talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

25 giugno 2006

Due birre


Il tatuato sorride al suo amico, sembra un maori del Testaccio con quelle braccia nere di china fin sopra alle mani. Sono seduti al tavolino, con due birre gelate di fronte, non si vedono da tempo. L’amico porta basettoni larghissimi e le Clark, anche se ci sono almeno 35 gradi. Di sicuro gli stanno sudando i piedi e non poco.

“Hai perso un bel po’ di chili dall’ultima volta”, dice quello con i basettoni al tatuato. “Sai, dormo poco. Lavoro tanto, mi vedo con la tipa”, risponde il maori, che porta i capelli neri lunghi raccolti in un codino rafforzato da chignon, è tatuato anche sul collo, gli spuntano delle squame di drago da dietro le orecchie. “Eh sì, la fica ti asciuga. E’ meglio del weight watchers”, dice sognante il basettone, che brinda alla salute del maori.

Di fianco due napoletani sono svaccati al tavolino, mentre sfogliano riviste di gossip. A pagina 35 quello con gli occhiali scuri, canotta e pantaloni di lino neri con catena per portafogli nel tascone destro, infradito colorate con scritto surfing time sulla pianta, è scalzo e ci gioca, dice “ecco, guarda che fregna, hai visto? Come sono venuto in foto?”. L’altro guarda ammirato, dice “bene, bene”, mentre quello vestito di nero si tocca i rotoli di ciccia sulla pancia e dice che deve fare un po’ di moto che ormai è arrivata l’estate.

Il grosso boxer del bar trotterella fra i tavolini come fosse il cameriere, ci manca solo che prenda le ordinazioni mentre piazza una linguata sulle caviglie depilate di fresco della turista americana seduta di schiena. Ha le alette sporgenti, l’americana, sembrano piccole montagnette che si alzano e si abbassano al ritmo di parole rapide, rivolte alla tavolata di amiche. Stanno bevendo da una bottiglia di bianco tenuta in fresco, sembra champagne ma è vino. Bevono e ridono, sono tutte depilate di fresco, canotta colorata, schiena di fuori, gambe bianche con puntini rossi da depilazione. Spettegolano parlando di uomini e ridono.

Quella con le alette, le squilla il cellulare. Lo guarda, lascia squillare cinque o sei volte, mentre si consulta con le altre: “oh, my god, it’s him, should I or not?”. E’ un referendum, vince il sì. Risponde tutta paracula, parla per venti minuti, alla fine fa il report alle altre che ridono e si dimenano sul ferro battuto delle sedie, di certo hanno segni metallici quadrangolari sulle cosce sudate, che aderiscono al sedile dove poggiano le loro tenere masse adipose.

Il boxer del bar annusa il piccolo cagnolino al guinzaglio della ragazza con i pantaloni al ginocchio e le ballerine, che sfoggia il suo ragazzo alto un metro e ottantadue con un certo timore che una a caso delle americane se lo punti e se lo porti via. Si siedono lontano, così non c'è il rischio di sguardi incorciati, che "non si sa mai, queste turiste", pensa la ragazza alla zuava.

Una donna di mezza età beve un tè freddo e legge la Repubblica, senza guardarsi intorno. Arriva una coppia, la donna cavallina di vent’anni più giovane, si siedono, lui si liscia la barba grigia scegliendo il suo cocktail. Il tatuato le guarda il culo prima che si sieda. Il basettone si liscia i capelli sporchi.

I camerieri fumano attaccati al muro e parlano della partita, anche le donne. Un vecchio si china per bere alla fontanella ma chiude male il foro da sotto con la mano e lo zampillo d’acqua arriva moscio dal basso in alto. E’ uno schizzo pigro ma lui fa finta di niente, si è bagnato tutte le scarpe e non ha bevuto quasi nulla. Se ne va così, assetato. Un bambino subentra, con naturalezza riempie una lattina vuota di Fanta e torna ai gradini della fontana, dove un ragazzo sta schizzando apposta la fidanzata seduta sui gradini, che la prende bene. In fondo sono in vacanza. L’acqua raggiunge il banchetto di AN che spinge la gente a votare SI’, lavando un po’ di volantini. Nessuno reagisce.

Guardo le alette dell’americana che si agitano, sembrano dune di sabbia che si alzano e si spostano con il vento, ma l’aria è ferma e penso alla mostra di Modigliani, chissà se le sue donne con il collo lungo e la faccia ovale hanno belle schiene, le dipingeva sempre di faccia, con un occhio aperto e l’altro rivolto all’interno. Come se uno potesse chiudere le pupille con la saracinesca o rivoltarle verso l’interno, per guardare cosa c’è dentro, ma nei quadri si può fare è questo il bello dei quadri, che puoi dipingere quello che vuoi e nessuno ti dice niente, non sono mica fotografie.

Arriva la mia seconda birra, pago, sono le sei e venticinque, il pallone finisce nella fontana, il papà lo raccoglie, i bambini continuano a giocare a palla avvelenata, colpendo una donna con i sacchi della spesa che non dice niente. Il fascio di luce si sposta, il tatuato si mette all’ombra, il vino delle americane è finito ma resta vuoto, un cadavere inutile nel ghiaccio sciolto del secchiello da champagne. La ragazza alla zuava se ne va con il suo metro e ottantadue di preoccupazioni tutte per lei, che porta le ballerine e si muove leggera sui sampietrini della piazza. Hanno un appuntamento e si è fatto tardi.

La donna di mezza età legge avidamente la Repubblica, sta a pagina quattro, c’è la foto della Gregoraci con il cellulare in mano, “ero consenziente” c’è scritto nell’occhiello, la donna dà un sorso al San Bitter e passa oltre, c’è la foto di Padoa-Schioppa, c’è scritto "austerity" nell’occhiello, dall’altro lato della piazza arriva una del quartiere, è tutta agghindata con la schiena di fuori, senza alette, le si incastra un tacco sul selciato, si muove piano per non romperlo e va avanti per la sua strada.

Vedo la gente che passa e si materializzano le rotaie su cui viaggiano i loro pattini a rotelle, incastrati come carrellini ai loro percorsi fatti di linee e traiettorie, hanno tutti il navigatore acceso, satellitare, sanno dove vanno e perché ci stanno andando, mentre bevo la mia birra penso che vorrei avercele anche io le rotaie dove scivolare pigramente, che forse è soltanto una questione di olio per non sentire questi cigolii nella testa, forse ho i pattini vecchi e mi dovrei semplicemente comprare dei roller blade monorotaia, così come d’incanto mi potrei trovare in tasca un navigatore pure io e vedrei le rotaie e mi potrei sedere sul mio carrellino e andare in discesa con il pilota automatico.

Poi mi prendo la pupilla con due dita e la rivolto in fuori, verso la piazza, da due giorni andavo in giro con l’occhio, quello destro, rivolto verso l’interno, ma non sono mica un quadro di Modigliani io, sono uno in carne ed ossa e se guardi troppo dentro non vedi più dove metti i piedi e rischi di non accorgerti delle rotaie di qualcuno, che ti mette sotto con il suo carrellino che va avanti senza fermarsi alla stazione, perché sa già dove deve arrivare anche se la schiena è scoperta.

“Eh sì la fica è meglio della palestra, ti fa venire il culo sodo”, dice quello con i basettoni attaccando la seconda birra mentre il maori si liscia la barbetta, ha un’aria vagamente tailandese ma è del Testaccio, l’ho sentito che parlava al cellulare con la sua donna, la sua cyclette personale, lo aspettava più tardi per un incontro ginnico dopo l’aperitivo.

I napoletani se ne sono andati con la loro mazzetta di riviste di gossip, non li ho visti alzare i tacchi, hanno bevuto un analcolico alla frutta, come si fa a bere un analcolico alla frutta me lo domanderò sempre, allora è meglio che te ne stai a casa, come quelli che ordinano la scamorza al ristorante, alla griglia, ma quella guarda che te la puoi preparare anche da solo a casa. Oppure quelli che ordinano l’uovo fritto con gli asparagi, al ristorante, ma fatti una bella carbonara, se no restatene a casa, te e la tua insalata verde senza pomodorini.

Le americane sono sempre lì che trincano vino bianco con le loro schiene nude e le loro gambe depilate, una si è levata la scarpa e tiene il piede sulla sedia, si sta controllando lo smalto delle dita, tutto ok, può tornare ad ascoltare il dettagliato resoconto di quella con le alette sporgenti, sembrano pezzi di manzo attaccati lì con lo sputo, che racconta della sua lunga chiacchierata galante squittendo come un pipistrello al buio in qualche pertugio sottoterra, nelle catacombe dove sono stato l’altra volta, c’era freddissimo, abbiamo preso una torcia, ma dentro i loculi c’erano queste ossa e poi sono spuntati i pipistrelli, sembravano arrabbiati, li abbiamo svegliati.

La piazza è nell’ombra, finalmente il sole è calato, l’acqua della fontana continua a gettarsi nella vasca, sembra un tuffo a soldatino, smontano il banchetto di AN, mi chiama mia madre e parliamo un po’. Mi dice “hai visto che il principe di Savoia l’hanno beccato con una in quell’albergone, ci siamo stati il mese scorso, dai, sul lago di Lecco”. Ripenso al ricevimento, mi viene da ridere, le dico “sì ho visto, come stai?”. Non l’ascolto mentre risponde, la sento alla fine che mi dice “stai bevendo una birra?”, le dico “sì”. “Bravo rilassati”, mi dice mia madre, che mi sembra tutta fiera di conoscere questo albergone sul lago. Si sente più importante perché può raccontare alle amiche che lei ci è stata, nel posto dove hanno beccato il principe di Savoia con le mani nel sacco anzi nelle mutande di qualche optional con le gambe depilate.

Saluto mia madre, la donna di mezza età che legge Repubblica è arrivata alle pagine sportive e si immerge nella lettura. La ragazza con i denti cavallini e l’uomo di mezza età sta bevendo il suo prosecco quotidiano, porta i Persol scuri dell’altra volta, quando ride sembra Varenne che corre sul rettilineo finale del galoppatoio di San Siro. L’uomo di mezza età si guarda intorno, sembra preoccupato che lo vedano, ma in realtà sta cercando di guardare le cosce dell’americana senza scarpa e lo smalto rosso, ha messo di nuovo il piede sulla sedia e si vede la coscia liscia bersagliata dalla cellulite.

Sono in motorino, fermo al semaforo. E’ rosso. Lei da dietro si trastulla con lo straterello di ciccia sulla mia pancia. La sento che ridacchia da sola, ho le mani sul manubrio. Mi volto ridendo, sento che prende i rotoli di ciccia e ci giochicchia, incrocio lo sguardo con il tizio in vespa, di fianco a me, che mi guarda e annuendo con la testa infilata nel casco spagnolo ride. Fa segno di sì, “quanto ti capisco”, sembra che mi dica, dietro c’è la sua donna che ride anche lei. Diventa verde.

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23 giugno 2006

Inno alla cipolla


Oggi a pausa pranzo mi sono fatto un’insalata greca. E’ arrivato il tizio del bar Valle, ci vado spesso, mi ha detto “se vuoi oggi ho fatto la greca”, di solito prendo quella con l’uovo sodo e il tonno. Gli ho detto sì, prendo la greca che quest’estate vado in Grecia. Di fianco sono arrivate delle ragazze. Parlavano fra loro, fanno roccia.

In realtà, non ho capito bene se fanno roccia per davvero o per finta, sulle pareti di plastica. In ogni caso arrampicano. Parlavano della palestra di roccia, quindi probabilmente la parete è finta. Una diceva che si sente i muscoli pi sodi da quando fa roccia. Che si sente più in forma, anche se magari non si vede. Quando diceva sodo, lo diceva con la o strettissima, tipo sòdo, si vede che è di Torino.

Poi, è arrivata la mia greca. Era stracolma di cipolle crude. Buonissime. A me della greca mi piace da morire la feta, da morire le cipolle, abbastanza le olive nere, pochissimo i cetrioli. Però non sono di quelli che si mettono lì a separare gli ingredienti, a lasciare di lato le cose che non gli piacciono. Mangio tutto.

In questo periodo a pausa pranzo ci vado spesso al bar Valle. Prendo sempre l’insalata, un’acqua naturale in bottiglietta e un caffè. Cinque euro e ottantacinque.

Sta squillando il cellulare del mio dirimpettaio, l’ha lasciato qua, ora è giù a farsi un caffè. C’è un caldo che si cola. Ha una suoneria che fa così: “Hello, moto….”, poi comincia a suonare multimediale. La odio. Ha smesso.

A pausa pranzo prendo sempre un’insalata così poi la sera posso mangiare come un cesso senza problemi e c’ho anche più fame. C’è una sfida in corso fra me e l’insalata a mezzogiorno in questo bar dove non devo nemmeno aprire bocca, lo sa benissimo il tipo che prendo sempre le stesse cose, e mi piace questo fatto che posso stare zitto, a pausa pranzo.

La greca è un’eccezione. Comunque, la sfida è che non devo aiutarmi con il pane per mangiare l’insalata. Il patto tacito con l’insalata del valle è che non sfioro il pane. Il problema è che senza pane mi cadono sempre i pezzi dal piatto. Mi trasbordano le olive dal piatto. Non ci stanno dentro, anche perché un altro pezzo della sfida è che non mi aiuto nemmeno con il coltello, mangio soltanto con la forchetta. A volte, l’insalata la infilzo, altre la raccolgo con la forchetta. Però, ogni volta qualcosa non ci sta dentro e trasborda dal piatto. Allora, la recupero o infilzando i fuoriusciti con la forchetta oppure raccogliendola direttamente con le mani, soprattutto se sono olive.

Oggi mi sono schizzato l’olio sui pantaloni, ma non è grave perché erano già macchiati di nero, nell’altra parte della coscia, vicino alle tasche. Ieri sono rimasto incastrato in mezzo a due porte automatiche del treno e mi è rimasta una macchia nera. Non capivo dove me l’ero fatta. Poi mi sono ricordato, mi fa ancora male il torace e c’ho un segno sul braccio, una di quelle che fanno roccia mi guardava questo segno mentre raccoglievo con le dita un pezzo di cipolla e me lo infilavo in bocca.

L’altra sera mi sono mangiato una pizza tonno e cipolla al Formula Uno, a San Lorenzo. Avevo una fame che ci vedevo doppio, erano le undici, avevo quattro birre in corpo ma non avevo mangiato nulla. Eravamo stati a sentire delle letture di Alessandro Haber, a Villa Mercede, organizzato dal comitato mamme di san Lorenzo letture di Bukowski che Haber tempo fa aveva messo in scena uno spettacolo di Bukowski, al Vittoria, con lui che entrava in scena travestito da donna, poi alla fine si toglieva il travestimento, la parrucca, il vestito, lo posava sul letto in scena e rimaneva in collant.

Mentre leggeva, Haber si fumava una sigaretta dopo l’altra. Dal palco, lì all’aperto, e diceva al pubblico di fumare. Mi sono fumato quattro sigarette, Fortuna blu. Mentre leggeva, Haber ogni tanto sputava, perché secondo me fuma tanto, sputava sul palcoscenico, a volte si fermava e si bevevo un sorso d’acqua. Lui fuma Marlboro Lights e dice cazzo. Poi, mentre legge, alla fine di un pezzo, fa sempre ujna smorfia come di compiacimento. Aveva un sacco di fogli sul leggio di fronte a sé, c’era un tale, lo chiamavano maestro Ceccarelli, che suonava la fisarmonica, in background, quando lui riprendeva fiato fra un pezzo e l’altro. Gli faceva male un ginocchio a stare in piedi, dice che si è fatto male giocando a tennis con Michele Placido in Tunisia, in un campo di terra e cemento. Poi, però rantegava e un po’ e riprendeva a leggere. Legge bene, si vede che si cala nei panni di Bukowski e secondo me Haber bere gli piace. Alcol, dico.

A un certo punto ha cambiato autore. Continuava a fare queste smorfie alla fine dei pezzi che leggeva. Una specie di sorrisetto, come se dicesse belin sticazzi che bel pezzo che hai scritto, Bukowski, belin sticazzi che bel pezzo che hai scritto, neruda, belin sticazzi che bel pezzo che hai scritto Garcia Lorca, belin sticazzi che bel pezzo che hai scritto Trevisan. Questo Trevisan ho cercato di leggerlo, a volte, ha scritto un libro che si intitola i 15.000 passi, ma mi sono sempre arenato. Però ha letto un suo pezzo, Haber, che parla di qualche amico che va al bar e al bancone uno dice che aveva aperto un circo straordinario ma poi hanno dovuto chiudere perché non piaceva a nessuno. Era un circo dove c’era un nano alto un metro e settantacinque, un inglese che non era inglese, parlava italiano e altre cazzate così. Alla fine, gli altri amici gli hanno detto, beli, è normale che hai dovuto chiudere, non è il mondo che non ti capisce, sei tu che sei un minchione, scusa. E lo mollano lì al bancone.

Alla fine della lettura Haber fa la sua smorfietta compiaciuta e scacchia un po’. Poi, tira fuori fra i fogli la poesia lentamente muore, credo che sia questo il titolo (però sono sicuro che se vai su Google e la cerchi con queste due parole) di Pablo Neruda. Prima di iniziarla e di dire cosa sta cercando nella pila di fogli davanti a lui, poggiati sul leggio, dice che quella è una poesia che chiunque dovrebbe regalarla a qualcun altro perché è bellissima. Non aveva ancora detto il titolo. Poi, diceva che bisognerebbe appendersela al frigo in casa. Quando ha letto il titolo mi è venuto da ridere perché fin dai tempi dell’Argelati questa poesia me la sono tenuta appesa in casa. Allora, all’Argelati, addirittura ce l’avevo appesa ad un chiodino alla porta d’ingresso. Qua a Roma l’ho tenuta attaccata in cucina con dei magneti, non al frigo però, perché c’ha le ante di legno. Strano ma vero, è un frigo che non puoi attaccarci i magneti.

Tornando alle cipolle, un’altra cosa che mi piace tantissimo è il saggio del Cipolla, quello sulla stupidità umana. Anche quello lo trovi su Google, basta che digiti Cipolla stupidità. Ci sono le ascisse e le ordinate della stupidità. La cosa più bella è che parlando dei danni subiti dagli altri, iul Cipolla dice che per la tua incolumità sono più pericolosi gli stupidi e i cretini dei figli di puttana. Perché gli stupidi ti fanno male senza senso, senza intenzione, quindi ti fanno più male perché non te l’aspetti il danno. Invece i figli di puttana almeno sono coerenti, se ti fanno male almeno lo fanno perché vogliono.

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Golden gol


Bomber Tappi arriva al campo col pallone nuovo e lo spara in cielo, “ciao ragazzi, sono passato da Cisalfa, ecco la boccia nuova”. Non capisco subito cosa sta succedendo, poi però vedo il pallone, l’unico che c’è per giocare, arenarsi sulla rete sopra il campetto di Oderisi e scivolare lentamente sulle maglie. Sembra una mosca presa nella ragnatela di un ragno gigante.

Lo guardiamo tutti, sconcertati. Si è dimenticato Bomber Tappi che nel cielo sopra Oderisi c’è questa rete, che ingabbia il campetto, per evitare che il pallone voli via. Certo, se lo tiri da fuori è ovvio che resta lassù, sospeso in aria, sopra il campetto. Belin, ci abbiamo messo venti minuti a tirarlo giù, il pallone, ci è riuscito uno del basket che l’ha centrato da sotto così è rimbalzato fuori.

L’altra volta ho cominciato a giocare con una maglietta bianca e le maniche corte rosse, me l’aveva regalata tempo fa una di quelle donne del merchandising. Stavo comprando delle Fortuna blu, come sempre, lei era vicino alle casse e mi ha regalato questa t-shirt della Fortuna. Solo che le maniche sono rosse, perché esistono anche le Fortuna rosse, sono un po’ più forti, c’è la stessa differenza che passa fra Diana blu e rosse. A me delle Diana mi piace che c’è il pacchetto morbido. Il pacchetto morbido mi piace un sacco nelle sigarette, perché dopo un po’ che te le togli dalle tasche escono un po’ storte, un po’ lise. Le fortuna non esiste il pacchetto morbido.

Dopo un po’ che giocavamo Raffo mi ha fatto cambiare la maglietta, giocavo con i blu e non potevo tenermela la maglietta della Fortuna bianca e rossa. Gli abbiamo fatto il culo ai bianchi. Però è stata dura. Siamo arrivati a fine partita in parità, otto a otto. Avevamo già sforato l’orario, però dopo di noi non c’era nessuno quindi i teoria potevamo restare all’infinito. Ma eravamo massacrati, c’era un caldo che mi friggevano i piedi nelle Puma. Ero fermo statico peggio del colosso di Rodi, da un po’ mi ero messo libero alla Mihailovic perché mi sentivo il cuore in bocca dalla mancanza di fiato. Bomber tappi invece continuava il suo match personale con raffo, dandogli rumbe e prendendosi la sua meritata dose di calcioni finché non so chi ha detto: “chi fa questo vince tutto”.

Allora mi sono ricordato delle partite infinite alla Pascoli, che arrivi dopo due ore nove a nove o cose così. E allora subentra la legge del golden gol. Quando ho sentito chi fa questo vince tutto mi sembrava di avere nove anni e di essere alla Pascoli, ho preso la palla, ho dettato il triangolo a Bomber Tappi, che me l’ha ridata, ho fatto uno scatto che ci ho lasciato sei anni di vita sul sintetico di Oderisi, l’ho stoppata e incrociando ho tirato un missile nell’angolino dall’altra parte e abbiamo vinto.

Della partita non ricordo niente, mi sudava tutto il tempo negli occhi e non ci vedevo. Abbiamo fatto la doccia negli spogliatoi nuovi. Microscopici. Appena arrivati, il custode, quello con la barbetta che secondo me è frocio, ha detto “lo sapete, vero che non abbiamo il pallone?”. Belin, ma come facciamo a saperlo? Chiamiamo mister De Siena e poi bomber Tappi, gli diciamo di prendere un pallone da Cisalfa che se no non si gioca. E lui lo compra, e per la contentezza, quando arriva, da fuori, scarica questo campanile in campo, vorrebbe scavalcare la grata, ma come dicevo prima la butta su.

A fine partita, pago. Me ne vado. Dopo il pinte di ferro, faccio venti metri, e si ferma il motorino. Ero completamente a secco, dalla mattina lampeggiava la spia della benzina. L’avevo ignorata, peggiorando la situazione del serbatoio facendo una trasferta all’Eur, per una cosa di Confindustria. Per questo mi ero messo la camicia. Insomma, sono al Ponte di Ferro, senza benzina, verifico che il cellulare è completamente scarico. Ho forse un residuo di qualche centesimo, mando un sms alla Pina: “Mi chiami?”. Per fortuna, lo vede e mi chiama le do appuntamento a Piramide. Le dico di portare una bottiglia da un litro e mezzo per fare rifornimento e tornare a recuperare il mio Free dell’85, ho anche tolto la copertura del sacco nero invernale dal sellino, adesso c’è solo la gomma piuma.

Cammino fino a Piramide e sudo due o tre litri di liquidi. Fumo. Arrivo al baretto e mi prendo una Moretti, la bevo in piedi fuori, ai tavolini rossi circolari, in piedi. C’è un sacco di gente intorno, Piramide è un luogo di appuntamenti. Classico. Ascolto la partita del mondiale alla radio, Svezia Inghilterra, La mia camicia è fradicia. A un certo punto arriva la Pina, mi dice di cambiarmi la maglietta che sto sudando l’anima, apro la borsa, prendo la maglietta della Fortuna, quella bianca con le maniche rosse. Mi cambio. In motorino, con il suo Free, andiamo a riempire la bottiglia all’Api di viale Aventino. Torniamo al ponte di Ferro, riempio il serbatoio del mio Free. Si era ingolfato. Poi parte e torniamo a casa. La Svezia ha pareggiato 2 a 2, gol di Larsson.

Ieri ero in treno. Stavo uscendo a una fermata sconosciuta, lontanissimo dalla Tiburtina, ero sul treno per Tivoli. Arrivo alla stazione, apro la porta, però solo da un lato e rimango chiuso fra le porte. Stamattina mi sono svegliato e mi faceva malissimo il torace, non capivo perché, poi mi sono ricordato di questo colpo che mi sono preso, mi sono trascinato fuori perché mi ero davvero incastrato fra le porte mentre uscivo.

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21 giugno 2006

Vendetta


Ieri sera ho visto un film sulla vendetta. Si intitola Mean Creek e parla di un gruppo di ragazzi che vuole dare una lezione ad un bullo che ha picchiato uno del gruppo. Ma esagerano, la situazione gli sfugge dalle mani e alla fine lo ammazzano.

Il film mi è piaciuto. Mi ha fatto pensare alle mie vendette personali. Questo film mi ha fatto pensare a quante volte ho agito per vendetta io. Troppe volte. Anche perché con la vendetta non è che risolvi molto. E’ vero che si tratta di un piatto da consumare freddo, però io sono troppo impulsivo, allora mi incazzo subito e non aspetto mai il momento giusto per vendicarmi. Però, la vendetta, che stemperandosi si trasforma in carogna e poi carognetta e carognina, è un bel motore diesel, che ti fa fare un sacco di cose. Perché per dimenticarti dell'incazzatura fai sempre un sacco di altre cose, per distrarti, magari lavori come una macchina per non pensarci e metti tutto sotto al tappeto. Tanto te lo sei già bellamente preso in quel posto e vendicarsi è difficile.

Penso a tutte le volte che gliel’ho voluta far pagare a qualcuno per qualcosa e di solito non sono mai riuscito a colpire nel segno perché in ogni caso la vendetta è un sentimento di reazione, non è autentico e diretto ma arriva dopo che già te lo sei preso in quel posto. E’ come se tu volessi metterglielo in quel posto a qualcuno che te l’ha già buttata al culo a secco, senza preavviso. E di solito in questi casi la vince chi la mette al culo per primo. Dopo, è soltanto un palliativo e non gli farai tanto male quanto lui te ne ha fatto a te, perché lui se l'aspetta mentre tu te lo sei preso in quel posto senza accorgertene e fa più male.

Potrei fare degli esempi, ma non ce n’ho troppa voglia. Avevo soltanto voglia di scrivere qualcosa, ho un momento vuoto qua al lavoro e allora scrivo un po’ nel mio blog. Che di conti di Montecristo sono pieni i bar, gli uffici, le case, le famiglie e le coppie scoppiate di tutto il mondo, che lui ce l'ha con lei e viceversa ed è sempre colpa dell'altro, ma guardati dentro se c'hai un po' di coraggio, ohhhh. Per non parlare dei caratteri vendicativi, quelli che non sopportano le critiche e i ridimensionamenti e non possono accettare che le cose vadano diversamente da come se le erano immaginate, sono un magister di questa categoria, la categoria di quelli che c'hanno tutto in testa e poi si prendono delle facciate nei pali della luce della realtà, come una volta mio fratello che camminava in via Trento, parlavamo, si è preso una testata in un lampione da panico poveraccio, gli è diventata la fronte verde con un bernoccolo che sembrava un bigné. Io penso di far parte della schiera dei vandicativi, anche se di solito mi dicono che sono permaloso, ma credo che ci sia un nesso profondo fra le due cose. Comunque, i vendicativi li scopri subito perché sono quelli che quando li critichi o gli dici di no si incazzano e dentro di sé gli scatta il meccanismo adesso te la faccio vedere io e allora come sempre è peggio per loro.

Per spiegare bene la sensazione che ti viene quando ti vuoi vendicare basta pensare a come stai quando ti senti preso per il culo. Di solito, quando succede, non te ne accorgi subito. Poi, dopo un po’, te ne rendi conto e più tardi te ne accorgi peggio è. Perché poi la voglia di vendicarti cresce, costante, perché ce l’hai con te stesso. Ce l’hai con la tua stupidità di esserti convinto di qualcosa che poi non è vera. Alla fine, la voglia di vendicarsi nasce dalla verità, quando le carte scendono sul tavolo e il bluff dell'altro finisce. Quando ti rendi conto che le cose stanno molto diversamente da come credevi hai la tendenza a dare la colpa a qualcun altro di una tua mancanza. Perché sei tu stesso che non ti sei reso conto, sei tu stesso che non hai voluto vedere come stanno le cose. Così, poi, pensi di poter trarre sollievo da una piccola o grande vendetta. Ma di solito non è così, anche se quando c'hai il sangue agli occhi c'è poco da fare, devi reagire in qualche modo anche scomposto. Lo devi fare per te.

Da notare che la maggior parte delle volte la persona che ti ha preso per il culo non se n’è nemmeno accorta. Ti ha ferito e non sa di averlo fatto e questo è anche molto peggio. Oppure sì, l'ha fatto apposta, ma non è questo che conta. Il problema sei tu, che ti sei lasciato ingannare. Bisognerebbe prendersela con se stessi, non con qualcun altro quando le cose non vanno come volevi che andassero. Anche se a volte la vendetta un po’ di sollievo te lo dà. Perso per perso meglio mandare tutto a puttane danneggiando chi ti ha procurato un danno, se ce la fai. Perché di solito non lo scalfisci, l'altro. Non so se mi spiego e non ho nemmeno voglia di fare troppi esempi, c’ho caldo, mi suda dappertutto, sto colando nella schiena e mi scivola dappertutto sto caldo porco. Non c’è nemmeno un cazzo di ventilatore e il mio collega sta facendo un’intervista e rimbomba tutto nella stanza. Vorrei che ci fosse un silenzio assoluto adesso. Ma non è così. Ma non per questo gli dico niente al mio collega, sta lavorando lui, siamo al lavoro. O no.

Poi, un’altra cosa sulla vendetta è che di solito per sfogarti ti vendichi sulla persona sbagliata. Cioè, qualcuno ti fa stare di merda e tu non hai le palle di vendicarti con chi ti ha fatto del male, allora spari la tua incazzatura addosso al primo sfigato che ti passa vicino e sul quale sai di esercitare un certo potere. A me mi dicono che sembro una seppia, di quelle che sparano il loro veleno inchiostrato di nero intorno, a casaccio. Per mimetizzarmi lo sparo il veleno, che di solito dovrebbe andare addosso a qualcun altro, lo so anche io, cosa credi che non lo so.

Facci caso, quante volte ci sfoghiamo dei cazzi nostri con le persone sbagliate. La maggior parte delle volte. Perché probabilmente se subisci dei torti, delle ingiustizie, delle violenze da parte di qualcuno non è che poi da un momento all’altro sei abbastanza forte da vendicarti con il vero responsabile del tuo malessere. Allora te la prendi con uno più debole di te, è abbastanza fisiologico come dicono quelli che non sanno cosa dicono. Cosa vuol dire fisiologico, che se uno mi prende a sberle poi io per vendicarmi prendo a calci uno sfigato che per caso passa di lì? Non mi sembra la cosa migliore, però di solito succede così.

Comunque, questo film Mean Creek sulla vendetta (revange) rivincita – come se ci fosse una seconda possibilità nella vita, di solito non è così, anche se mentalmente facciamo finta che sia possibile rivivere le situazioni, ma se ci pensi bene nella vita non c’è il replay, è tutto in diretta e non puoi riavvolgere il nastro, non è mica una fiction – ha vinto un premio che si chiama humanitas. Alla fine, se te la sei presa in quel posto senza vaselina, tanto vale che ti rassegni. Non c’è niente da fare, se ti vendichi non risolvi niente, anzi. Non fai altro che rivivere davanti agli occhi l’episodio che ti ha offeso, lo ingigantisci, lo scomponi, lo rivivi all’infinito. Tanto, ormai, quel che è fatto è fatto, meglio forse perdonare. Anche perché se uno ti fa del male vuol dire che qualcun altro prima gli ha fatto male a lui. Si sta vendicando per pareggiare i conti, una specie di contabilità dei torti subiti e inflitti. O no. E tutti vogliono che i conti tornino, giusti o sbagliati che siano.

In questo film, c’è una ragazzina che fa la parte della coscienza del gruppo di amici che mette in piedi questa vendetta collettiva. Però, dopo questa ragazzina partecipa anche lei al rituale, perché la vendetta è una cosa quasi sacra. Sembra quasi un diritto, che qualcuno si arroga. Voglio dire che la legge dell’occhio per occhio non è estranea all’istinto primordiale della gente.

Il perdono è un sentimento che viene dopo, un’infrastruttura come direbbero gli specialisti del buonismo, dall’anno zero in poi e i pacifisti, che sono i fratelli minori di quello che ho incontrato qualche giorno fa in treno. Stavo sul trenino per andare all’aeroporto quando un tizio alto un metro e novanta si è seduto esattamente di fronte a me. Erano le otto di un sabato mattina, il vagone era vuoto. Stavo leggendo il mio libro, Le correzioni di Franzen, che c’è un bambino con la riga nei capelli in copertina, un bambino incazzato come una biscia perché lo costringono a mangiare una mela con coltello e forchetta, poveraccio, e sto stangone con i capelli rossicci mi si siede davanti.

Penso dentro di me sei un coglione, con tutto lo spazio che c'è proprio qua devi sederti, ma continuo a leggere facendo finta di niente. Poi, ho dovuto ritirare le gambe indietro, sotto al mio sedile perché sto stangone con tutto lo scompartimento libero ha deciso di sedersi proprio di fronte a me. Vabbè. Leggo, a un certo punto lui mi domanda: “Fiumicino, does it stop??”. Mi costringe a interrompere la lettura. Dentro di me penso brutta testa di cazzo, non ti basta togliermi lo spazio vitale, che c’hai le gambe più lunghe di una gru, poi mi fai anche questo genere di domande idiote. Gli risponde “yes”, cosa gli dovevo dire, sei un minchione, hai speso undici euro per il trenino dell’aeroporto, tutta la gente c’ha le valigie a bordo del treno e tutti vanno lì, dove vuoi che si fermi questo cazzo di treno.

Cerco di leggere, ma il tizio fissa la copertina e dice: “it seems a nice book, what does it talk about??”. Capisco che sto qua è un rompi cazzo patentato, mi rassegno, chiudo il romanzo e comincio a parlare. Così almeno non mi può più interrompere. Il tizio è vestito con camicia a maniche corte (dubitare sempre di quelli con la camicia a maniche corte, io ne ho due) pantaloni color cachi, capelli rossicci, tratti duri, zigomi sporgenti, occhi acquosi. Parliamo un po’, il discorso scivola sul vaticano, non so come, sui preti, non so perché, sulle coppie gay, sul ruolo della famiglia nella nostra società occidentale. Io dico quello che penso, che i preti sono stronzi, che il vaticano ci ha scassato la minchia, soprattutto a Roma, che quando il papa si muove mi chiudono il traffico e non riesco mai ad arrivare a casa, devo fare il giro dell’oca, lui e la papa mobile, che i preti sono insopportabili, che Ruini è il braccio armato della curia e cose così. All’improvviso, sto qua apre il portafoglio, tira fuori la foto di un prete, dice di essere uno dell’Opus Dei di Dublino, che quello della foto è un pezzo grosso dell'Opus dei, e mi chiede se lo conosco. Ah bello, guarda che il Codice da Vinci l’hanno letto anche i muri di via Merulana. Gli dico di sì e realizzo che sto qua mi ha preso per il culo fin dall’inizio, cioè che si era seduto di fronte a me perché voleva attaccare bottone e con una scusa qualsiasi ha attaccato discorso. Forse ha visto che porto la fede allora pensava di trovare un potenziale acquirente. Per dire, acquirente di Opus Dei, che sembra il nome di un profumo.

Non so che dire, quando arriviamo a Fiumicino mi propone di prendere un caffè insieme, che il suo compito è quello di reclutare preti laici che attivamente, dall’interno della società, portino in giro i concetti della cristianità, fra cui il perdono. Ecco, se devo pensare al perdono inteso come lo intende questo prete laico dell’Opus Dei, mi incazzo. Mi incazzo quando vedo parole che vengono fraintese, come dire, parole che rientrando in determinati linguaggi e costruzioni concettuali perdono il loro significato originario. Come se per parlare di perdono lo si dovesse fare soltanto all'interno di un quadro di cristianità. Non la penso così. Il perdono come lo intendo io, che vuol dire non incazzarsi troppo con chi per sbaglio ti fa del male, non c’entra niente con i preti. E’ un concetto legato più che altro alla pietà e alla carità, che saranno anche dei principi cristiani ma prima di tutto sono dei valori morali che ce li dovrebbero avere tutti dentro di sé anche se sono atei o credono di esserlo. Non so se mi spiego, puoi avere una morale anche se non credi in dio, anzi a maggior ragione ce la devi avere una morale, se non credi in dio, perché se no sei fottuto. Se no diventi una zattera in balia del primo refolo di vento. O no.

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15 giugno 2006

Due ore libere


Ieri sera avevo due ore libere dopo il lavoro. Sono uscito alle 19.00 più o meno e avevo appuntamento alle 21.30 con Raffo e sua cugina. Due ore possono diventare due anni se ti gira male. Mi sono bevuto un paio di birre. Anzi tre. Ho girato tre locali diversi, soltanto dopo mi sono reso conto che i bar dove mi sono fermato erano tre tappe mie interne, di un percorso personale.

Non so se vi capita mai di rendervi conto soltanto dopo che non avete fatto casualmente quello che avete fatto ma che dietro è come se ci fosse una regia. Non si sa bene chi sia il regista, ma sembra che ci sia. Nel primo bar, a Campo dei Fiori, ci avevo discusso con mio fratello qualche tempo fa. Una discussione in piena regola, con tanto di diverbio e sua mancata soluzione.

Nel secondo bar, dal Faraone a Piazza Madonna dei Monti, tempo fa ci avevo ricevuto una telefonata al fulmicotone, con lite annessa e smadonnamenti allegati. Anche lì la disputa era finita male, senza soluzione positiva del diverbio, anzi, con una rottura in piena regola dei rapporti.

Seduto al tavolino fuori di questi due bar si erano consumate delle situazioni insanabili. Avevo tentato di sanarle, senza riuscirci. Si vede che il paesaggio che guardavo mentre combattevo a quattr’occhi con mio fratello e quando consumavo la rottura telefonica con questa persona mi era rimasta nel background della testa. Non so se mi spiego, però risedendomi negli stessi bar è come se il paesaggio che aveva fatto da sfondo a queste due rotture brucianti per me mi riportasse alla mente qualcosa di spiacevole. Ma non capivo che cosa. L’ho capito oggi, per questo lo sto scrivendo.

Ieri, seduto a Campo dei Fiori, con la statua di Giordano Bruno davanti agli occhi, senza saperlo stavo ripercorrendo con gli occhi le stesse immagini che vedevo mentre discutevo con mio fratello. Idem con la fontana di Madonna dei Monti, con il kebabbaro all’angolo, con i bambini che giocavano intorno alla fontana. Con la donna dai capelli neri che troneggia sempre a Madonna dei Monti, quella attraente e molto femminile, che si trovava sempre lì quella volta che chiudevo questa telefonata quasi urlando con questa persona che da allora non ho più sentito.

Adesso capisco meglio perché quando vedo questa donna dai capelli neri e il suo cane non sono più così contento. Non sono contento perché mi riporta alla mente quella spiacevolissima chiamata telefonica. Non è certo colpa della donna se casualmente si trovava nella mia visuale mentre subivo uno dei più violenti attacchi di bile della mia vite. D’altra parte, non posso certo dimenticare che ci fosse proprio lei sotto i miei occhi quel giorno di merda, al Faraone, con la birra davanti, mentre ricevevo questa chiamata del cazzo.

E dentro di me ho cercato invece di recuperare l’immagine che avevo di questa donna prima di questo spiacevole episodio. Di ricordare la sensualità di questa donna, che abitando lì,vedo spesso e volentieri visto che al Faraone a Madonna dei Monti ci vado sempre a bermi una birra dopo il lavoro. E’ un peccato che ci vada di mezzo lei, a parte che non la conosco nemmeno, però era bello prima sedermi lì e guardarla parlare al cellulare portando in giro la sua carica esplosiva di sensualità. Era davvero un bel passatempo. Non è più come prima.

Nel terzo bar invece ci sono andato poco prima di andare all’appuntamento con Raffo e sua cugina. Si trova all’inizio di via della Scrofa. Qualche tempo fa lavoravo lì vicino e ci passavo sempre davanti. Anche se allora non c’era questo bar, ma un altro locale. Poi hanno cambiato gestione e l’hanno ristrutturato. In realtà, lì nel terzo bar non mi era successo nulla di male prima. Però, dopo i due bar che avevo visitato poco prima ovviamente ci è andato di mezzo anche questo terzo bar. Sono sicuro che d’ora in poi quando andrò a farmi una birra lì mi verrà in mente ieri sera e la bile che mi è venuta in corpo a rivivere certe situazioni davvero di merda.

Cambiando discorso, l’altra sera sono andato a vedere Volver al Tibur. Non mi ha fatto impazzire il film, la cosa che mi piaceva di più era che fosse stato girato nella Mancha, mi veniva in mente tutto il tempo don Chisciotte della Mancha. A me don Chisciotte mi è simpatico, mi ricorda me stesso, uno che abusa dei sogni, una specie di drogato dei sogni. Poi, le pale colpite dal vento nel film Volver mi facevano venire in mente tutto il tempo i mulini a vento di don Chisciotte e ieri sera quando mi trovavo in questi tre bar mi sembrava di essere come il vento di Volver, che gira fra le pale del film di Almodovar e io che giro nei bar come un refolo di vento.

Pensando a Volver, ci sono due momenti che ti viene da piangere, che quel paraculo di Almodovar sembra che ti strappi le lacrime dagli occhi. La prima, quando Penelope Cruz canta la canzone Volver, che poi ho scoperto che la voce originale è quella dell’attrice che nel film interpreta sua figlia, che nel film le danno quattordici anni di età, ma in realtà ne ha 22 di anni. Per me ne dimostra più 14 che 22. Poi, quando la Cruz incontra sua madre. Mi sono trattenuto dal piangere, però si capiva che in questi due passaggi del film il regista voleva suscitare il pianto.

Mi è venuta in mente l’ultima volta che sono andato al cinema a vedere Almodovar. Qualche anno fa, a vedere Tutto su mia madre, ci ero andato con una donna. Ho pianto come una fontana tutto il tempo, la donna mi prestava i Tempo per asciugarmi le lacrime, non riuscivo a fermarmi, moccicavo da tutte le parti. In questi film secondo me all’ingresso dovrebbero venderti i kleenex con i pop corn questi vigliacchi di cineasti.

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11 giugno 2006

Un Jankulovski a Oderisi


L’altra sera al campetto di Oderisi da Gubbio mi sono presentato per tempo. Non c’era nessuno dei compagni e avversari, solo una marea di genitori raccolti per vedere il saggio di ginnastica delle bambine. Fumavo aspettando gli altri. Alla fine è arrivato mister De Siena e mi sono sentito più tranquillo, pensavo di aver sbagliato campo.

Come sempre, il tizio dell’oratorio ci ha dato gli spogliatoi scrausi dove c’è sempre l’acqua gelata. Sono mesi che ci prende per il culo che i preti hanno costruito gli spogliatoi nuovi, con l'acqua calda e il boiler. Poi però ci sono sempre quelli del basket che hanno la precedenza. Allora, ci toccano gli spogliatoi ghiacciati. L’altra volta negli spogliatoio c’era questo bambino che fa karate che se la stava tirando con i suoi compagni di corso perché lui è cintura marrone. Gli avrei dato due sberle. Una cintura gliel’hanno regalata soltanto perché suo padre un weekend l’ha accompagnato a fare un torneo al Pala Lottomatica. C’erano i suoi compagnucci di corso che rosicavano di brutto, loro sono cintura bianca al massimo rossa.

Intanto, questo qua con la cintura marrone se la tirava e pontificava, sembrava di quelli che dicono che hanno preso chili di mussa ma si vede lontano un miglio che raccontano palle. Poi, sto bambino con la cintura marrone aveva la riga da una parte, si vedeva lontano un miglio che prima uscire di casa sua madre lo aveva pettinato. Ma come stai, vai a karate e ti fai pettinare da tua madre prima di uscire? Almeno spettinati prima di entrare negli spogliatoio, che sei ridicolo te e il Pala Lottomatica e tuo padre che ti compra la cintura marrone portandoti a un torneo nel weekend.

In campo finalmente mi sono potuto mettere la maglia della Germania. Ce l’avevo in borsa da quattro mesi, c'era ancora l'etichetta. Di solito mi fanno sempre giocare con i blu. I meccanismi dei bianchi sono molto ben oliati, sotto la mano di mister De Siena, che sulla fascia stantuffa che sembra Pasinato, quello dell’Inter che a Spillo Altobelli gli metteva sempre la palla sulla fronte che bastava appoggiarla in rete. Poi, mister De Siena si sbatte in campo e falcia mica da ridere. Peccato per quel tiro, quella staffilata che ha preso il doppio palo, troppa sfiga, ma quello che conta è il gesto tecnico.

Come in quel cross che mi ha fatto a me a un certo punto, era un po’ arretrato, l’ho arpionata da fermo (praticamente ho giocato da fermo perché dopo cinque minuti in campo mi sentivo venire in gola un pacchetto pieno di Fortuna blu, ancora incartato, e non riuscivo a respirare) e ho beccato la traversa. I pali e le traverse ci sono, ma quello che conta non è il gol, è il gesto tecnico.

Se no Pippo Inzaghi bisognerebbe dire che è forte, soltanto perché segna a raffica, ma in realtà lo sappiamo tutti che è molto meglio Ibrahimovic, che si conferma il mio giocatore preferito, in nazionale con la Svezia è riuscito a non schiaffarla dentro nemmeno contro il Trinidad Tobago. Però, non ho visto gli highlights, sono sicuro che Ibrahimovic ha fatto dei numeri della madonna in campo. La classe non è acqua e sicuramente non si valuta con il numero di gol che fai. Se no Ibrhaimovic verrebbe a giocare con noi a Oderisi, lo chiamo sempre il martedì per convocarlo ma è sempre da qualche parte per Champions.

Detto questo, parlando dei giocatori in campo a Oderisi da Gubbio, posso dire che i meccanismi di gioco messi su da mister De Siena hanno trasformato giocatori mediocri (vedi Raffo e Paolo Testa) in vere e proprie macchine da gioco. I movimenti dei bianchi sono talmente oliati da ore e ore di schemi ripetuti alla lavagna di via del Sudario sotto le mani pazienti di mister De Siena, nelle infinite ore di ufficio che si fanno questi maratoneti della conchiglia dell’innovazione, che i bianchi potrebbero trovarsi in campo ad occhi chiusi.

Questo terzetto di giocatori (Raffo, Paolo Testa, Mimmo mister De Siena) si trova su quell’erba sintetica di Oderisi da Gubbio come il triangolo isoscele nel libro di geometria delle medie. C’è sempre, area per altezza diviso due.

Raffo "testa bassa" Mastrolonardo fa sempre le sue sortite in avanti alla ricerca del gol della vita, che prima o poi arriverà. Tutti sanno che il giorno che arriverà questo benedetto gol della vita Raffo "testa bassa" Mastrolonardo smetterà di giocare, perché ormai sono quindici anni che cerca di farlo questo gol della vita: secondo me se lo ripassa tutte le sere prima di addormentarsi. Caricare il destro da lontanissimo, da fuori area, e scaricare una sassata che si insacca nel sette facendo gioire la gradinata che c’ha scolpita nel cervello da quindici anni e che lo osanna e gli chiede di andare sotto la curva. Poi si addormenta felice. Belin, Raffo, se fai sto gol della vita secondo me ti viene l'insonnia fulminante.

Prima di noi nel campetto c’era una partitella di gente e uno aveva la maglia della Germania come la mia. Però la sua aveva le bande giallo-nere-arancioni più larghe. Quella maglia mi piaceva molto di più della mia, però non ho potuto dirlo apertamente perché erano quattro mesi che volevo usare la mia di maglia nuova e se dicevo che non mi piaceva più, che preferivo quella del tizio della partita prima, secondo me mi mandavano affanculo e non mi facevano nemmeno giocare.

Questa volta al campetto di Oderisi per fortuna non c’era quel bambino dell’altra volta, quello che è entrato e continuava a voler giocare e c’erano i due difensori che non conosco che gli davano corda. Io a un certo punto gli stavo per tirare una pallonata sul faccino, poi mi sono trattenuto perché magari ci mandavano via e poi c’era sua madre che diceva che bravi questi ragazzi, che ti fanno giocare. Ma ora andiamo via, che papà ci aspetta. E vattene!!!!! Dobbiamo giocare.

Sulla rete sopra il campetto c’era un pallone in cielo di carta straccia. Come ci è finito non l’ho capito, buchi nella rete non ce ne sono.

In campo degli avversari l’altra volta m è piaciuto Jankulovski. Glielo dicevo ai miei compagni di tenerlo, lo lasciavano scorrazzare per il campo era sempre libero, anche perché Raffo, alla ricerca del gol della vita, si piazzava davanti invece di tornare che lo sanno anche le grate del campetto che lui deve stare dietro, partire da dietro e ringhiare sulle caviglie di Jankulovski. Di gol quando stavo in porta me ne sono presi come sempre una valangata. Non ho fatto una parata, mi giravo quasi sempre dall’altra parte quando tiravano, non è una novità, quando la paro è di culo, nel senso che mi colpisce sul culo per sbaglio. Sta volta ha giocato benissimo Marco, sembrava davvero Figo. Secondo me quando ti metti la maglia di uno forte diventi come lui. E Figo forte è forte, poi secondo me quando giochi con il numero 7 quasi sempre giochi bene. A proprosito, mi è rimasta nella borsa una maglia amaranto con scritto Ascalcio.it con il numero 6 dietro, di chi è?? Di Paolo Cassano Barbieri??

Io di solito mi piace mettermi addosso il numero 3, però ormai la fascia non riesco più a tenerla tutta, non fluidifico, sembro un palo della luce in campo. Non ho fatto manco un tackle l’altra volta e ho ancora litri di acido lattico nei polpacci, belin dovrei correre un po’, se no ogni volta arrivo a casa dopo Oderisi da Gubbio e sputo un pacchetto pieno di Fortuna blu, sul tavolo, e l’acido lattico mi resta anche nelle sopracciglia per una settimana.

Mi è piaciuto molto Emiliano l’altra volta, con quel baricentro basso e le finte controfinte è sempre più il fromboliere di Oderisi. Come dicevo prima, il fatto che il 90% delle sue giocate sia inconcludente e inutile per me è un complimento. Belin, adoro i giocatori innamorati del pallone, quelli che scartano tutti, arrivano sulla linea di porta e tirano alto apposta, a sfregio. L’importante è il gesto tecnico.

Emiliano è un maestro in ste cose. Scarta uno, poi torna indietro per riscartarlo per dimostrare a tutti che non è stato un caso. Poi, tenta sti passaggi tocchettati alla Hagi. A me i rumeni mi sono sempre piaciuti, sono latini dentro, giocano bene e perdono sempre però in più la Romania ha una bellissima maglia gialla. Però non me la compro perché se no sono sicuro che arrivo a Oderisi, vedo la partita prima della nostra e c’è qualcuno che c’ha la maglia della Romania più bella della mia e mi viene voglia d andarmene senza giocare.

Poi, dalla nostra parte c’era Luca che tirava delle staffilate da fuori area che si insaccavano cliniche nel sette ogni volta che tirava. Sembrava Oddo. Secondo me, Raffo "testa bassa" Mastrolonardo, rosicava ogni volta che vedeva la palla insaccarsi perché Luca, che di certo non sogna da quindici anni di fare quei gol che fa normalmente senza grosso sforzo, non se li sogna di sera tutte le sere prima di addormentarsi di fare un gol così, che se Raffo ne facesse uno in vita sua appenderebbe le scarpe e i chilometri di scotch che si arrotola prima di giocare sulle caviglie al chiodo e si dedicherebbe soltanto al pugilato all'Audace.

Paolo Testa sembrava Gullit il primo anno che è venuto alla Samp di Eriksson dopo due o tre anni in tribuna nel Milan. Una voglia di correre che se io ce ne avessi un quindicesimo della sua, di voglia di correre, sarei titolare del Paraguay ai mondiali col passaporto falso naturalizzato oriundo. E invece no, siamo sempre lì, sotto alla doccia gelata di Oderisi, che dopo la partita me ne sono andato a via dei Serpenti all’enoteca e mi sono fatto due Menabrea di seguito e il proprietario era il suo compleanno, quarant’anni, e gli avevano regalato una maglia della Germania.

Ce l’aveva addosso, era meravigliosa. Grigia, dev’essere la seconda maglia, dell’Adidas, con lo stemma laterale della Fussball Bundes Verbund. Ce l’aveva addosso, puzzava già di acrilico, si vede che ste maglie moderne dei mondiali della nazionale le fanno così, che puzzano, così il difensore lo stordisci con le ascelle, e allora per fargli bene gli auguri che era il suo compleanno del proprietario dell'enoteca di via dei Serpenti ho tirato fuori dalla sacca la mia maglia bianca della Germania. Gli ho proposto uno scambio, era sudata la mia maglia, non ha voluto. Diceva che da quando ha sei anni tiene per la Germania. Belin, qualcuno me lo deve spiegare come fa uno a sei anni a decidere di tenere per la Germania se è nato e cresciuto al rione Monti. La sua maglia era molto più bella della mia.

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08 giugno 2006

L’altro giorno sono andato al Sir


L’altro giorno sono andato al Sir. Il freezer era vuoto, la Pina voleva cucinare la tiropita, un piatto greco. Dice che mi vuole allenare lo stomaco, quest’estate andiamo in vacanza a Rodi. Le ho detto ok, ti accompagno a fare la spesa, voglio che mi venga la panza del Pireo. Siamo entrati al Sir, ho messo l’euro nel carrello e abbiamo preso un po’ di cosette: yogurt, banane, latte, succhi Ace alle carote ecc. Per la colazione.

Davanti al frigo della carne mi sono accattato una doppia sberla di carne argentina. Le sto provando tutte: argentina, danese, italiana ecc. Voglio farmi una cultura carnivora. Poi a casa invece della tiropita mi sono calato questa sberla di carne, buonissima, al sangue. C’avevo voglia di carne, c’erano anche i cavolfiori che fanno bene all’intestino e lui l’intestino bisogna pensarci ogni tanto che esiste anche lui colon o tenue che non si capisce la nomenklatura dell’intestino.

Poi, come d’incanto, come entrando in un mondo parallelo, come sfondando il muro del suono, come andando a finire di colpo dentro a un film, arrivo davanti al banco dei formaggi. Non devo comprarmi niente, sto parlando del più e del meno con la Pina, passo vicino a una coltre di capelli grigi e neri e rossi – vecchie ritardatarie che vanno a fare la spesa troppo tardi per i loro standard classici – un tizio in coda si spazientisce perché i macellai stanno a cazzeggià non poco, lì dietro al bancone arrotando le lame dei coltellacci e sparano minchiate a raffica in presenza dei clienti fottendosene altamente della fila parlano di una trasmissione di calcio della sera prima su Tele Roma56.

“Ahò, annamo, devo andare a cucinà”, dice esasperato il cliente in coda, scoglionato di assistere allo show privato dei macellai. Ha fretta il cliente. Erano due i macellai. Uno più anziano, con il grembiule bianco e sopra un altro grembiule a righe verticali bianche e rosse sporco di sangue e il cappelletto classico bianco. L’altro più giovane, capelli corti, muscoloso, barbetta incolta, denti giallastri e sorridenti che continuava ad affilare la lama con l’apposito attrezzo di fronte ad una folta platea di clienti in attesa del loro turno fra una cagata e l’altra che si dicevano i due del banco dei formaggi e salumi.

Allora, il cliente spazientito, di mezza età, freme. E’ il suo turno e dice: “Ahò, annamo, devo andare a cucinà”. Quello vecchio dei due dietro al bancone gli risponde: “Che, te serve l’accendino?”. Quello giovane scoppia a ridere come un pazzo, lo stesso fanno gli altri clienti – alcuni – mentre certe signore con i capelli grigi si guardano negli occhi indecise se incazzarsi in massa o subire in silenzio in attesa che l’altoparlante elettronico annunci il loro turno “Numero 82”, dice la voce femminile accattivante.

Ogni volta che pare bocca i due macellai del banco del Sir le fanno il verso e ridono, poi fanno un inchino prima di tagliare grosse fette di prosciutto San Daniele o di incartare qualche bufala da sei chili. Il cliente che ha detto “Ahò, annamo, devo andare a cucinà” decide di mettersi a ridere e di darsi una calmata. Intanto, anche se si incazzava era peggio per lui, perché quello vecchio dietro al bancone lo tirava scemo e non lo serviva più.

L’altro giorno siamo andati al teatro India, vicino al Gazometro. Non l’avevo mai visto. Stranissima la facciata con tutte quelle scarpe di cemento armato, quelle scarpe da ginnastica, sembrano Nike, murate sulla facciata. Me ne sono accorto dopo un po’ che erano delle scarpe. Non si capisce subito, se guardi la facciata. Poi, siamo andati in pizzeria, a Ostiense, sulla Panda di Stefania. Mi piace andare su queste macchine scasciate vecchio modello. Mi sento accolto bene da quei sedili polverosi. Anche se mi dà fastidio salire su una macchina senza lo specchietto laterale dalla parte del guidatore. Su due amiche con auto scasciata che ho qui a Roma (Stefania-Panda, Muriel - Honda allucinante, del ’75, piena di residui sparsi: vecchi numeri del Mucchio strappati posati sul ripiano di dietro, bricioloni che sembrano quelli di un panino di un dinosauro rex che si è fatto un MacDonalds seduto dietro, bottiglie d’acqua vuote da un litro e mezzo per terra sui tappetini, pezzi sparsi di oroscopi e matite nere da rimmel sotto al sedile davanti che spuntano se Muriel frena all’improvviso) tutte e due vanno in giro senza lo specchietto dal loro lato. E lo specchietto retrovisore interno lo usano sempre e soltanto per guardarsi il trucco.

Insomma, mi dà fastidio e loro ci ridono e ci mettono lo scotch da pacchi sopra, sperando di nascondere l’assenza dello specchietto. e mi sono fatto una pizza alle cipolle che altro che cavolfiori, l’intestino lo prendono a pugni in faccia e lo riempiono di botte. Pugni a mani nude sono quelle cipolle crude, troppo valide, pugni senza guantoni in faccia a colon e tenue.

Ieri sera sono andato alla presentazione di un libro, si intitola “Escluso il cane”. Mentre aspettavo mi sono letto l’introduzione del libro di Terzani sulla Cina. Non ricordo il titolo, c’è lui in copertina fotografato davanti ad un portone rosso. Forse si intitola il portone rosso. Era strana l’introduzione. In realtà, ce n’erano due di introduzioni: la prima della seconda edizione, la riedizione del libro, del ’98. La prima, la prefazione originale, dell’84, quando aveva scritto il libro. Era strano leggere come le cose che diceva Terzani sulla Cina fossero molto cambiate a distanza di anni. Era strana questa descrizione delle dighe come un vincolo per i cinesi che dopo la morte di Mao diventano un rischio perché la manutenzione collettiva non esiste più. Era strano vedere come l’adozione del modello capitalista abbia distrutto un mondo ormai superato sostituendolo con un mostro, una riedizione del vecchio mondo cambiata nei contenuti – non più il comunismo ma il regime del capitale – senza modificare la sostanze delle cose. Cioè, che la Cina resta un regime. Un po’ come il calcio senza Moggi, secondo me arriva un altro sistema che marcisce in poco tempo, oppure un po’ come Mani Pulite, che poi è venuta la seconda repubblica che non so se sia poi tanto diversa dalla prima. E’ vero che erano passati 14 anni fra le due prefazioni. La prima in un certo senso l’aveva scritta a caldo, le impressioni di quello che aveva scritto erano più fresche. La seconda prefazione, anni dopo, era davvero diversa dalla prima. Mi ha fatto impressione notare come le cose e i giudizi sulla stessa cosa possano cambiare così radicalmente a distanza di tempo. D’altra parte le cose vanno così.

La cosa più bella nel commento dei due critici al libro “Escluso il cane” è stata quando uno dei due ha detto che non si capiva bene chi fosse più schiavo, se il cane al guinzaglio oppure il padrone che lo tirava questo cane al guinzaglio. Non si è capito bene cosa volessero dire, però era un pensiero profondo. Sembrava un precipizio come pensiero, si vede che a volte non sanno cosa dire e sparano questi precipizi o meglio burroni di giudizi sul libro.

Poi, hanno iniziato a parlare del libro dicendo che era stato stroncato dalla critica. Ma che questo non è necessariamente un male. La critica ha stroncato il libro perché una volta soltanto lo scrittore, che portava begli occhiali e in ogni caso aveva riempito la platea quindi almeno si può dire che ha un sacco di amici e per questo ha tutta la mia stima, ha usato l’aggettivo malmostoso. Ma belin, saranno un po’ cazzi suoi gli aggettivi che usa? O deve chiedere il permesso ai critici? Boh, sti critici criticoni. Che poi facevano finta di farsi una chiamata al cellulare, di fronte alla gente che assisteva alla presentazione del libro e di commentarlo così. Ma belin, non gliel’ha detto nessuno prima che dentro alla Feltrinelli di Piazza Argentina non prende nemmeno se preghi?

L’altra sera ho visto un film in divd con i controcoglioni quadrati. Si chiama La sicurezza degli oggetti, con Glenn Close a sessant’anni. Sono sempre molto contento quando vedo queste attrici sui sessanta che non si sono liftate. Mi sembrano coraggiose, visto che quasi tutte le loro coetanee si fanno aprire la faccia e le tette. Ne parlavo con Ludovica, l’altro giorno, mi diceva che era d’accordo con me.

Stasera vado a giocare a calcetto. Speriamo che mi facciano giocare con i bianchi. Sono tre mesi che mi porto sempre dietro la maglia della Germania, nuova, ma non l’ho mai potuta usare perché mi mettono sempre con i blu.

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03 giugno 2006

Cose inutili


Oggi sono andato con mio fratello a fare una passeggiata a Roma. E’ venuto a trovarmi per il weekend. Lollo vive a Milano. L’ho portato in giro in motorino, gli ho fatto fare un rapido tour. Aventino, Bocca della Verità (non si è messo in coda, mi ha raccontato che c’era un giapponese che saltava davanti alla Bocca mentre si faceva fotografare da sua moglie, forse fingeva di essersi fatto mordere e faceva il tarantolato giapponese).

Poi, siamo passati dal Pantheon, da Piazza Navona, Piazza di Spagna, Fontana di Trevi. Io in realtà correvo mentre facevamo questo tour. Avevo un’andatura spedita. Lollo me l’ha detto alla fine. Magari se me lo diceva prima frenavo un po’ il passo.

Correvo perché volevo che si vedesse tutto. Non volevo che si perdesse nulla, chissà quando viene la prossima volta. Mi comportavo come quelli che ai matrimoni riempiono gli sposi di foto e sono molesti in questa loro ansia di immortalare il momento felice. Tanto molesti che alla fine stressano gli sposi, che preferirebbero viverselo il momento. Invece si devono mettere in posa.

Ma non volevo scrivere di questo. In realtà, ho spostato il pc in cucina per non disturbare Lollo (sta dormendo a intermittenza da circa due ore sul divano) perché volevo scrivere un racconto sulle cose inutili. Un racconto sulle cose inutili che ho fatto oggi. Ma in generale ne faccio tantissime, tutti i giorni. Prima stavo pensando al concetto di utilità e a come questo concetto sia la stella polare di molte azioni della mia vita.

Ad esempio, a periodi mi siedo sul water quando devo fare pipì. Mi sembra una cosa utile. Così non rischio nemmeno di schizzare fuori. Anche se detto fra noi a volte faccio pipì da seduto e schizza nell’interstizio, quello fra la tavoletta e la porcellana del water ed è anche peggio. Ma non volevo scrivere cavolate, adesso. Né fare il simpatico. Volevo scrivere sulle cose inutili che ho fatto oggi.

Ho aperto la mail e ho riletto delle vecchie mail. E’ stata una cosa inutile perché sono vecchie mail, che non servono più a niente e che in realtà non sono nemmeno state utili in passato. Però ripensandoci bene non sono state completamente inutili perché oggi mi sono rivisto, nero su bianco. Mi sono rivisto quello che scrivevo qualche tempo fa e ho anche visto cosa è successo e so come sono andate le cose. E in quelle mail lì non è che ro in posa per le foto del matrimonio. Non ero in psa e basta.

Stanotte ho fatto un sogno. Ho sognato le pagine del mio romanzo scritte e una voce in sottofondo che mi diceva devi riguardarlo il tuo romanzo. E’ sempre importante rileggerlo, il tuo romanzo. E’ sempre utile rileggere le tue mail. Quindi, alla fine rileggere le mie mail oggi non è stato poi così inutile.

Di sicuro, oggi è stato inutile tagliarmi i capelli, tanto poi ricrescono. Anche se non è stato così inutile, perché sembravo moncicì è un piacere averti qui con quei capelli gonfi che sembra che me li pompano con la pompetta della bici e in testa mi viene il caschetto dei Jackson Five. Poi mi prudevano, con il casco. Quindi, non è stato poi così inutile tagliarmi i capelli.

Di certo, è stato inutile aprire il computer e guardare la posta. Non c’erano messaggi. E' sabato oggi, un sabato diverso dagli altri perché la gente fa il ponte e non scrive mail in questi giorni. Però, se non aprivo la posta non riguardavo le mail, quindi da un certo punto di vista è stato utile aprire la posta. Non so se mi spiego.

Mi sto bevendo la mia Moretti, adesso è un momento che mi sento davvero inutile. Sto scrivendo cagate sul mio blog, così, senza capo né coda. Però mi piace farlo, mi sento la reincarnazione di Bukowski quando faccio così. Quando apro la pagina di word senza la minima idea di cosa scriverò. Mi piace. E’ inutile, ma mi piace.

Penso che prima o poi scriverò un elogio delle cose inutili. Come ad esempio dire buongiorno e buonasera, sarà educato ma è inutile. Comprare il Corriere oggi, inutile, ho letto due o tre articoli inutili. Però almeno adesso so che Bertinotti ieri alla parata militare del 2 giugno si è messo la spilla della pace ad un certo punto. Saperlo è abbastanza utile, se non altro è divertente vedere Bertinotti nella sequenza fotografica del Corriere che compie un gesto consapevole che farà parlare di lui. E’ stato in ogni caso un gesto politicamente utile. Bertinotti ti ha fatto capire molte cose con quel gesto. In effetti ci sono dei gesti utili in giro. Poi sul giornale c'era scritto che non riusciva a stare fermo un attimo durante la parata, che sembrava un tarantolato con Napolitano e i carri armati che sfilavano. altro che le sfilate della moda a Milano, che ti agiti come se ti mitragliassero in faccia, ma non sono proiettili. Sono immagini.

E’ stato utilissimo questa mattina farmi la doccia. Mi ero appena rasato i capelli da moncicì, tutti matassati nel sacchetto che metto nel lavandino quando prendo la macchinetta. Se non mi fossi fatto la doccia mi rimanevano tutti i capelli nelle orecchie. Più che utile è stato igienico. Poi se no mi prudeva dappertutto.

Invece, mi domando a cosa mi sia servito entrare in certi siti oggi mentre navigavo con mio fratello che dormiva sul divano rosso. A niente mi è servito. Cercavo anche delle offerte di lavoro online, sul sito www.motorelavoro.com, inutile. L’altro giorno sono entrato in un altro sito inutile, però troppo divertente. Si chiama www.sitodubelin.com (.it?). C’erano un sacco di modi di dire idiomatici con la parola belin. Bellissimo, mi sono anche emozionato leggendo il racconto di cos’è Genova per uno che ha scritto un suo resoconto di cos’è Genova per lui. E' uno che lavora al Galliera, l'autore, lui sì che è uno utile.

Oggi ho finito il mio diario dei sogni. E’ lì che negli ultimi nove mesi ho trascritto tutta la mia attività onirica. E’ pieno a uovo. E’ un quaderno rinforzato, con la copertina rigida, a righe. Adesso è finito. Ho controllato le date, sono passati esattamente nove mesi da quando l’ho cominciato a settembre. Adesso che l’ho riempito mi sembra quasi di aver portato a termine una gravidanza.

Nove mesi, questa notte ho fatto l’ultimo sogno del mio diario e posso iniziarne un altro. Penso che anche questa sia una cosa inutile, apparentemente, scrivere i sogni. Però da un altro punto di vista, quello analitico, non la è. Perché me lo dice sempre Pirandello, i sogni bisogna sempre scriverli e ogni tanto il diario bisogna rileggerlo. E’ un’operazione che ti fa sentire più utile perché vedi come sono cambiate le cose nel frattempo.

I sogni cambiano sempre, ci hai fatto caso vero. Rileggerli ti dà il senso che le cose cambiano, che non sei sempre fermo nello stesso punto. E questo è utile. Anche se mi domando se non sarebbe meglio lasciarli vuoti i diari. Non sono tanto sicuro, anche perché credo che le pagine siano lì per riempirle, o no. Allora stamparli questi diari sarebbe inutile, ma se li stampano vuo dire che qalcuno ci scrive dentro e completamente inutile non può esserlo.

Non so come spiegare, a volte mi prende questa impressione di essere una persona completamente inutile. Poi, guardo la mia birra e il mio pc e cambio idea. Se non ci fossi io che lo riempirebbe il mio blog, mia sorella (che non ho)? E la spazzatura chi la porterebbe nella rumenta?

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01 giugno 2006

Salto in alto femminile


Ieri sera sono venuti Michele e Francesca a casa. La Pina ha cucinato, cena di pesce. Quando sono entrato a casa ieri sera era nel bel mezzo dei preparativi. C’era una puzza di pesce che sembrava di essere a Sottoripa, al mercato del pesce di Genova, la mattina alle cinque, quando scaricano le cassette. Stiamo al secondo piano, con la Pina, la ventilazione non è delle migliori. Lei la puzza non la sentiva, ormai era assuefatta, aveva anche pulito la cernia, aveva pesce dappertutto. E’ venuta lì, mi ha passato le mani piene di pesce nei capelli. Belin.

Non ho detto niente, perché alla fine poi dopo ho mangiato ai quattro palmenti e doppio menti. La cosa più buona era l’antipasto: un rotolo di mozzarella, questa sfoglia di mozzarella, farcito con salmone e rucola. Ve lo consiglio, il rotolone di mozzarella e salmone è delizioso, vino bianco, anche se poi Michele ha portato il rosso buono e non abbiamo detto di no.

Non ho mai capito questa regola che il rosso non puoi berlo con il pesce. Ma chi l’ha detto? Probabilmente se lo dicono sarà vero, che è meglio il bianco con il pesce. Mi fido. Però, per dire che le regole sono sempre opinabili, Michele ieri sera si è messo un quintale di grana nella pasta con il sugo di spada. Per i puristi del pesce questa è un’eresia peggio del ketchup nella pasta, però, scusa, se a lui piace così, spada con il grana, è sbagliato che se la mangi così? I gusti sono gusti, che bello scrivere un po’ di cose ovvie e trite e ritrite, in fondo nel mio blog ci scrivo quello che voglio. L’utero è mio e me lo gestisco io.

Parlando di mercati del pesce, mi sono stupito tantissimo quando ho scoperto che il mercato del pesce più grande del nord Italia si trova a Milano. Molto più grosso di Genova e rifornito e con pesce fresco, a Milano. Milano è l’hub del pesce. Me l’ha detto mia mamma, che cazzo ne saprà mia mamma però lo sapeva, che quando mi veniva a trovare a Milano comprava sempre il pesce. Vicino a casa c’era il mercato comunale del pesce, io personalmente non ci ho mai messo piede in quel mercato, li odio i mercati c'è troppa gente. Però, lei ogni volta che mi veniva a trovare a Milano mi comprava la sogliola.

La sogliola è il mio pesce preferito, quella che mi fa mia madre, impanata. In effetti, mia madre, anche se cucina la pasta al sugo con lo zucchero – non ho mai capito perché, ma i sughi di pomodoro di mia madre sanno di zucchero, probabilmente ci mette lo zucchero dentro e comunque sono sconditissimi, cioè non sono marci, non ci sono sapori, ha sempre cucinato quasi insipido mia madre – è una maestra dell’impanatura. Non solo per la sogliola, anche per la milanese. Mia mamma, non so perché, fa la milanese più buona d’Italia. La sua impanatura è davvero da deca e lode. Mia mamma è svedese.

Michele ieri sera è arrivato con Francesca e il bambino, Alessandro, sette mesi. Troppo carino Alessandro, sdentato, rideva sempre. I suoi genitori lo trattano come un piccolo reuccio, se lo spupazzano (non avevo mai usato questo verbo in vita mia). Era divertente quando lo guardavo da lontano, sto bambino. Ogni volta che gli facevo le linguacce e le peggio facce rideva come un cretino. Poi non piangeva mai. Grande sto bambino, stava sempre zitto a parte alla fine che era stanco poveraccio e se lo sono portato a dormire.

Poi, un momento favoloso era quando Michele gli dava il latte nel biberon. Faceva queste curve lunghissime con il gomito, prima di dargli la tettarella (ieri sera ho scoperto che ci sono diversi modelli di tettarella, ce n’è una che rilascia meno latte e il rilascio del latte dipende anche dall’inclinazione del biberon, se lo metti quasi orizzontale allora la tettarella rilascia di meno) delle curve che sembravano shikanes così aumentava l’aspettativa di tettarella di Alessandro. Poi, quando la tettarella del biberon stava per arrivargli nelle gengive, Michele faceva anche il sonoro: “ciuf, ciuf, ciuf….” Come se fosse un treno che entra nel tunnel. Era molto divertente vedere il bambino che ciucciava e ascoltare i discorsi dei genitori che si preoccupavano che il bambino avesse ancora fame. Belin, con tutto il latte che si è ingurgitato fame non ce l'ha, non ti preoccupare.

Oggi il tempo è brutto. Ci sono brutte previsioni per il weekend, meno male che non andiamo a Capalbio. Viene mio fratello domani, non lo vedo da ottobre, al mio matrimonio. Sono contento che venga, lo vado a prendere a Tiburtina domani, speriamo che non si porti il solito valigione che secondo me quando va in giro pensa sempre di andare chissà dove e si porta queste Samsonite full size che poi sul motorino non so dove mettermela. L’ho chiamato due settimane fa Lollo, mio fratello. Era domenica, mi stavo mangiando un trancio di pizza vicino a Campo dei Fiori. Avevo appena letto un articolo su Repubblica, nelle pagine dell’inserto domenicale di cultura, sulla storia del salto in alto femminile. C’era la foto della Kostadinova, la saltatrice bulgara che era il suo idolo, di Lollo, dico. Da piccoli, avremo avuto sei e otto anni, facevamo finta lui di essere la Kostadinova e io la Bikova, la sua rivale russa. Montavamo dei fili tesi sopra il letto, che fungevano da asticella del salto in alto, vicino al letto che fungeva da materassone del salto in alto. E facevamo le gare di salto in alto.

Se va bene saltavamo sessanta centimetri, però fingevamo di essere a due metri e più, le misaure del salto in alto femminile. La messa in scena era favolosa: Lollo si metteva tutto concentrato in fondo alla stanza e simulava i movimenti della Kostadinova, prima della rincorsa. Portava avanti e indietro le braccia, facendole oscillare, tese, poi faceva il doppio saltello e partiva per la rincorsa e il salto Fosbury. Se passava lo spago che fungeva da asticella, faceva delle scene di contentezza come se avesse superato il record del mondo. A volte nella foga del salto si prendeva delle zuccate nel muro, ma non si lamentava. Sono i rischi del salto in alto in camera.

Oggi ho fatto un’intervista ad un climatologo per un freelance. Aveva l’accento fortemente pisano. Devo fare questo articolo sul clima fai da te, pare che ci sono un sacco di sperimentazioni in giro per procurare precipitazioni piovose artificialmente, sparando delle sostanze chimiche nelle nuvole così piove. Il climatologo era molto scettico sulla reale portata di questi metodi, molto diffusi negli Usa e a Pechino, dove l’inquinamento è talmente elevato che l’aria è densa di polveri nere.

Quando l’ho scritto il mio articolo, dove la mia firma non comparirà in fase di pubblicazione (sono finalmente a tutti gli effetti e senza peli sulla lingua un ghost writer per conto di una mia collega che mi ha chiesto fammi il favore, Paolo, io non riesco, fammelo tu sto articolo ma poi lo firmo io, ti va bene? Le ho detto, sì che mi va bene, il clima è un argomento che mi interessa molto e poi mi paga) lo pubblico nel blog. Penso che mi verrà fuori un bell’articolo. Il clima mi interessa come argomento. Sarà perché mi ricorda le tempeste di sabbia che mi si scatenano dentro di me a volte e ogni metodo per limitare o intervenire artificialmente su questi fenomeni sarebbe manna dal cielo marcio di Roma, che ora è tutto grigio e fa pure freddo. Che quando sento sta gente che dice bella Roma gli direi vero, una settimana è bella te e le tue scarpe da passeggio; però guarda che non è mica una cartolina è una città, non è come te la immagini nella tua testolina di cazzo, che per te è soltanto un posto per venire a fare un po' di turismo e non è vero che fa caldo a Roma, è una palla colossale, a Roma fa un freddo porco anche oggi che è il primo di giugno che prima ho incrociato Muriel con l'impermeabiel Muriel. Io la felpa.

Sono un ghost writer e uno sparring partner insieme. Tutte queste sigle in inglese, cavolo, vuol dire che in italiano sono figure che non hanno un loro nome proprio. Ghost writer mi piace, mi sembra che mi rappresenti anche abbastanza bene. Uno che fa il lavoro, ma non compare. Per ora. Intanto io writer lo sono, speriamo che prima o poi si sappia in giro, nel frattempo faccio il ghost che i soldi mi servono, se no come faccio a scrivere, che scrivere a panza vuota non si può mica.

Stamattina a via Opita Oppio Pirandello mi diceva che alla fine lo sparring partner non è mica una figura da disdegnare. E’ uno che si allena e si prende sempre a botte con i campioni. Con i titolari. Sarà anche una figura subalterna, però lui sul ring ci sale e a furia di prendesi pugni in faccia per far allenare i pugili veri impara tutti i suoi segreti, anche i punti deboli.

Che poi magari quando qualcuno si accorgerà di lui e lo farà combattere direttamente, da titolare, sul ring, in un incontro ufficiale, non lascerà più relegato al ruolo di sparring partner lui sarà pronto che dietro le quinte, fuori dai riflettori, anche lui sale sempre sul ring con i campioni e gli ruba il mestiere e i segreti.

Pirandello è sempre molto gentile, lo credo lo pago. Però almeno mi fa da manager, che ce n’ho bisogno di un manager, un manager della mia vita, così la smetto di fare troppe cazzate. Dice che la cosa importante è accorgersi quando arriva il treno giusto e saltarci sopra. Speriamo che passi sto treno, prima o poi, che a me mi viene la sensazione che vedo passare i treni e non si fermano mai alla stazione. Comunque, per ora sparring partner e comunque diciamocela tutta: tra fare il panchinaro o addirittura finire in tribuna in una squadra forte, preferisco essere titolare di una squadra scarsa. A me mi piace giocare, poi se le cose andranno bene magari finisco in una squadra migliore. Ma il panchinaro lo lascio fare a qualcun altro figurati se ho voghlia di finire in tribuna mentre c'è qualcun altro e lo vedo giocare lì sotto, dall'alto, seduto in tribuna. Ma vaffanculo.

Stamattina quando mi sono alzato in cucina c’erano le stoviglie lavate sul tavolo. Erano asciutte. Mi sono messo come sempre accucciato sulla sedia di cucina, acquattato. Stavo fumando, guardavo le stoviglie asciutte, messe lì ad asciugare dalla sera prima. C’era la pentola della pasta, rovesciata, ho iniziato a specchiarmici dentro. Era stranissimo, mi sembrava di essere l’uomo di gomma dei Fantastici Quattro. Se mi spostavo vedevo la faccia e soprattutto le dita delle mani che si allungavano e si espandevano e perdevano le loro fattezze reali per trasformarsi di qualcosa di diverso, riflesso nell’acciaio inox della pentola.

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