Martin’s, poi un paio di scarpe che non so e non capirò mai perché me le sono comprate. Le tengo ancora a casa nell’armadio porta scarpe. Sono diventate un oggetto di culto, come la tomba di Jim Morrison a Amsterdam (è lì vero?). Sono delle scarpe da rocka-billy, ce le hai presenti, a punta, scamosciate grigie con delle specie di cuciture dappertutto. Rialzate, sembrano un po’ le scarpe di un Little Tony qualunque, suola gommata ma tutta rialzata di un buon cinque centimetri, hanno una fibbia sopra e poi dulcis in fundo mi sono gigantesche. Ma perché me le sono comprate, per copiare chi? Forse un mio compagno di scuola che ce le aveva, ma lui portava il 44 in seconda liceo – ma io c’ho il piedino – e lui lo chiamavamo Shezan perché la punta di queste scarpe da rocka-billy gli saliva in su di brutto.

Altre scarpe, odio i mocassini, non so perché quando ero più giovane mi compravo a volte le Sax, marroncine, poi mi facevano malissimo ai talloni, perché mi sporgono i talloni, e devo sempre mettermi delle scarpe comode. Odio i mocassini, amo i camperos, prima o poi me li compro, ce li aveva sempre mio cugino, con i Wrangler. Quando vedo una con i camperos mi innamoro sempre subito, colpo di fulmine. Anche se è inguardabile, me la liscio tutta dai camperos in giù, mi sembra una squawh.

Poi, altre scarpe, gli stivali neri delle donne, lo so - ma la devo smettere di scrivere lo so, sembro Del Piero che parla con l’uccellino - è tipicamente medio piccolo italiota, e secondo te chi sono io? Un medio piccolo italiota, stasera vedo anche il confronto Prodi – Berlusconi, bein, pensa essere uno dei suoi tacchi rialzati un giorno della tua vita. Che la cosa più bella con una donna è toglierle gli stivali la prima volta, chissà perché di solito alle donne i piedi non gli puzzano così tanto. Boh, chissà perché. Strano, a parte quando si mettono le Superga senza calze o le Asics senza calze d’estate oppure le Doctor Martin’s che gli ho prestato io.

Altre scarpe, odio le Hogan ma le scarpe che odio di più, oltre alle Kicker’s, sono quelle ortopediche che portavano i miei compagni alle elementari ma anche prima all'asilo. Ce le hai presenti, quelle scarpe numero 28, nere, quadratizzate, da cui sporgono quelle calze bianche fin sotto al ginocchio, mi ricordo all’asilo una volta Bobo, il mio compagno di banco con i capelli più rossi del mondo, che giocando mi ha dato un calcio in faccia con la suola di quelle scarpette ortopediche e da allora - mi fece uscire litri di sangue dai denti (forse mi ruppe il dente davanti da latte, finestrellandomi alla grande la dentatura sporgente per sei anni di ciuccio giorno e notte) - ho giurato a me stesso che se mai avrò un figlio le scarpette ortopediche non gliele metto manco morto, nemmeno se è storpio, manco se me ne regalano un set, le vado a rivendere a Caricamento. Giuro su budda con la maglia del Genoa.

Altre scarpe, quelle delle signore vecchie, ultra comode, che ho letto che l’Auditel ormai lo fanno soltanto per la fascia di età di gente che spende soldi, quindi i vecchi per loro fortuna non gli fanno gli spot della terza età. Le scarpe delle vecchiette sembrano sempre pantofole. Ma il signor Bata esiste veramente? E il signor Adidas, secondo voi va a cena dal signor Rana? E cosa mangiano, secondo voi, se per caso si invitano a cena a vicenda? Merce di scambio: il signor Rana gli dà tre chili di tortellini con la panna Chef in cambio di un paio di Stan Smith al signor Adidas.

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01 aprile 2006

Parentesi enigmistica


Ho due o tre paroline da dire a (Clark), che poveraccio lo so benissimo che alla fine non c’entra tanto lui, (Clark) dico, dovrei prendermela direttamente con (Antonello) e (A. Bartezzaghi), i mostri sacri della Settimana enigmistica, che me la compro sempre, tutti i sabati, costa un euro e dieci, ma forse è aumentata, perché quando al sabato mi compro Il Corriere della Sera e la Settimana Enigmistica spendo in totale 2,60 euro.

Ma oggi è domenica, quindi me la prendo con (Clark), perché ai cruciverboni di (Antonello) e (A. Bartezzaghi) – Parole crociate a schema libero - ci arrivo di solito il martedì o il mercoledì, dopo che il sabato e la domenica è andato tutto abbastanza liscio perché comincio dall’inizio della Settimana enigmistica, con le facilitate, Le risate a denti stretti – che non c’è niente da risolvere, sono le barzellette – La pista cifrata – che devi soltanto unire i puntini e viene fuori il disegno, vengono benissimo se le fai con un tratto pen – quelle difficili, in fondo alla Settimana enigmistica, tento di risolverli in bagno, prima di andare al lavoro.

E per lo più per colpa di (Antonello) e (A. Bartezzaghi) arrivo al lavoro in ritardo abissale il martedì e mercoledì, perché mi incaponisco caparbiamente a volerli risolvere, quei cruciverba difficilissimi, senza riuscirci quasi mai, quindi quando mi rendo conto che non riesco a farli, sono già asfaltato nelle meningi alle nove di mattina, ancor prima di arrivare al lavoro dove dovrò comunque produrre degli articoli, e a me le meningi al lavoro mi servono come il pane.

Ma spesso me le sono fuse al cesso appena sveglio, in un giorno feriale, anzi le meningi di solito il martedì e mercoledì me le sono spremute e consunte asfaltate e piastrellate ancor prima di essermi fatto il bidet, con il sapone liquido che si chiama Bergamon, perché è al bergamotto di gusto – ma non si beve – e a me quando mi faccio il bidet di solito mi viene in mente l’Atalanta, perché Bergamon e Bergamo è un attimo.

Perché le mattine che arrivo ad (Antonello) e (A. Bartezzaghi) – il martedì e mercoledì - di fare la doccia e farmi la barba, che io in bagno con la toilette personale sono un po’ lento, non se ne parla, sono sempre in ritardo colossale, ma robe di un’ora un’ora e mezza di ritardo.

Quindi, alla fine, quando arrivo a (Antonello) e (A. Bartezzaghi), quelle mattine lì dico, intorno a pagina 37 della Settimana enigmistica, quando poi vado al lavoro, di sicuro so già che mi pruderanno un po’ i capelli – non mi sono di certo fatto lo shampo, perché ho passato almeno mezz’ora sul cesso senza defecare, solo seduto lì, inchiodato al cruciverbone – invece di farmi la doccia, a cercare di rispondere a domande tipo:

54132 PAROLE CROCIATE A SCHEMA LIBERO (A. Bartezzaghi)

VERTICALI

55. Affluente del Volga (tre lettere, la seconda è una kappa)

29. Minerali del ferro (sei lettere, la quarta e la sesta sono i)

22. La contea del Robert Dudley amato da Elisabetta I (nove lettere, la prima è una l, la sesta una e, l’ottava una e)

ORIZZONTALI

34. Si dice di caldo torrido (nove lettere, la prima è un t, la seconda una r, la quarta una p, la nona una i)

45. I corpi osservabili soltanto al microscopio elettronico (quattordici lettere, inizia con ultrast, spazio bianco, u, spazio, spazio, spazio, spazio, l’ultima è una e)

16. un fiore simile alla dalia (sei lettere, spazio bianco, i, spazio bianco, finisce in nia)

Allora, belin, guardami, sono seduto sul cesso, ho finito di evacuare da 42 minuti, è un martedì mattina, lavorativo, e sono inchiodato sulla tazza del water con (A. Bartezzaghi) o (Antonello) mezzi vuoti davanti. Cosa posso fare? A volte mi lascio predente dall’ispirazione, e riempio gli spazi inventando parole, così alla fine le parole crociate sono solcate con la punta della Bic, sono quasi recise le pagine, non so se mi spiego, cambio talmente tante volte la parola – non provo quasi mai a verificare gli incroci prima di scrivere, prima scrivo la soluzione, poi semmai modifico dopo – oppure, se mi ci metto professionalmente, lascio gli spazi bianchi e le mie parole crociate sono deserti dei tartari dove ho risolto al massimo due o tre domande, il resto resta vuoto, eppure, giuro, le definizioni le ho lette tutte almeno sei volte di seguito.

Tornando a (Clark), che comunque di sicuro non è Clark Kent di Superman, gli piacerebbe, ma sarà uno sfigato di enigmista, che non vede una mussa – che in genovese vuol dire figa – da almeno quattro anni, in (Clark) ci sono inciampato stamattina. Ti chiedo questo, dimmi cosa ne pensi tu, perché magari sono io che la faccio fuori dal bulacco – che in genovese vuol dire che esagero un attimino – e sono io che non ci arrivo. Ma ti chiedo questo: secondo te hanno senso queste definizioni di (Clark)?

La settimana enigmistica, Numero 3855, Anno 75, 11 febbraio 2006

Pagina 11

5554 PAROLE CROCIATE (Clark)

ORIZZONTALI

36. Lavora dietro il banco (la soluzione è barman, stavo sclerando perché per quindici minuti mi veniva barista)

19. Lo dice chi non capisce (la soluzione è cosa, ma a me veniva come, anche perché dalle mie parti, a Zena, se dici cosa?, ti rispondono ciccamelo in posa, che vuol dire leccamelo in posa, leccami l’uccello, e nessuno vuol sentirselo dire, lo stesso succede, che ti dicano ciccamelo (leccamelo) se a una domanda rispondi è?)

VERTICALI

19. Quella…vicina a te (la soluzione è codesta, ma scusa, non ti sembra un attimo obsoleta come definizione, ma (Clark) secondo me passa il tempo a girare le pagine di un dizionario del 1973, poi vede delle parole desuete, che non si usano mai, e le mette nel suo lavoretto)

28. Il fisico della famosa pentola. La soluzione è Papin. Però secondo me (Clark) non si rende conto, vive in un’altra realtà, perché di Papin ce n’è soltanto uno, Jean Pierre, quello che doveva far svoltare l’attacco del Milan e ha passato tre o quattro anni in panca perché c’era Massaro titolare e Capello non lo toglieva mai.

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