talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

28 luglio 2006

Off-limits


Se mangi troppo poi la paghi, soprattutto se fa caldo. Ieri sera non ci siamo tenuti, siamo andati da O’ Pazzariello, anche se c’erano più o meno 40 gradi, e abbiamo mangiato come se fossimo a gennaio. E poi la paghi, non c’è niente da fare.

Ieri sera ci siamo visti con Muriel, Carla e Giorgio a via del Governo Vecchio, per due birrette. Si sudava da fermi. Aria stagnante. Il tavolo del bar era stranissimo: in ferro battuto, a due dei quattro angoli ha delle composizioni floreali e di frutta in rilievo, sempre in ferro battuto. Però, sono pericolose queste composizioni in rilievo, perché le foglie dei fiori scolpiti sono appuntite e aguzze. Ci sono anche dei cavatappi che spuntano fra le foglie, in uno dei due c’era incastrato un tappo di sughero, così uno se ne accorgeva che c’era il cavatappi sporgente. Dall’altra parte invece la punta era libera, sembrava quella di un trapano.

Mi ci sono graffiato. Niente di grave, però stavo parlando e senza accorgermene mi ci sono graffiato sopra. Insomma, un tavolo da evitare quello.

La gente che passava in via del Governo Vecchio ieri sera boccheggiava. Il sole arriva a inondare la via verso le sei di sera, poi fa una parabola e tramonta dietro le facciate delle case. C’erano tutte le donne che passeggiavano ed erano sbracciate, desnude, scollacciate ecc. le osservavo perché ieri sul corriere.it c’era un articolo tradotto dal Time con il decalogo dei vestiti da indossare in città quando fa caldo. Il (la) giornalista britannica scriveva che in città sono da evitare i bikini (ma va?), le canottiere troppo aderenti, le infradito, gli scosciamenti, i pantalonicini corti e per finire che la biancheria intima deve essere color carne, perché altrimenti sotto a vestiti leggeri si nota troppo. In sintesi, il (la) giornalista ha scritto il decalogo del vestito invernale a quaranta gradi.

Poi, aggiungeva una cosa curiosa: le donne dovrebbero evitare braccialetti alla caviglia quando fa caldo, perché le caviglie rischiano di gonfiarsi. Dimenticavo, anche il pareo è da evitare in città, quando fa caldo. Alla fine, se sei in città non devi indossare vestiti che indosseresti alla spiaggia. Le donne che passavano in via del Governo Vecchio questo articolo non l’hanno letto di sicuro.

Ieri sera da O’ Pazzariello abbiamo davvero esagerato. Antipasto con fritti, tutti i fritti del menù, paste cresciute, supplì, mancava solo il baccalà. Poi, con Giorgio abbiamo fatto la pazzia. Abbiamo ordinato una pala di pizza con la ricotta nel bordo, metà diavoletta, metà fiori di zucca. E’ stata dura, ma alla fine l’abbiamo giustiziata. Lo sapevo che l’avrei pagata, stanotte mi sono svegliato e stavo morendo di sete, la panza in subbuglio, ma a volte è più forte di me.

Ho sempre fame. Soprattutto d’estate, non so perché. E mangio. Poi sudo. Niente di grave, però è strano, quando sono nervoso mi viene fame. Sono un po’ nervoso in questo periodo. Speriamo che mi passi, adesso andiamo in vacanza e magari mi rilasso. Non vedo l’ora di essere in Grecia così mi mangio un bel fisherman suvlaki e le foglie di vite e la retsina.

Ieri sera dopo che siamo usciti da O’Pazzariello passando davanti al Baffetto c’era una coda lunghissima. Tutti ad aspettare di farsi una pizza del Baffetto. Di fronte invece c’è questo locale minimal, stile milanese, vuoto. Non vanno proprio questi locali a Roma. Nemmeno quello a Campo dei Fiori o quello a via delle Coppelle. Si vede che la gente, anche i turisti, hanno un’immagine di Roma e questo genere di locale più frigidair non rientra negli schemi della gente. Preferiscono iul Baffetto. E’ un dato di fatto.

Oggi potrei lavorare, portarmi avanti, scrivere delle cose. Ma mi sento la faccia gonfia da ieri sera da O’ Pazzariello e non credo che scriverò nulla. Quando sto così è meglio che non scrivo, perché mi viene male. Come dire, a volte mi rendo conto che l’umore mi influisce moltissimo sulla scrittura. Oggi mi sento gonfio, scriverei cose gonfie, pallose. Quindi, scrivo domani o un altro giorno.

Sono nervoso perché sì, un motivo concreto ce l’ho. Adesso andiamo in vacanza, speriamo che ci si rilassi un po’. Sono nervosetto, eppure ieri mi è arrivata questa telefonata, ti voglio cazzuto diceva la mia amica. Speriamo, anzi direi che cazzuto volendo mi viene bene, come dire. Mi viene abbastanza naturale, di essere cazzuto. O no.

Una mia amica mi ha detto oggi che una che conosce non va in vacanza al mare con loro perché è aumentata cinque chili e si vergogna a mettersi in costume. Mi domando quante donne ci sono che si comportano così e quanto siano state psichizzate per fare questa fine. Cioè, ti rendi conto, sta qua non va in vacanza perché ha messo su cinque chili. Magari va in montagna, da sola, perché non vuole mettersi in costume. Eppure, mi sa che di gente (donne psichizzate) di questo tipo ce ne sono a pacchi in giro, nel nostro paese che è l’Italia.

Mi sa che sono tante le donne che se gli amici vanno a mangiare fuori se ne stanno a casa. Minchia.

Oggi devo andare a ritirare l’ammiraglia dal meccanico. Hai capito bene, dopo una settimana ho dovuto portarlo dal meccanico. Speriamo che non sia niente di grave. L’altra sera non andava in salita. E’ scarburato. Speriamo bene. Sono due giorni che vengo al lavoro a piotte e mi faccio delle saune che in confronto a Helsinki c’è la vaporella.

Robe che arrivo al lavoro da strizzare, mi sudano anche le unghie. Stamattina sono arrivato qua di corsa, per un’intervista, mentre parlavo avrò perso un litro di liquidi. Diciamo che le birrette di ieri sera sono già belle che svaporate. Mi sa che se calcolassero il tasso alcolico dell’aria che c’è qua in redazione sarebbe oltre i limiti del palloncino e magari mi toglierebbero i punti della patente. Però come farebbero a sapere che sono proprio io a sudare queste birrette?

L’hai mai fatto te il palloncino. Io sì. Una volta, ero due o tre volte oltre il limite, è scoppiato un bel casino. Quando mi sono messo la pipetta in bocca, del palloncino, cercavo di trattenere il fiato. Ma non funziona così, poi che ero fracico si vedeva anche senza bisogno della macchina. Poi, ho visto il risultato, mi sono sentito come quelle donne che si pesano e poi decidono di non andare al ristorante con gli amici la sera. In fondo tutti hanno le loro magagne.

Mi sa che tutto sto buonismo e sta comprensione, mi sa che mi ha punto una zanzara ubriaca oppure una zanzara che ascolta le interviste televisive di Veltroni. Una zanzara veltroniana mi ha punto stamattina, che sono buono con tutti. Più o meno.

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25 luglio 2006

Zeligate


La mia dottoressa mi guarda negli occhi e scoppia a ridere di gusto. Una risata grassa, sembra obesa questa risata, come se a ridere ci fosse un elefante o un ciccione oppure uno tutto bocca. La bocca della mia dottoressa si allarga nella risata, si sbellica, sembra che stia per svenire dalle convulsioni, è tutta denti e niente guance, gli occhi strizzati per lo sforzo di tenere insieme la faccia. Poi, si asciuga le lacrime, sta piangendo, spegne la sigaretta, la solita MS rossa, quando vado in seduta lì in via Numa Pompilio se ne fuma almeno cinque, mi fissa negli occhi e mi dice: “Lei è proprio una sagoma, lo sa, soffre a tutti gli effetti della sindrome di Zelig”. Dovrei farle pagare il biglietto, sembra che stia al cinema.

La guardo interdetto, non ho capito niente, ma la sua risata è contagiosa. Sai, quando ridi ma non sai perché, soltanto perché un altro ride di fianco. Finiamo di ridere e le dico “scusi dottoressa, ma io questo Zelig non lo conosco”. Lei me lo dice chi è, poi aggiunge “prima o poi capirà meglio”.

Sono passati almeno cinque anni da quella risata mondiale, che secondo me in via Numa Pompilio vicino a Sant'Agostino nella stanzetta delle sedute, di risate così non se ne sono sentite mica tante dopo di me. La mia dottoressa non la vedo più da anni, anzi per la precisione da un anno, da quando qeust'estate sono tornato da lei di gran carriera, a Milano, zona sud, per un pronto intervento del cervello. Stavo per mollare mia moglie, non ero ancora sposato ma meditavo di non presentarmi all’altare, seriamente, avevo già tutto il piano del golpe in testa. Ma non è questo di cui voglio parlare. Voglio parlare di Zelig, di quella risata e del film di Woody Allen. Tra l'altro, a propristo di Zelig, quest'estate quando mi sono presentato dalla mia dottoressa a Milano pensavo di essere Alain Delon, nel film il Gattopardo, poi mi sono guardato allo specchio e per fortuna mi sono reso conto in tempo che non era vero. Cosa non si farebbe per rendersi interessanti. Pazzesco.

Il dvd di Zelig l’ho noleggiato l’anno scorso, in via Merulana. Adesso vivo a Roma con mia moglie, non l’ho mollata, non sono mica Julia Roberts in quel film che lei scappa sempre col vestito da sposa poco prima di sposarsi. No dai, non sono Julia Roberts, anche se un po' di profilo le assomiglio, da seduto però, che in piedi se va bene le arrivo all'ombelico.

Ho noleggiato il dvd di Zelig perché volevo capire meglio il motivo delle risate grasse di quel giorno, a Milano sud. Ora capisco di più, Zelig è un camaleonte, l’ho letto oggi in una recensione su internet. I camaleonti si mimetizzano, sono come la politica.

La scena di Zelig che più mi piace è quando Woody Allen parla con degli ebrei ultra ortodossi e così, mentre parla, gli cresce anche a lui il barbone lungo da rabbino. Si immedesima tanto nel ruolo che diventa come la audience che lo ascolta, un barbuto. Lui che è glabro più di Raffo.

Perché in vita mia mi rendo conto che sono sempre stato un voltagabbana professionista, un re del trasformismo inconsapevole, un maestro del doppio-triplo gioco. Talmente abile a mascherarmi che alla fine ho perso la mia identità e non la trovavo più. Era finita così lontano, là sotto, la mia identità che per trovarla ho dovuto fare degli scavi dentro di me che le trivellazioni petrolifere nel mare del Nord sono uno scherzetto per principianti del sottosuolo.

Ma andiamo con ordine, così posso raccontarvi la sindrome di Zelig e cosa significa per me aver finalmente capito cosa vuol dire e da dove viene questa strana cosa per cui ti continui a mascherare e cambi idea sempre e comunque a seconda della persona che ti sta di fronte. Perché non vuoi mai scontentare nessuno, allora fai sempre finta, per fargli piacere al tuo dirimpettaio. Come le pierre aziendali, che secondo me allo Iulm e alla Luiss e nelle altre scuole di marketing, anche alla Sda, dovrebbero fare sempre un corso monografico basato su Zelig. Basta che poi glielo dicono alle povere pierre, vittime di Zelighismo spinto senza saperlo, che è una finta. Zeligate in nome della vision e della mission. Ma non è questo di cui voglio parlare.

La prima maschera che mi sono messo in vita mia è stata quella del bravo bambino affidabile. E’ durata poco, anche perché i miei genitori non se ne accorgevano nemmeno che me la infilavo alla mattina. Però, mi è servita a scuola, dove almeno per un decennio, dalle elementari a tutto il ginnasio, questa maschera mi è servita parecchio a sfangarmela nell’età dai sei ai quindici anni. A volte me la metto ancora, ma adesso lo so che me la metto. Prima no, me lamettevo in automatico, senza saperlo.

Poi, è venuta la maschera del bel tenebroso, l’ho buttata sull’intellettuale per darmi un tono con le ragazze. Stavo sempre zitto, così pensavo di rendermi più interessante, anche perché la gente, soprattutto le ragazze (nella mia testa ovviamente, non so se è vero), di solito pensano che chi sta zitto è furbo e misterioso e affascinante. Chissà che cose geniali avrà da dire se uscisse dal suo riserbo, pensano le ragazze che sono regine di metafisica del bel tenebroso.

Così, la gente resta convinta che tu sei un genio, anche se non parli mai, anzi proprio perché non apri bocca. Le cose geniali te le mettono in bocca loro, ma alla lunga questa maschera stanca perché sotto sotto qualcosa da dire a volte ce l’avresti, ma sei talmente prigioniero del tuo personaggio e ti convinci che piaccia tanto agli altri il fatto che stai muto, che continui a tenerti questa maschera che quasi quasi ti si appiccica addosso talmente forte che poi per staccarla sono dolori. Peggio della ceretta a strappo o dell'epilady, me l'ha detto Julia Roberts.

Un’altra maschera, che mi sono tenuto addosso a sprazzi è quella del duro. Non è durata molto per fortuna, anche perché mi veniva male. E poi a botte sono un disastro. Poi, un'altra quella dell’impenetrabile. Mi ero talmente immedesimato nella parte, che oltre a non lasciare entrare nessuno dentro di me - nel senso che ero diventato più respingente di un guard rail in cemento armato - il problema di questa maschera era che formava una diga dentro anche verso l’esterno.

Così, non mi usciva niente da dentro, né di buono né di cattivo. Che in altre parole vuol dire che sei diventato così impenetrabile che nemmeno tu riesci a fare breccia dentro di te e non ti rendi conto di cosa stai provando e tirarlo fuori è davvero improponibile. Non sai mai se le cose che ti capitano sono buone o cattive. E' come se tutto ti scivolasse addosso. In effetti la tua scorza è diventata durissima e le cose come si suol dire ti scivolano sia da dentro sia da fuori. Sei blindato con quella maschera lì.

Da un lato, è una cosa positiva, perché sviluppi una profonda capacità di sopportazione al dolore (non te ne accorgi quando qualcosa ti fa male) però nello stesso tempo non riconosci nemmeno le cose buone. Insomma, questa maschera dell’impenetrabilità è un’arma a doppio taglio. Da una parte ti preserva dai colpi della vita, ma dall’altra non ti mette in contatto con le cose belle (non sei in grado di riconoscerle perché non le senti) e per paura di soffrire impedisci a te stesso di provare anche delle belle sensazioni.

L’effetto collaterale, quando ti togli questa maschera dell’impenetrabilità, è che sei completamente nudo di fronte a qualunque cosa ti possa capitare e in più non sei in grado di riconoscere le cose che ti fanno male da quelle che ti fanno bene perché non hai l’esperienza emotiva di nulla. Se ti impedisci di provare delle cose, buone o cattive che siano, allora il problema è che tutto ti sembra uguale, indistinto, indifferenziato. E’ come se uno avesse sempre mangiato tutto quello che gli mettevano davanti nel piatto senza l'uso delle papille gustative. Se a un certo punto riprendi a sentire i gusti, ecco che all’inizio non sei in grado di sentire la differenza fra una bella pasta all’amatriciana e un bel piatto di merda fumante. Il rischio è che ti intossichi un bel po’ di merda prima di capire che è velenosa. Ma stai sicuro che alla fine te ne accorgi, gli anticorpi non sono mica scemi.

Un’altra zeligata della mia vita è stata quella della maschera di Elvis. Solo, che quando me lo sognavo era sempre un Elvis vecchio, all’ospizio, che tra l’altro di sosia di Elvis è pieno il mondo. Penso che Elvis sia una delle maschere più imitate della storia, parlando di sindrome da Zelig. Tempo fa su Mtv ho visto un video di Robbin Williams che cantava una canzone fingendosi un sosia di Elvis e mi sembrava di essere tornato in uno dei miei sogni all’epoca in cui la mia dottoressa mi guardava e rideva in seduta. Elvis vecchio, con il naso camuso di un pugile suonato.

La mia parabola zeligante continua con una serie di personalità che ho adottato a sprazzi: il partner maschile di una coppia gay, ad esempio. A lungo mi sono vestito di nero, tutto attillato, sembravo il fratello minore di Freddy Mercury, senza baffi però. Non so perché lo facevo, anzi lo so ma non ne voglio parlare. Poi, mi sono travestito da Superman, ero giovane, adesso non lo rifarei. Salvare il mondo non fa per me, preferisco una bistecca al sangue da Sergio alle Grotte. Nemmeno i supe eroi fanno per me, sempre reperibili peggio del telefonino per salvare l'umanità. Poi, se sei Superman c’è sempre la kryptonite. Preferisco sapere come stanno le cose, anche se non sono sempre come le vorrei, piuttosto che farmi avvelenare dalla kryptonite, che in giro ce n'è tanta.

Mi ricordo una volta che ho sognato di essere Superman, volavo, poi uscivo dal fumetto e arrivavo davanti alla fermata della metropolitana di Lanza, a Milano. Era notte, tutto serrato con le grate e i lucchettoni. Cerco di aprire i cancelli, non ce la faccio e all’improvviso si apre una porticina, compare un nano, mi dice “Superman, devi entrare?”. Gli dico “sì”. Il nano mi fa “seguimi”, così entro da una botola. Se non era per il nano ero ancora lì, con i miei super poteri fasulli davanti alle grate e ai lucchettoni di Lanza.

Zelig, poveraccio, quello del film, è uno che non sa chi è e che per compiacere gli altri, a fin di bene, per farsi accettare dagli altri, si trasforma di volta in volta in quello che gli altri vorrebbero che lui fosse. Ma così facendo il povero Zelig si mostra di una fragilità colossale, come se per essere amati dagli altri fosse necessario cambiare se stessi, ma cambiare se stessi fisicamente. Io, di mio, lo facevo nei vestiti e nelle idee. Potevo cambiare il mio modo di pensare da un giorno all’altro come cambiavo le scarpe. Per dire, che un giorno ero di sinistra peggio di Caruso e il giorno dopo sembravo il figlio di Calderoli, poi diventavo nazista e il giorno dopo andavo a protestare davanti all'ambasciata americana.

Sinceramente, era un problema perché cambiavo idea un giorno sì e un giorno no e poi alla fine per compiacere gli altri era un gran casino, perché poi gettavo la maschera e la gente non mi riconosceva più. E nemmeno io mi riconoscevo, sarà per questo che passavo le ore davanti allo specchio per capire dov'ero. Poi non puoi piacere a tutti. Come quella volta che stavo con una di Gallarate, l’avevo conosciuta in gradinata, a vedere la Samp. Ci siamo visti qualche volta a Milano e sono andato da lei. Non sapevo che fosse la figlia unica di una famiglia ultra conservatrice, lei stessa si era travestita da ultras della Samp e faceva quella avanti, con la sciarpa e tutto il resto.

Quando le ho regalato il libro Afrodita, della Allende – un libro con ricette afrodisiache e molto piccanti – i suoi genitori mi guardavano male, non capivo perché, poi per l’imbarazzo ho rovesciato un bicchiere pieno di spumante sul tavolo di legno, macchiando la tovaglia buona e compromettendo per sempre il legno pregiato. I genitori guardavano senza dire niente. Non l’ho più rivista, tra l'altro il treno per Milano non arrivava mai lì alla stazione di Gallarate. Lì però non ero mascherato, le avevo semplicemente dato un bacio di buon compleanno, davanti ai genitori, ma non sapevo di trovarmi nel profondo nord più taliban dei taliban. Non mi stupisce che i satanisti vengano di là, con gente così cosa vuoi fare se non mascherarti da diavolo.

Poi, sempre a Milano mi ero travestito per lungo tempo da risorsa umana iper flessibile. Ma mi veniva male, facevo fatica. Anche quella maschera alla fine mi è passata dalla faccia, sinceramente non ci ho messo molto a buttarla via. Anche se a volte tutte queste maschere ti tornano in faccia senza che te ne accorgi. Te le trovi lì, sulla faccia, o almeno la gente le vede così, come le vuole vedere, e tu ci ricaschi perché pur di strappare un po’ di attenzione agli altri si fanno dei numeri fuori da acrobata se no non ti caga nessuno nemmeno di striscio. Come quelle volte che ti mascheri da uno che regge l’alcol, ma invece dopo due bicchieri ti viene sonno ma continui a bere per non fare la figura dello scemo.

O quando ti mascheri da tollerante, che fai finta che certe cose non ti danno fastidio, ma alla fine ti incazzi. Ho capito che è meglio incazzarsi e rimanerci male piuttosto che tenersi una maschera in faccia. Meglio non fare i fasulli che solo le pierre sono davvero capaci, è il loro lavoro loro e il marketing allo Iulm e alla Luiss e alla Sda, che la vision e la mission.

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24 luglio 2006

In piscina


Nel weekend siamo stati in piscina, quella vicino all’Olimpico, un po’ prima di piazzale Mancini. Sembrava di stare in vacanza. In questa piscina erano due anni che non ci andavo. Però, che sono passati due anni dall’ultima volta te ne accorgevi subito dalla pancia del bagnino. Due anni fa era un figurino, adesso è lievitato, c’ha una panza da competizione. Per il resto, quasi uguale in piscina.

A parte qualche piccolo cambiamento. Ad esempio, adesso c’è una doppia entrata, da una parte hanno inventato gli spogliatoi per gli uomini dall’altra quello per le donne. Una cosa inutile, anche perché poi ci siamo andati a cambiare fuori, negli spogliatoi all'aperto che sono unisex. E poi, gli ho dovuto lasciare la caparra di un euro per usare l’armadietto, giusto per non entrare in piscina con i caschi in mano.

La piscina vicino all’Olimpico non è pariola. Però, si vede che non è nemmeno una piscina come l’Argelati a Milano, dove il Marocco regna sovrano e se la gioca semmai con l’Ecuador quanto ad avventori. La piscina vicino all’Olimpico è semi-pariola. Ci siamo andati sabato tutto il giorno e ieri metà giornata, dopo le 14.00.

Costa 14 euro a cranio per la giornata, compreso il lettino. Ieri, che siamo arrivati di pomeriggio, abbiamo speso meno, 10 euro a cranio. Soltanto che all’inizio non c’erano lettini, era tutto completo. Poi, dopo poco si è liberato un lettino, una signora semi-pariolina ha fatto segno alla Giusy e così lei si è sdraiata e dopo poco c’era un lettino anche per me.

In questi due giorni mi sembrava di essere in vacanza perché non dovevo fare nessuno freelance nel weekend, allora mi sono dedicato alla lettura. Ho cominciato un libro che mi prende un sacco, l’ho quasi finito sotto al sole rovente dell’Olimpico sul Lungotevere, svaccato sui lettini blu della piscina. Si intitola “Confessioni di un sicario dell’economia”, di John Perkins, un analista economico delle grandi corporation americane che racconta di come il sistema lo abbia costretto a girare in lungo e in largo nel globo alla ricerca di paesi dove allargare le maglie dell’imperialismo americano. Paroloni per dire che andava in missione in diversi paesi mondiali produttori di petrolio, dall’Indonesia all’Ecuador, alla ricerca di persone dell’establishment da corrompere ecc. Poi si è pentito, intanto però per un po' ha fatto il giro del mondo agratis.

Questo libro, diversamente da quanto possa apparire a prima vista, non è una palla bestiale, è una specie di romanzo soltanto che tutto quello che si racconta è vero. Mi sono proprio impallato a leggerlo, così sopportavo anche meglio la Giusy che mi spalmava la protezione otto, personalmente odio la crema solare. Soltanto che lei mi unge come un pollo allo spiedo perché poi di sera non ha voglia di sentire le mie lamentele se per caso mi brucio, è successo già diverse volte quindi lei si è fatta previdente.

Fra una lettura e l’altra, in questo weekend sono successe delle cose molto interessanti. Prima cosa, ormai ci muoviamo con l’ammiraglia, il People nuovo 125, comprato usato in settimana, che è una vera figata, quando prendi le buche della strada quasi non le senti. All’inizio, mi spiaceva il fatto di rottamare il mio vecchio Free, adesso dopo qualche giorno che uso l’ammiraglia, un bel 125 color petrolio con il blocca disco che ci sta esattamente nel cassettino davanti, le remore di rottamazione mi sono passate.

Mi rendo conto che la mia parabola verso l’imborghesimento totale è più che avviata, quindi benvenga questo salto di qualità verso il 125. Considerato che me lo sono comprato a 34 anni, e che l’età minima per guidare un 125 è 16 anni, posso immaginare che fra due anni sarà la volta dell’acquisto di una bella macchina, che la puoi guidare a 18 anni. Allora avrò 36 anni e sarò certamente maturo per guidare una macchina e mi sarò finalmente ripreso dalla rottamazione della mia Polo blu, che tra l’altro non guidavo da tre anni, quando l’anno scorso mio fratello mi ha comunicato che la faceva rottamare a Milano. Un funerale senza fiori.

Tornando alla piscina, ieri e l’altro ieri ho ripreso confidenza con il mio corpo un po’ biancastro e leggermente appesantito da un anno di inattività fisica e mangiate mondiali. Però, niente di grave, un po’ di ciccetta non è male, stai meglio a galla in piscina dove non c’è mica l’acqua salata. C’erano i soliti culi in libertà, nel senso di fondoschiena femminili, ho ripreso confidenza anche con loro. Ho rivisto culoni, culotti, culetti, culacci, culi perfetti, chiappe sode e molle, smagliature, bucce d’arancio che mi viene sempre in mente un agrumeto quando sento questa espressione, cuscinetti, che mi viene sempre in mente il cuscinetto a sfera o l’airbag quando sento questa seconda espressione, di solito nelle pubblicità. Poi, ho ripreso confidenza con un elemento fetish che soltanto adesso mi rendo conto che agisce profondamente sul mio immaginario: i culi bassi.

I culi bassi lo so che canonicamente non sono belli da vedere. Però, tant’è, a me i culi bassi mi piacciono. So che sono il solito distorto, però a me le gambette corte non mi sono mai dispiaciute, anche perché sono volitive con quel passetto corto che accompagna in giro i culi bassi, che a loro volta rientrano a tutti gli effetti nelle macro-categorie dei culi. I culi bassi infatti rientrano nelle categorie summenzionate di culoni, culotti, culetti, culacci, culi perfetti, chiappe sode e molle, smagliature, bucce d’arancio che mi viene sempre in mente un agrumeto quando sento questa espressione, cuscinetti, che mi viene sempre in mente il cuscinetto a sfera o l’airbag quando sento questa seconda espressione, di solito nelle pubblicità.

C’era una bella culo basso gamba corta ieri e l’altro ieri e così guardandola sgambettare verso la piscina ho sentito che stavo riprendendo confidenza con le vacanze, con l’estate, con me stesso e mi sono potuto rimettere a leggere il mio libro di economia che sembra un romanzo in pace con me stesso. Culi bassi non spariranno mai, in piscina sono come il pecorino nei bucatini.

La gente di questa piscina vicino all’Olimpico è tutta educata, parlano piano per non disturbare, sono silenziosi e nessuna donna porta il tanga oppure tira le tette di fuori. Da un certo punto di vista mi fa piacere, così mi posso concentrare di più sulla lettura. Mi ricordo che in altre piscine non riuscivo mai a leggere più di tre pagine perché c’era qualche culo assolutamente fuori controllo, o qualche zinna in libertà, che non riesci proprio a concentrarti soprattutto se ci camminano in giro e gli ballano davanti, a bordo piscina a ventisei centimetri dalla tua faccia. Come se niente fosse e cosa sarà mai, ma forse è un problema mio, la gente fa l’indifferente perché ormai si fa così, si fa finta di niente di fronte al tu tun tu tun tu tun tu tun di un seno in libertà. Io per me non è così, se la carne ballonzola non riesco a leggere un libro sull'imperialismo americano, scusate, ma è così.

Per il resto, la riserva del mio nuovo People 125 dura un casino, anche se non si accende la spia arancione - non c'è la spia - e quindi bisogna stare molto attenti alla lancetta, come quando c’avevo la Polo che a volte rimanevo senza benzina a piedi perché il rischio mi attira in tutte le sue forme, anche quelle più stupide, come aspettare l'ultimo secondo prima di metterci 10.000 lire di benzina.

L’acqua della piscina è tiepida, le docce invece sono sempre ghiacciate, ormai mi sto imborghesendo perché mi ricordo che due anni fa ci andavo sotto senza battere ciglio, come quei marines che vedi nei film, e adesso invece mi sembro mia nonna, prima il piedino poi un po’ le spalle, ma poco, e poi chiudo del tutto il rubinetto.

Sabato le nostre vicine di lettino erano due milanesi bionde, in piedi culo basso tutte e due, però non mi piacevano perché erano fatte così: di sopra, magrissime, tutte palestrate, muscoli guizzanti ecc. Di sotto, un disastro di cellulite e culo basso però culo floscio, che puoi fare chilometri di palestra me se è basso basso resta e te lo tieni rasoterra. Insomma, ste due facevano il resoconto di quante spiagge conoscevano nel litorale laziale, toscano, ligure, pugliese ecc. Di quanti atolli caraibici avevano esplorato facendo snorkeling e vela e di quante spiagge raggiungibili soltanto via mare avevano visto in rada ecc. se si dice così.

Io cercavo di leggere, ma sentivo in sottofondo questo brusio costante e fastidioso e mi veniva da alzarmi e da dirgli, scusa ma perché non vai al mare invece di venire qua e continuare a dire che la piscina ti fa schifo e che domani mattina piuttosto che tornarci ti alzi alle sette anche se è domenica per prendere il treno e andare al mare? Non l’ho fatto perché la Giusy mi ha detto di non fare il polemico e poi sono troppo pigro per litigare con due milanesi bionde culo basso culo floscio in piscina di sabato col caldo che fa. Per fortuna domenica non sono tornate, alla fine lo dicevano che due giorni di seguito in piscina è improponibile, che palle. E meno male, vattene a Fregene e spero che ti venga lo scorbuto e le pustole nel culo floscio, fra una maglia e l'altra delle smagliature, che fa più male. Poi le bionde ossigenate mi danno fastidio alla vista, sarà la ricrescita nera, se ci aggiungi che sono culo floscio e mi rovinano il mito delle culo basso puoi capire che allora meglio non incrociarle nemmeno per sbaglio.

Poi, in piscina c’erano le ciccione proprio, poveracce, panzone e gambe giganti che sembrano dei tranci di vitella. Bianchissime. Però, quelle più che altro mi fanno pena, penso sempre a che sbattimento deve essere portarsi dietro tutto il tempo quel peso superfluo e come si devono sentire quando incrociano una con un bel culo sodo. Alla fine, ha ragione Pirandello, quello che conta è quello che ci sta dentro, non la presentazione, anche se ovviamente la presentazione può ingannare. Perché sotto a un bel culo magari si annida una stronza, anche se non puoi a priori pensare che ci sia una stronza, però in realtà le probabilità che una con un bel culo sia una stronza sono molto elevate, si vede che il culo sodo la fa sentire più fica, chissà perché.

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20 luglio 2006

Orgasmo culinario


Se per caso hai 4 euro e 20 centesimi e ti vuoi procurare un orgasmo culinario, allora fai quello che ti dico. Tutto quello che ti dico, dalla a alla zeta. Prima cosa, fai in modo di trovarti a Roma, verso pausa pranzo, diciamo fra mezzogiorno e le 3 e mezza di pomeriggio, in periodo estivo. L’epoca dei fichi è l’estate, quindi questo è un orgasmo culinario limitato nel tempo.

Allora, oggi a pausa pranzo verso le 13.45 ero indeciso sul da farsi, come spesso mi capita ultimamente. Non sono mai sicuro se rimanere fedele alla linea, mangiandomi un’insalata, oppure se concedermi una trasgressione culinaria, che mi spinge quasi sempre verso i carboidrati, sotto forme disparate e molteplici, contornate di ogni ben di dio: dalla mortazza alla provola, dal salame piccante ad altri tipi di insaccato più invernali come la lonza, che in realtà non so se è invernale, ma non importa adesso.

Adesso quello che conta è che ho capito cosa vuol dire l’espressione dialettale pizza e fichi, l’avevo sentita dire diverse volte in vita mia senza soffermarmi sul suo significato profondo. Adesso, invece, so cosa vuol dire “è finita a pizza e fichi”, vuol dire che è andata da dio.

Alle 13.45 sono uscito dal mio ufficio a Largo Argentina e il mio radar de panza mi ha spinto quasi inconsapevolmente sulla rotta dell’orgasmo culinario. Certo, quando l’orgasmo ti arriva così, inatteso, è come quando in età adolescenziale fai un bel sogno erotico con la tua compagna di classe preferita, la mia si chiamava Paola, un seno d’altri tempi, quando le donne erano bianche e quello che contava erano le forme, non come oggi che se abbracci una vai all’ospedale, magari ti è entrato l’osso dell’anca nella carne, oppure quando ci fai l’amore che hanno un osso che ti lascia il segno sopra il pube, ce l’hai presente, perché gli è spuntato questo osso aguzzo là sotto e si sfregano talmente tanto che sembra che vogliano fare l’energia elettrica, tipo una centrale idroelettrica. Ma torniamo ai fichi e alla pizza, questo gaudio delle mie papille gustative.

Arrivo a Largo Arenula, svolto in via dei Giubbonari, passo accanto alle vetrine di sempre, ai marocchini di sempre, agli sguardi incrociati delle solite commesse – vedo anche la cassiera insopportabile, quella che quando vado a comprarmi le sigarette lì sta sempre al cellulare, la sfigurerei di sputi in faccia quando mi restituisce indolente le monetine del resto e continua a sparare minchiate al telefonino e a guardarsi le unghie dell’altra mano, quella libera, con cui manovra la cassa e contemporaneamente prende le sigarette dagli scaffali – inconsapevole dell’ondata di piacere che mi avrebbe invaso di lì a poco.

Arrivo a Campo dei Fiori, vado dal solito fornaio, quello dal lato della Carbonara, verso Piazza Farnese ed è praticamente fatta. Entro, il caso mi aiuta, la panettiera sta tornando dal retro bottega con una pala di pizza bianca, prosciutto crudo e fichi. E’ un attimo, gliene chiedo una. Il peso specifico mi fa subito pensare a una tetta piena, una quinta direi. Una consistenza vera, non di silicone, di carne vera, per capirsi. Prendo una bottiglietta dal frigo, leggermente frizzante, e con la pizza bianca incartata, la Nepi e me stesso mi dirigo al solito posto, i sedili di marmo di Palazzo Farnese, all’ombra. Oggi, circa 38 gradi al sole.

Nel negozio, a pagare, c’era la panettiera quella grassottella, ci metteva un po’ a darmi il resto, 4 euro e 20 in totale. Perché mi fissava il Rolex, mi diceva che ce n’ha uno anche lei, ma un po’ più piccolo del mio. Le dico, ho capito quale dici, quello di grandezza intermedia, che non è come il mio, da uomo, né piccino, da donna. Le dico che è una misura che mi piace, è una mezza misura alla fine, una delle poche mezze misure che posso accettare, alla fine è un Rolex, d’acciaio, bellissimo, penso anche che al polso di lei, un po’ cicciotella, ci sta meglio un orologio un pochino più massiccio. Non glielo dico, però lei mi fa lo sconto lo stesso, quindi ci guadagno 20 centesimi perché mi restituisce una moneta da un euro tonda tonda.

Poi, addento. E qui comincia il mio trip. Un gusto inatteso, e dire che altre cose agrodolci in vita mia le avevo già mangiate, dal cinese per esempio, oppure a Gavi, fave e salame, che le faceva sempre anche mia mamma. Oppure, non ricordo bene, però ci siamo capiti. A ecco, anche carne di cervo e conserva di ribes.

Comunque, guardami: sono seduto lì, sul sedile di marmo di Piazza Farnese, completamente imbambolato da questo gusto dolce amaro in bocca, un contrasto che sembrava l’eclissi solare, seduto a gambe larghe, perché non mi cadesse qualche pezzo di fico sui pantaloni, impataccandomi come al solito, ma ormai sono diventato un professionista dell’anti-medaglione culinario.

Pizza e fichi, peso specifico una tetta della quinta, poi bagni il tutto con una bottiglietta della nepi. E dire che di fianco c’era il solito gruppetto di ragazze, una è anche arrivata con i suoi occhiali a specchio, stile Poncherello, dei Ray Ban anni ’70 che probabilmente lei non era nemmeno nata negli anni ’70, ciò non toglie che all’arrivo potesse apostrofare la sua amica, seduta di fianco a me che faceva oscillare tutto il tempo i sabot manco fossero il pendolo di Foucault meno male che stavo mangiando perché se no mi veniva lo sghiribizzo e glielo prendevo un sabot e lo lanciavo nella fontana, quella davanti alla chiesa delle Brigidine.

Poi, ho finito di mangiare. Una goduria d’altri tempi, non so perché mi immagino che in altri tempi, ai tempi delle pizze e fichi, si godesse di più. Ma per me è soltanto un’impressione. Al ritorno mi sono anche fermato al treeffe a farmi un caffè con la cremina.

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Il barbone di san Lorenzo


Il barbone si ferma all’uscio del pub. Non dice niente e dopo tre secondi il proprietario gli porta una lattina di Sprite e lui se ne va com’è arrivato, in silenzio. I pantaloni gli cadevano, si vedeva il culo per metà e non era il culo basso che va adesso. Erano i pantaloni che gli scendevano giù, aveva pure il culo abbronzato, ma forse era sporco.

Il barbone portava addosso una giacca pesante, chissà perché i barboni sono sempre così vestiti pesanti anche d’estate, può darsi che di notte faccia freddo a dormire fuori. Oppure il fatto è che i barboni si portano sempre tutto dietro, nei carrelli della spesa, come se la loro casa fosse una specie di roulotte senza motore e ci stesse dentro nel carrello del Sir.

Il barbone di san Lorenzo ha la barba lunghissima e ispida, porta i capelli lunghi, castano scuro, sembrano dreadlock ma non sono dreadlock, sono i capelli lerci di un barbone. Il barbone di san Lorenzo non ha aperto bocca davanti al pub dove tutte le sere andrà a prendersi una lattina di Sprite. Erano più o meno le undici di sera quando è arrivato, il proprietario del pub gli ha dato la lattina, l’avrà presa dal frigo, faceva caldo. Chissà se tutte le sere si prende una Sprite oppure se gli piacciono anche la Coca e la Fanta.

Ieri sera mentre mi mangiavo il mio hamburger con le cipolle al pub saranno passati dieci srilankesi che mi volevano vendere delle collanine e un attrezzo per farmi i massaggi sulla schiena, sai quegli aggeggi con le palline di legno, sembrano dei piccoli ragni di legno che se te li passi sulla spina dorsale ti massaggiano le vertebre e vibrano pure, vanno a pile. Non l’ho comprato, il massaggiatore della schiena e nemmeno le collane e le altre cose. A san Lorenzo gli ambulanti sono insistenti, anche quando gli dici di no ti srotolano le mercanzie sul tavolo e non se ne vanno mai.

Io mangiavo. Ieri sera al pub di san Lorenzo le ragazze erano tutte alte un metro e settantotto almeno. Magari era una squadra di basket o di pallavolo, ma non penso perché erano tutte in tavoli diversi. Alcune erano tutte curate e levigate, con i sabot e cose. Altre no, erano scasciate, solo che erano alte almeno come quelle curate, lavate e stirate e depilate.

A un certo punto mi è venuto in mente che magari mi mandavano via dal pub perché non ero alto abbastanza e perché non ero una donna alta. Poi ho continuato a mangiarmi le mie patatine fritte, bevevo tanto la birra ma anche l’acqua minerale, a Roma quando gli chiedi l’acqua frizzante te la portano sempre leggermente frizzante, si vede che quella davvero frizzante non vende.

Io nelle patatine fritte ci metto sempre la maionese perché il ketchup non mi piace più, da piccolo me lo mangiavo direttamente dalla confezione, mi piaceva tantissimo, poi ho fatto indigestione, mi è successa la stessa cosa con il Bailyes, la crema di whisky, a 15 anni me ne sono bevuto talmente tanto che ormai il Bailyes se lo sento da lontano, basta l’odore, mi viene il voltastomaco.

Per fortuna che il Bailyes non mi ha compromesso il gusto per il whisky quello vero, che invece mi piace molto, insieme alla vodka è il mio superalcolico preferito, anche se quello della pubblicità Michele, quello del doppio malto, se per caso lo vedo insieme a quello che vola sull’aliante che ha riparato Michele, quello dell’amaro Montenegro, lo gambizzo. Per me da gambizzare ci sarebbe anche quello che ha inventato cosa vuoi dalla vita, un Lucano. E’ un bastardo, di sicuro picchia i suoi figli di sera e poi magari di nascosto apre il freezer e si beve un Limoncè, chi c'è c'è e chi non c'è non c'è. Belin ma come stai.

Ieri sera mentre mangiavo le patatine fritte, dopo che ho finito l’hamburger con le cipolle (crude e binache a pezzettini), ascoltavo quelli del tavolo di fianco. Uno diceva di un viaggio a Bolzano in macchina che non gli passava più e poi parlava del Ministry of Sound, una discoteca di Londra, che all’uscita lui e un suo amico hanno aspettato quaranta minuti il taxi, faceva freddo, e una macchina continuava a girargli intorno era piena di froci che cercavano di adescarli ma loro duri hanno aspettato il taxi anche se poi a casa lui aveva i geloni nelle dita dei piedi.

Ieri ho letto sul giornale che se dai del frocio a qualcuno questo ti può denunciare. Per me è come se quando dai della mignotta a una che è una mignotta allora questa ti può denunciare. Ma scusa, se uno è stronzo e gli dai dello stronzo, ma anche se stronzo non lo è, non è mica che vai dal giudice e lo denunci. Non capisco certe volte, si vede che se uno è frocio allora se lo devi chiamare lo chiami gay e non frocio, che suona male. Ma è la stessa cosa, anche se in effetti frocio magari è offensivo, solo che detto fra noi sarei molto più contento che dessero le multe a chi blocca il traffico in via Cavour in terza fila alle otto di mattina piuttosto che raccogliere denunce di un gay che va al comando di polizia e denuncia un altro perché l’ha chiamato frocio o di una mignotta o simil mignotta che denuncia uno che la chiama mignotta. Il re è nudo.

Ieri sera prima di addormentarmi ho immaginato di essere paracadutato all’improvviso in Bielorussia nella campagna interna della Bielorussia senza dizionario e di dover togliermi dal casino con le mie mani, poi ho deciso di cambiare immagine così mi addormentavo più facilmente e allora ho pensato alla mia cameriera preferita, quella della vineria di Campo dei Fiori, che adesso è incinta. Sta bene incinta, molto, all’inizio, la prima volta, l’ho vista prima di culo, ce l’aveva più largo del solito, ero tutto contento perché le culo secco non mi piacciono, poi ho capito che era incinta quando si è voltata, le si sono gonfiate già le tette e la pancia. Sta bene, tutta yeah ma incinta, di culo le si è pure espanso il tatuaggio sui lombi, la pelle grassa tira e dilata la superficie del tatuaggio. Le dona l’incintaggine o incinteria o incintume alla mia cameriera preferita di Campo dei Fiori.

Le donne incinte, ce n’è due categorie. La prima, quelle che se ne fottono e non nascondono il loro status di donne pregne. La seconda, quelle che si nascondono e che non gli piace che si veda. Ma perché si nascondono? E poi, perché continuano a lavorare se sono incinte? Io se fossi incinta me ne starei senza lavorare, belin hai nove mesi di scusa ufficiale, mettiti a casa e fatti venire tutte le voglie della storia.

Io se fossi incinta mi farei portare acciughe al limone tutti i giorni, bigné allo zabaione della pasticceria svizzera di via Albaro, vongole, cozze, torta ai mirtilli con panna, mi berrei sette birre a pranzo, Moretti da 66 cl, mi calerei pansoti al sugo di noci, trofie al pesto, dixi tutto il giorno (Fonzie no), fragole, torta di pere con cioccolato, panini all’olio di Baravalle a Nervi con prosciutto crudo oppure a scelta cotto, focaccia con la cipolla a colazione, con latte e Ovomaltina, mi terrei una brocca di screw driver a portata di mano e delle mega confezioni di Ferrero Rocher e Mon Cheri e affitterei un pizzaiolo per nove mesi sotto casa che mi fa il calzone alla boscaiola quando voglio, anche alle tre di pomeriggio, non è mica che se ti vuoi prendere un cappuccio alle due e mezza di notte ti possono dire di no, se sei incinta.

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15 luglio 2006

Code in A10


E’ sabato mattina, sono le 10.37, mi sono spostato il pc in cucina, così scrivo più tranquillo. La Pina sta dormendo, di là. Mi sono acceso la radio, ho appena fatto i piatti. Sono sveglio da due ore, più o meno. Mi sono bevuto la mia caffettiera di caffè, da due. Sto ascoltando le condizioni del traffico, dalla sala operativa di Genova, le condizioni del traffico, code in A10.

C’è traffico in Liguria, vanno tutti al mare. Però è scorrevole, niente incidenti, meglio così. All’uscita di Lavagna c’era una che voleva uscire dalla macchina, è scesa, ma la macchina continuava ad andare, perché le è rimasta una scarpa incastrata nell’acceleratore. La radiocronista diceva speriamo che questa Cenerentola trovi il Principe Azzurro.

Ci andavo sempre al mare a luglio, ma anche a giugno, con mio papà, sulla A 10, andavamo quasi sempre a Moneglia. La cosa bella erano le gallerie, da Riva Trigoso e Moneglia. C’era un semaforo che durava venti minuti, poi quando scattava il verde entravi nelle gallerie, duravano un sacco di chilometri e quando arrivavi a Moneglia quasi non ci credevi, perché dentro le gallerie sembrava di uscire dall’estate, fa un freddo pazzesco dentro nelle gallerie di Moneglia. Però poi esci e vai a farti un bagno. A Moneglia c’è la sabbia, di solito quando andavo al mare in settimana, c’erano sempre gli scogli perché in motorino da Genova arrivi al massimo i posti dove la sabbia non c’è. Come a Nervi, Bogliasco, Pontetto, Pieve, Sori. Poi a Sori vicino alla piscina della pallanuoto c’è il panettiere con la focaccia col formaggio più buona dell’Italia.

Mentre lavavo i piatti ascoltavo la radio. A un certo punto hanno mandato una canzone di Mario Venuti. Diceva che sempre è una parola che fa luce, che a un certo punto gli sembrava di vederci chiaro, nelle trame della vita, ma che è un attimo e poi torna tutto come sempre, confuso. Un attimo e che la parola sempre fa luce. Fa luce sì la parola sempre, è una parola che se ci pensi non esiste, perché chi mai l’ha provato il sempre. E’ impossibile provarlo il sempre. Nulla è per sempre, lo sanno tutti, però per me la parola sempre serve. Serve perché quando uno fa le cose non vuole pensare che finiranno, prima o poi, anche se già lo sa che prima o poi finiranno. Però, se uno non pensasse che potrebbero continuare per sempre allora non le inizierebbe nemmeno, le cose. Che cosa le inizierebbe a fare, le cose, se stesse lì tutto il tempo a pensare che intanto prima o poi finiranno. La penso così, sempre è una parola che fa luce, ci vedi chiaro ogni tanto, a sprazzi, poi torni nella tua confusione, però così, pensare che le cose possono continua re per sempre serve. Almeno ci provi, se no non ci provi nemmeno.

Prima alla radio hanno mandato una bellissima canzone in brasiliano. Mentre lavavo i piatti mi sono messo a ridere, perché sembrava genovese. Era la voce calda di una donna, una brasiliana, che cantava e mi immaginavo che al microfono ci fosse la panettiera di Sori, dove ci andavo in bici, con la mia Sedazzari rossa, che quando arrivavo lì, da Genova, mi ero fatto un bel pezzo di Aurelia, era maggio, mi fermavo, mi prendevo una bella slerfa di focaccia col formaggio e a volte mi guardavo l’allenamento del Sori, la panetteria è di fronte alla piscina del Sori. Poi, mi bevevo l’acqua della fontana e mi fumavo tre Fortuna, me le infilavo sempre ei pantaloncini da ciclista,. Attillati, neri, con la gomma piuma nel culo perché se non col sellino della Sedazzari mi venivano i calli sotto le palle. Era bello, solo che poi il ritorno a casa era sempre un mazzo così, però mi piaceva, pedalare sull’Aurelia.

La mia Sedazzari rossa l’avevo pagata 500.000 lire, con i soldi delle ripetizioni di latino. La bici da corsa è molto più bella della mountain bike perché in discesa vai molto più forte. A me mi piaceva andare in discesa, quando salivo su a Bavari, facevo il giro da dietro, magari pioveva, solo che si scivolava quindi in discesa dovevi andare senza frenare se no cadi. Poi, scendevo giù da dietro, da Staglieno, a volte. Era bello anche il giro su dal Righi, passando dalla Polveriera e dal parco del Peralto, che poi in discesa passavi dai palazzoni su, fino a giù dal Lagaccio.

Ieri sera ci siamo visti un film da deca e lode. Si chiama La guerra di Mario, parla di un bambino di Ponticelli, quartiere periferico di Napoli, che viene dato in affidamento ad una coppia borghese. La protagonista del film è la Golino, che di solito è irritante perché ha una voce strana, roca, ma ieri no. Il film parla della maternità. Della voglia di maternità della donna, che non ha voluto fare un figlio suo anche se poteva e allora si butta nell’affidamento. E’ un disastro, perché madre e figlio non si incontrano mai, vengono da due pianeti assolutamente diversi, però è un film davvero toccante, perché questo bambino mi ricorda me da piccolo, la sua guerra personale è tutta nella sua testa, contro tutti. Poi, trova un cagnolino, un jack russel, che alla fine muore sotto una macchina perché questo bambino a un certo punto attraversa a Napoli col rosso, rischia la vita, apposta, la sfanga, ma il cane lo segue e ci rimane.

L’uomo della Golino in questo film è completamente inadeguato alla paternità. Si trova con questo bambino nella casa della sua partner ma è assolutamente incapace di instaurare un rapporto amoroso con lui. Alla fine, anzi all’inizio, si trasferisce di nuovo a casa dei suoi genitori. Quarant’anni e non sentirli.

Il film è diretto dal regista Antonio Capuano, guardando i contenuti del dvd abbiamo visto che il produttore è lo stesso delle Conseguenze dell’amore, per questo il film mi è piaciuto così tanto, perché non è il solito film della Medusa. Mi piace sapere che in Italia ci sono questi film indipendenti, fuori circuito.

Ci sono le news alla radio adesso, stanno parlando dello sciopero dei tassisti, ieri passavo da Piazza Venezia, c’era il blocco, uno dei tassisti stava scrivendo con l’uniposca uno dei cartelli di protesta contro Bersani e Bertinotti, poi andavano a protestare a Circo Massimo.

Stavo andando a riprendermi il motorino, si era fermato, arrivo dal meccanico, gli chiedo quanto ti devo, mi dice niente. Come niente, gli dico. Mi fa ciao ciao con la mano, sai con il pugno che si apre e si chiude, come a volermi dire non rompere, smamma, se dico niente è niente. Il mio meccanico è u uomo alto un metro e sessantasette, capelli grigi, unti, con la riga, barba ispidissima, magrissimo quasi affilato, assomiglia a uno di quei cattivi dei western con Clint Eastwood, i western all’italiana di Sergio Leone, ha tutti i denti rotti, quelli sotto. Ma orami sono un suo cliente e non mi ha fatto pagare niente. Mi ha detto che ha dovuto soltanto cambiare un pezzettino, colpa della pipetta. Gli ho detto buona domenica, mi ha fatto ciao ciao con la mano.

C’è coda a partire da Masone sulla A26 in direzione Genova. Sono le 11.07. La Pina continua a dormire. Ma dove sta Usmate di Velate? Mi hanno detto che ci vive la mia ex fidanzata storica, con la sua famiglia, la Simo.

Non ho mai deciso se preferisco le spiagge con la sabbia oppure con gli scogli. La spiaggia di entra nelle orecchie e te la trovi nelle mutande, anche quando ti cambi e ti fai la doccia, poi i granelli entrano nel telefonino e ti si infilano negli interstizi degli occhiali. Mi sa che preferisco gli scogli, anche se da quando me ne sono andato da Genova vado sempre nelle spiagge con la sabbia. Che poi ti sdrai direttamente nella sabbia, davanti e dietro, come un’impanata, ti ci rotoli dentro, magari ti ci sotterri, che la cosa più bella quando c’hai la sabbia dappertutto dopo è buttarti in acqua e sentire la panatura che se ne va, magari dopo che ti aveva un po’ raschiato le guance, basta che tieni la bocca ben chiusa se non ti entra la sabbia in bocca e fa schifo.

Ieri a pausa pranzo mi sono seduto con il mio tocco di pizza bianca e mortazza a Palazzo Farnese, in mezzo ai turisti americani, all’ombra. C’era la pazza di Piazza Farnese che continuava a urlare “troia…..puttana….troia….puttana….” per venti minuti, rivolta a duna finestra della piazza. Pi se n’è andata, chissà come stava con quel poncho di lana multicolor sotto al sole ci saranno stati 38 gradi, meno male che almeno aveva le infradito. D’inverno la vedo ogni tanto che sta sdraiata sui cartoni a dormire. E’ sempre pulitissima, chissà dove si lava e dove fa la pipì.

Le previsioni del tempo sono buone, c’è un po’ di qualche rovescio temporalesco in Piemonte. Ma chi se ne frega.

Code a tratti sulla Roma Valmontone per un incidente, direzione sud.

A me le trasmissioni televisive che mi piacciono di più sono Sfide, su Rai Tre, Un Posto al Sole, su Rai Tre, Le invasioni barbariche, su La7. Ieri sera hanno fatto vedere la replica della Bignardi con la Litizzetto, simpaticissima, la Litizzetto, fichissima. Diceva che a 13 anni per farsi notare alle feste doveva mettersi i petardi nelle tasche, perché non era un tronco di figa. Diceva che ogni anno, a Babbo Natale, gli manda una lettera chiedendo di diventare più figa. Diceva che ovviamente essendo un cesso ha dovuto sviluppare altre armi per farsi notare e che essere figa di certo aiuta nella vita. Come darle torto. Ovvio.

Sfide su Rai Tre è come vedere un romanzo di qualche sportivo con tutte le immagini in bianco e nero. Di solito poi fanno vedere personaggi secondari dello star system (eh, che parolone, non te lo aspettavi, ti sto strizzando l’occhio fans) come ad esempio Capirossi, che ha sempre vissuto all’ombra di Valentino Rossi, o giocatori di calcio periferici. Che mi sa che il mondo alla fne se guardi bene è una grossa periferia, allargata, e che il centro davvero, chissà se esiste veramente. Come direbbe Mario Venuti, quel gran paraculo catanese un mito di cantante, davvero, l’abbiamo visto una volta in concerto all’Olimpico, con Carmen Consoli, c’era anche Maria Grazia.

Mi sa che lunedì mi compro un Kimco 125, ormai non si può più andare in due in motorino se non hai la targa nuova e il mio Free cade a pezzi, non l’ho revisionato. C’è tutta la plastica del sellino che si sta sgretolando, c’è il giallo opacizzato della gomma piuma che spunta da tutte le parti e i tocchi di plastica che si staccano. Però funziona ancora alla grande, romba al semaforo, non so se me la sento di rottamarlo. Gli voglio bene al mio Free, lo so che sono sentimentale, ma l’importante, lo dice sempre Chrisitan, sentimento senza sentimentalismo.

C’è una canzone di Tina Turner in radio, te la ricordi quando stava là, sul palco che sembrava un cavallo che scalpita? Però, detto fra noi, nella mia ignoranza di musica, preferisco Macy Gray. Le sue cassette me le hanno fatte tutte saltare, una volta che mi hanno aperto la Polo, ci sono rimasto male. Magari oggi me ne vado da Feltrinelli e vedo se trovo un best off di Macy Gray. Anche i Velvet mi piacevano, me li ascoltavo sempre sull’autobus da Lambrate al lavoro, nel walkman, era il ‘98.

Sono le 11.27, adesso mi faccio la barba e la doccia e mi vado a comprare il giornale e la Settimana Enigmistica poi mi scrivo i miei freelance. Poi, domani, magari ce ne andiamo in piscina. Chissà quanto costa quest’anno, mi sa che andiamo sui 15 euro. Mi sa che ricomincio a giocarmi la schedina tutte le settimane. Ma l’Inter ha vinto lo scudetto? Mi sa di sì, mi sa che l’Inter ha vinto lo scudetto.

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14 luglio 2006

Mortazza


Ieri sera siamo andati a vedere Syriana, un film complicatissimo con George Clooney più grasso di venti chili, con la barba lunga e tutto il resto, ma era figo lo stesso. Ma non è questo che conta. Quello che conta è che questo film è fatto strano. Ci sono tantissime storie parallele, che si svolgono contemporaneamente pur ruotando intorno agli stessi fatti, analizzati da diversi punti di vista.

Un po’ come nella realtà, dove i fatti si verificano in modo concentrico. Voglio dire che i fatti sono il risultato di moltissime componenti fra loro sconnesse, che in un determinato momento si concentrano e danno vita ad un avvenimento. Ad esempio, il fatto che io oggi mi sia mangiato un bel tocco di pizza bianca e mortadella, seduto davanti a Palazzo Farnese, è il risultato di molti fattori fra loro apparentemente sconnessi, ma uniti in un quadro sistemico che a prima vista non si vede. Non è che io sono il protagonista assoluto della mia scelta. Anche se di solito penso di esserlo, nelle cose che mi capitano. Ma non è così. Allo stesso modo nel film Syriana non c'è soltanto un protagonista, ma ci sono diverse storie. E' la storia che conta in questo film e non gli attori.

Prima cosa, non avevo voglia di insalata, la mangio sempre in questi giorni l’insalata, ma oggi non ne avevo voglia. Quindi ho deciso di cambiare menù. Di conseguenza, l’idea di mangiare la pizza bianca con la mortazza nasce dall’esclusione di almeno altre due concrete possibilità: mangiare l’insalata al bar Valle o a quello in via del Biscione, dove vado sempre negli ultimi tempi. Poi, il fatto che già ieri sera mi sentivo un vuoto di carboidrati nello stomaco, mi sentivo a rota di carboidrati, è proprio vero che se non mangio un bel piatto di pasta tutti i giorni poi vado in crisi di carboidrati e devo assolutamente mangiarmi della pizza, della mortadella delle cose così, panini dico.

Ma togliendomi dal mio punto di vista, posso anche dire che è stata la pizza bianca a muoversi verso il mio stomaco oggi a pranzo. Dribblando sul filo di lana la mia voglia di mangiarmi un bel Big Mac, ma francamente faceva un po’ troppo caldo per il Mac Donald’s. Il fatto che ieri sera mi fossi spazzato via una confezione da sei di bastoncini Findus non rientra nei fatti che hanno determinato la mia scelta odierna di optare per pizza bianca e mortazza.

Qualcuno stanotte avrà impastato quel pezzo di pizza bianca che mi ritrovo adesso nello stomaco, qualcun altro l’avrà tagliato, quel pezzo di pizza bianca, mettendoci in mezzo le fettazze di mortazza, preparando così quello che potenzialmente è il mio pranzo quotidiano di pizza bianca con la mortazza, che però soltanto oggi ho mangiato. Ma questo non vuol dire che anche ieri non ci fosse, questo pezzo di pizza bianca (ovviamente non lo stesso, ma uno del tutto simile) lì, al bancone del panettiere di Campo dei Fiori dove me lo sono comprato oggi.

Mi spiego? Spero di sì. Mi sembra una cosa importante, perché in questa mia mangiata a pranzo, sono coinvolte tantissime persone, ognuna con il suo mondo, le sue sensazioni ecc. che hanno contribuito a saziarmi oggi, di carboidrati. Ovviamente mi sarei potuto mangiare anche oggi una bella insalata, faceva anche più caldo di ieri, però avevo voglia di cambiare e tutte queste persone (dal fornaio al panettiere alla proprietaria della panetteria di campo dei Fiori) hanno fatto la loro particina perché io mi potessi godere il mio pranzo seduto a Piazza Farnese, sui sedili di marmo dell’ambasciata. Insomma, Syriana era tutto così: solo molto più complicato, non cerco nemmeno di sintetizzarlo perché va al di là delle mie facoltà mentali ora come ora.

Oggi a Piazza Farnese mentre mi mangiavo la pizza bianca seduto fra i turisti americani c’era la pazza di Piazza Farnese, quella con i capelli corti brizzolati, che urlava a squarciagola contro una finestra di un palazzo: “troia…puttana…..troia…..puttana…..”. Per venti minuti l’ha fatto. Poi, si è alzata, indossava un poncho colorato di lana, non so come faceva a resistere perché sembrava davvero invernale, e se n’è andata nelle sue infradito gialle. Si grattava i capelli, dietro, compulsivamente, come qualcuno che sta pensando a qualcosa e vuole scacciare il pensiero con le mani. Poi, a sprazzi, urlava ancora “troia…..puttana….troia….puttana….”.

Poi, mi sono bevuto la mia bottiglietta di Nepi leggermente frizzante, ho buttato la carta del panino, sono tornato verso il lavoro. A Campo dei Fiori c’erano i soliti pacchi di turisti con la cartina, una mi ha fermato, sembrava normale, voleva dei soldi per un caffè. Sono andato al bar, il tre effe, mi sono fatto un caffè, mi sono fumato le mie sigarette, ho incrociato lo sguardo con qualche donna, le solite con cui ti incroci lo sguardo, poi me ne sono tornato al lavoro.

Sono due giorni che lavoro poco, nel senso che raccolgo interviste e materiale però non scrivo articoli perché non hanno ancora deciso il timone. A me quando non scrivo articoli mi sembra che non sto lavorando, anche se parlare con chi ti farà scrivere, cioè le fonti degli articoli, lo so benissimo che è lavoro anche quello.

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13 luglio 2006

Greca


La donna con le lentiggini parla al cellulare e si lamenta con l’amica. “Due settimane di ferie, sono appena tornata, ma sono bianca come un cencio, sembra che sono stata in vacanza a Milano”. Poi, riattacca chiama un’altra amica e dice la stessa frase. Intanto il sudore le cola sulla schiena, “sono tre giorni che mi addormento alle tre e mezza, sono stanca morta, stasera vado a letto alle dieci e mezza”.

Niente Fiesta per la donna con le lentiggini, questa sera si dorme con il ventilatore al massimo, o almeno si cerca di dormire. Che quando fa così caldo l’ora migliore sono le cinque e mezza di mattina, fa un po’ più fresco, comincia a rischiarare e allora ti alzi, ti bevi un bicchier d’acqua giù in cucina e quando torni a letto se ti va bene dormi un paio d’ore di filato.

Oggi mi sono fatto la greca, però metà della feta l’ho lasciata. Faceva troppo caldo, là fuori, non avevo fame. Ascoltavo la donna con le lentiggini, seduta al tavolino di fianco a me, e guardavo quello spicchio di strada fra Sant’Andrea della Valle e la via lì, quella che passa di fianco al Senato. A un certo punto, arriva una vespa, in contromano, e la vedo che inchioda. Stava per fare un frontale con un Mercedes nero, di quelli auto blu, anche se era nero era un’auto blu.

Oggi ho preso il taxi, aspettavo Bari 43 ma alla fine ho preso Modena 21, perché Bari 43 tre minuti non arrivava e dopo 25 minuti mi sono guardato nelle palle degli occhi di Modena 21 e abbiamo deciso che mi portava lui al centro. Eravamo lontanissimi, oltre il raccordo anulare, ho speso una fortuna, ma sta volta non potevo andarci in motorino, che l’altra volta ci ero andato in motorino e mi ero perso sulla Collatina, ero finito in un bosco, ma un bosco vero, alla fine della Prenestina. Che per arrivare dove dovevo arrivare sono finito in un cantiere aperto, oltre il raccordo anulare, in mezzo alle ruspe, fra le buche.

Stavolta il motorino anche volendo non lo potevo prendere perché mi si è fermato, la pipetta della candela non sta più attaccata, ogni volta che prendo una buca si stacca. Ieri sera per riportarlo a casa ho staccato la mascherina della candela, andavo in giro senza mascherina, e ogni volta che prendevo una buca si spegneva il motorino. Così, mi fermavo in mezzo alla corsia e rimettevo a posto la pipetta.

Ieri mi hanno detto che mi devo sfinire di meno, che devo essere più tranquillo e accettare di più i verdetti e le cose come vengono. A me non so perché mi viene male di accettare le cose come vengono e di non capire perché vengono come vengono, perché penso sempre di avere un ruolo nelle cose che mi capitano. Ma probabilmente il mio ruolo è molto minore di quello che penso, nelle cose che mi capitano. Però non sono così sicuro di quello che sto scrivendo.

Ieri sera a Un Posto al sole hanno fatto vedere Diego che si baciava con Carmen, che dopo dieci secondi si staccava e diceva “ma cosa stiamo facendo”. Diego allora ha detto “scusa, sono stato troppo impulsivo”. E poi se n’è andato. Il giorno dopo si sono incontrati nel cortile, andavano al matrimonio di Raffaele (Diego è il figlio di Raffaele, il portiere di Un posto al sole), Diego ha cercato di parlare del bacio del giorno prima, ma Carmen ha saltato l’argomento, dicendo che è stata una fesseria, Diego rosicava ma non diceva niente, poi in chiesa si guardavano, ma Carmen si aggrappava al suo ragazzo Filippo.

Oggi, oltre al grande raccordo anulare, sono andato ad un convegno. Di fianco a me c’era seduta una bella donna, molto alta e formosa, con le gambe scoperte. Aveva tutte le gambe coperte di cicatrici, sembrava che l’avesse morsicata un banco di meduse. La cosa che mi piaceva di più era che questa donna molto bella se ne fotteva, di queste cicatrici. Oggi faceva molto caldo e mi sembrava giusto che le donne, potendolo fare, si mettessero delle gonne corte. Anche se ultimamente mi sembra di essere diventato un taliban con le donne, che le vorrei tutte in burqa, anche se probabilmente non funziona così.

Il taxista di oggi, Modena 21, aveva la panzetta. A via Nazionale mi ha cominciato a parlare del suo lavoro. Dice che lavora da quando ha 14 anni e ora ne ha 40. Porta i capelli corti, neri, ha la barba nera, un po’ rada, lunga, che non gli copre tutto il viso. Sembra più giovane della sua età. A un certo punto mi diceva che lui ha le mani rovinate perché lavorava ai mercati generale, a scaricare cassette, e che da un anno fa il tassinaro. Diceva che ha un milione e seicentomila chilometri sulle spalle, tutti a Roma e dintorni, perché dopo i mercati generali ha lavorato come camionista. Sputava un po’ di veleno addosso a Bari 43, quello che dovevo prendere io che mi aveva dato un’attesa di tre minuti e dopo 25 non era ancora arrivato. Diceva che nella sua categoria ci sono sempre dei furbetti, come dappertutto. Poi, mi ha lasciato a Largo Argentina e sono uscito dalla macchina, c’era un caldo che si bolliva nell’asfalto di questi giorni.

Il Sole 24 Ore ha cambiato grafica, hanno tolto il commento sulla giornata di borsa che c’era sempre in prima pagina. Preferivo prima, anche se adesso la linea è più snella. Non ho mai letto una biografia in vita mia, voglio provare, magari mi leggo quella di Giulio Cesare.

La donna con le lentiggini aveva capelli rosso cenere, era bianca sul serio considerato che era stata in ferie, poi lo diceva pure lei, in questi giorni non si riesce a dormire. Fa troppo caldo per dormire. Il ventilatore non serve.

Ieri sera abbiamo visto un telefilm del commissario Poirot in tivù, era molto bello, così alla fine mi è venuta voglia di leggermi un libro di Simenon, l’ho iniziato ieri sera. Per me Simenon è una sicurezza, i suoi romanzi mi riconciliano con il mio cervello, perché Simenon è molto intelligente e si inventava dei romanzi noir favolosi, con un sacco di retroscena e di colpi a sorpresa. Dice un mio amico che ogni volta che Simenon finiva un romanzo, ne ha scritti a migliaia in vita sua, usciva e si ubriacava e gli pagavano una prostituta che faceva finta di avvicinarlo per strada dicendogli “è lei il famoso romanziere Simenon?”. Lui rispondeva sì, e poi stavano insieme. Lo credo che si vantava che era stato con migliaia di donne in vita sua, con tutti i romanzi che ha scritto se ripeteva ogni volta lo stesso rituale è ovvio.

Dice che Simenon quando scriveva un romanzo si tappava in casa, con la macchina da scrivere, a bere e fumare e che non usciva di casa finché non aveva finito. Poi, alla fine, usciva e si riviveva questa scena, sempre uguale, di lui che va in un posto e una prostituta che gli si avvicina e lo riconosce e lui si sente un grande romanziere. Però era un metodo che funzionava, se pensi a quanti romanzi ha scritto Simenon, funzionava eccome. Dice che ogni volta che finiva un romanzo Simenon era un po’ fuori di testa, lo credo con le cose che scriveva doveva essere bello fuori per scriverle. Pare che si sfogasse andando a bere e stando con migliaia di donne, sempre diverse, mignotte che fingevano di riconoscerlo, organizzate dai suoi editori. Magari mi leggo quella di Simenon, di biografia, Cesare alla fine non mi sta molto simpatico.

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10 luglio 2006

Effetto Grosso


Ieri sera siamo usciti da casa di Carlo, lì di fianco a San Giovanni, e mi sentivo campione del mondo che belin, è una bella sensazione, è come se una te l’avesse data dopo che te la sei provata per 20 anni. Insomma, le campane di san Giovanni avevano già suonato a festa, Zidane era a frignare negli spogliatoi, Del Piero stava accarezzando il suo cazzo di uccellino nella gabbietta, Ringhio era il miglior amico dell’uomo e noi stavamo uscendo di casa.

Ribery si stava guardando allo specchio pensando che forse è arrivato il momento di farsi una plastica facciale, la Seredova preparava il letto per il ritorno a casa di Buffon, mio fratello mi aveva appena chiamato al cellulare dicendo che avevamo giocato di merda, gli ho detto ma chi se ne fotte scusa, sti francesi ci hanno tritato la minchia per decenni loro e i loro marron glacé, se ripenso alla finale dell'europeo in piazza Duomo mi incazzo ancora adesso.

Il collegamento più bello da Napoli, in contemporanea con Milano e Roma da piazza del Plebiscito – c’erano più fumogeni a Napoli che a Marassi in vent’anni di militanza allo stadio – ho visto lo striscione più bello: "adesso ridateci la Gioconda".

E dire che ieri in giornata mi sono cremato doppio pacco di Fortuna blu per la tensione e mi sono golato un tre o quattro litri di birra. Ma alla fine è andata bene, anche grazie a Omar Camoranesi, il sosia maschile della Pina, che ieri sera in diretta le dicevo “belin, Pina, stai giocando bene stasera”. Lei si scazzava un po’, poi capiva che ero scaramantico, lo sa che lei assomiglia a Zamorano, non a Camoranesi, ma fra oriundi più o meno, poi di sera con l’illuminazione artificiale.

Raffo mi aveva chiamato alla fine dei supplementari, da Genova, non ce la faceva più dalla tensione e allora chi chiamo? Chiamo Paolo, dai, belin, però dopo la partita, dopo che il mio nuovo idolo assoluto Fabio Grosso l’ha schiaffata dentro su rigore con una lecca incrociata nel sette, sto cazzo che ti richiamo. L’ho dovuto chiamare io, Raffo, lui soltanto quando siamo nella merda mi chiama, per festeggiare no. Il solito Raffo cacamiande. Dai, oggi sono buono.

Usciamo, e ci sono tutti i tifosi dell’Italia che si riversano a san Giovanni con le trombe e i bandieroni tricolori che non ho mai visto tante bandiere dell’Italia in vita mia. Insomma, c’è sto gruppetto di ragazzi, uno con un bandierone, che gli si impiglia nell’albero. Va avanti per un po’, con l’asta in mano, poi si accorge che il bandierone è rimasto sull’albero. Torna indietro, belinone, ti sei perso il tricolore!!!

Poi, un po’ più avanti, di fronte al mercato vuoto (è notte) c’è uno seduto sul marciapiede che sta guardando la tivù in strada. E’ seduto su una seggiolina vicino alle macchine parcheggiate. La tivù è poggiata davanti alla saracinesca del negozio, con una parabolica assurda, non ho capito dove prendeva la corrente, seduto sul marciapiede con una tivù a cristalli liquidi poggiata vicino alla saracinesca, di fronte ad una merda di cane, che canta “po, po, po….”.

Poi, un’allegra famigliola, padre, madre figli. Il padre, ad un certo punto dice: ”stasera tutti fratelli, domani torniamo ad ammazzarci”. Poi prende il più piccolo in spalla e corre verso la buridda.

Arriviamo vicino a san Giovanni e il rumore si fa assordante. Trombe, trombette, vecchi, bambini, donne, tacchi alti, scarpe da ginnastica, tamburi. Squilla il cellulare, è il padre della Pina, 77 anni non gliene è mai fottuto un cazzo di calcio, che mi vuole parlare e mi dice: “Certo, quando Zidane ha buttato dentro il rigore ero un po’ disturbato”. Belin, mi veniva da dirgli che io ero incarognito come una bestia al macello, ma mi trattengo, dico due cose di circostanza e commenti di calcio che potrebbe capire anche un analfabeta del tifo, nato nella Svizzera tedesca che non ha mai visto un filmato di calcio in vita sua perché passa il tempo a sciare dall'età di due anni, poi mi concentro sulla gente. Non prima di averlo ringraziato, ero stato io che per questioni scaramantiche l’ho costretto a distanza a guardare la partita, lui che non gliene fotte un cazzo di calcio. L’ha fatto, la cabala conta.

Vedo tipe in reggiseno, belin a sto punto spogliati. Tipe che sporgono dalla macchina, con il reggiseno a coppa nero in mano, allora spogliati, cosa sono ste mezze misure, come quando ti fai una carbonara e ti pesi la pasta, ridicolo. Tipe dietro in motorino con in mano la bandiera nella sinistra e gli slip nella destra. Allora spogliati, sei ridicola.

Camion carichi di tifosi con bandiere, moto in contromano, con sessanta bandiere e trombe in mano, uno che va a palla in controsenso con un palloncino, forse è un presrvativo gonfiato, in mano. A un certo punto oso dire, così, gioiosamente, fra me: “che bello vedere tutti sti tricolori. Strano, non capita tutti i giorni, non mi sembra che sia una cosa così normale che gli italiani siano fieri della bandiera”. Una banalità. Non l’avessi mai fatto.

Mi si affianca una donna, sui 50 anni, con un bandierone dell’Italia in mano. Dice: “scusi, ho sentito quello che ha appena detto. Non è vero, io è dall’82 che ho questo bandierone dell’Italia e lo sventolo con grande orgoglio”. La guardo, le dico “guardi che non stavo dicendo questo, stavo soltanto dicendo che in Italia non mi sembra che ci sia normalmente questo grande attaccamento alla bandiera. Provi ad andare in altri paesi, non so in Svizzera, e tutti i santi giorni ti vedi la bandiera del paese che sventola dal balcone di casa. Non è che ci deve essere il mondiale di mezzo, così, gli piace e sono fieri del loro paese”.

Lei si irrigidisce ancora di più e ribatte: “il nostro problema è che abbiamo avuto il fascismo e per questo non potevamo essere fieri della bandiera perché se no ti davano del fascista. Io nella mia scuola dove insegno la bandiera la insegno”. Io la abbraccio un po’, mentre cammina, e le dico: “ah signò, ma che cazzo c’entra il fascismo col mondiale? Rilassati, sventola la tua bandiera e non rompere i coglioni”.

Secondo me era una fascista bella e buona, che le giravano i maroni che la metà delle bandiere in giro le avevano comprate da una settimana mentre la sua ce l’aveva religiosamente piegata in casa da 24 anni, perché secondo me l’ultima volta che l’ha sventolata è stato dopo il Mundial dell’82. Le ho anche detto che secondo me dall’82 non penso che l’abbia tirata fuori dal cassetto troppe volte, la bandiera, non ha risposto sta testa di cazzo attaccabrighe, poi mi sono concentrato su una tifosa dell'Italia vestita in pantaloni attilati bianchi, top verde (avrà avuto la quinta) e scarpe rosse. Oggi ce n’erano tante di tifose dell’Italia, che non sanno nemmeno la differenza fra un guardalinee e un tosa erba, vestite così: pantaloni/gonnellina bianca, top/reggiseno verde, scarpe/sandali rossi. E poi ditemi che in Italia normalmente la gente si gasa dei colori del tricolore e vi mando affanculo in due secondi.

Poi, oggi c’era in giro l’effetto Grosso, cioè che tutte le tipe oggi che siamo campioni del mondo sembrano più fiche, c’hanno il culo più bello e più sodo. Le strade e i colori sembrano più belli, l’insalata era più buona, eppure era la solita cazzo di insalata tonno e mozzarella, Roma sembra la capitale dell’Italia, eppure è la solita città di merda invivibile come sempre. Chissà quanto dura, speriamo che duri quattro anni. Comunque, sono contento che sia finito il mondiale perché ho sentito donne camminare in giro e dire che secondo loro Cannavaro dev’essere una bella scopata, che i giocatori della Spagna erano carini, peccato il numero 15 con il cerchietto, che Gattuso tutto sommato un giretto (soprattutto dopo la vittoria) se lo sarebbero fatto volentieri. Ma vai con Ribery prima dell’operazione facciale, cazzo, il calcio è una cosa seria, non una minchiata intermittente per farsi quattro ciance mentre ti bevi il caffè al bar e ti scegli i colori del top, brutta testa di minchia.

La cosa più pericolosa che ho visto ieri erano quelli seduti sui cofani delle macchine, che se per caso inchioda la macchina finiscono direttamente sotto le ruote, ma semmai uno in meno e chi se ne frega. Siamo quasi 58 milioni, alla fine, o no. Poi, oggi prima di pausa pranzo, mi sono fermato a fumare all’ombra, davanti a un negozio, si sentiva la radiocronaca registrata della partita, che ficata, su una radio locale romana. Mi sono comprato un peroncino, come etichetta c’era la foto dei campioni del mondo dell’82, adesso finalmente potremo vedere un’altra formazione dopo 24 anni sulle etichette delle birre. In effetti, vedere Graziani e Collovati per non parlare di quel ciccione di Tardelli dopo 24 anni aveva tritato il belino ogni volta che ti prendevi una birretta, lì sulla bottiglia appiccicati.

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08 luglio 2006

Fioretto


Parlando d’altro, domani c’è la finale. Se vinciamo sarà il caso di fare un fioretto, anche se di fioretti sticazzi ne ho già fatti tanti anche senza finali di mezzo. Sono un fioretto ambulante. Non so cosa scrivere, però era da un po’ di giorni che non avevo nemmeno un nano secondo per starmene nullafacente davanti al computer, quindi mi tocca scrivere così, senza sapere cosa scrivere.

Vabbè, mi dirai, sono cazzi tuoi, sei tu che devi scrivere, è un problema tuo riempire gli spazi. Ti dirò, c’è una bella differenza fra scrivere qualcosa e riempire uno spazio. Comunque, dai, adesso mi ci metto d’impegno, mi sono tirato su, che stavo svaccato sulla sedia, adesso sono operativo. E ti dico che come fioretto per la finale domani mattina me ne vado a san Pietro in Vincoli, davanti alla statua con le corna, un santo con le corna mi piace come idea, poi è qua vicino, a via Cavour.

Ci ero già stato a fare un fioretto da san Pietro con le corna, due anni fa esatti, quando dovevo andare a fare la prova in agenzia. Mi era anche andata bene, mi avevano preso, avevo scritto come un automa, tutta una prova sugli ebrei ultra ortodossi delle colonie nella striscia di Gaza. Domani ci torno, di mattina, a san Pietro lo guarderò in faccia, lui e le sue corna, che Michelangelo si è sbagliato, gli ha fatto le corna a un santo, un santo cornuto c’è lì, chissà se lo sanno tutti i turisti che gli fanno le foto digitali. Che poi la storia delle corna di san Pietro in Vincoli non so bene da dove salta fuori, mi sa che c’era scritto qualcosa del genere nella bibbia o nei vangeli, ma di sicuro Michelangelo l’ha interpretata sbagliata, figurati se san Pietro era cornuto, uno dei padri della chiesa. Non è possibile.

Che poi, scusate, ho scritto una cazzata, non è san Pietro con le corna, ma Mosè, comunque il succo del discorso è quello: facciamo le corna e il fioretto vale lo stesso. Amen.

Leggevo oggi sul Corriere che i preti sposati hanno sfilato a san Pietro con dei cartelli, con scritto sopra “ci sentiamo emarginati”. E come vuoi sentirti, prete sposato, benvoluto e benaccetto a san Pietro, con la tonaca e la fede al dito? Cosa sei, scemo? Poi, c’era una foto di due gay spagnole che c’avevano in fronte un adesivo con scritto “io non ti sto aspettando”, riferito alla prossima visita del papa in Spagna. Ridevano, ste due ragazze con l’adesivo in fronte. Ho voltato pagina, ma scusa chi se ne fotte di due gay che si mettono un adesivo in fronte per dire che non stanno aspettando il papa? A parte che se davvero non gliene fregasse niente veramente non se lo metterebbero l’adesivo in fronte, se ne andrebbero al mare invece di farsi fotografare con quell’adesivo in fronte. O no.

Tornando a san Pietro in Vincoli, a me la cosa che mi piace di più di quella chiesa, che ci arrivo a piedi in cinque minuti da casa, quindi come fioretto in effetti potrei sceglierne uno un po’ più sbattimento, sai che sforzo fare una passeggiatina di cinque minuti per guardargli le corna di marmo bianco, sono i vincoli. Nella cripta, più o meno, anzi sopra la cripta, però non sull’altare, c’è questa bacheca con le catene di san Pietro. E’ per questo che si chiama in vincoli, perché sono le catene di san Pietro. Se non lo sapevi adesso lo sai, però se ti fai un giro su Google e cerchi nelle immagini lo vedi.

Prima o poi mi voglio comprare un telefonino che fa le foto così posso fare il mio reportage. E’ da un po’ che mi frulla in testa l’idea di farlo, non so se scriverlo ai quattro venti, che magari qualcuno mi frega l’idea, ma magari non è poi così originale. Non penso che ci sia poi troppa gente che mi legge, quindi lo scrivo. Voglio fare un reportage fotografico, con tutte le statue mutilate di Roma. Magari l’ho già scritto, chi se lo ricorda, con tutte le cose che scrivo e poi intanto non rileggo mai magari l’ho già bello che scritto. Ce n’è una in via del Corso di statua mutilata, gli manca un braccio e mi sembra anche la testa. Non so perché, ma a me le statue se sono mutilate mi piacciono di più, mi sembrano più vissute se sono rovinate.

Pioveva. Adesso ha smesso. Mi sto bevendo una Moretti, che novità. E mi sto fumando, indovina, una Fortuna blu. Belin che fantasia.

Oggi a Monti mi sono letto tutto l’articolo sul Dpef. Nel tavolino di fianco c’era un gruppo di amiche, sai di quelle che si incontrano il sabato mattina per fare quattro chiacchiere insieme. C’era una delle amiche che si era portata il suo cane, un barboncino bianco, si chiama Sole. Belin, ma Sole che nome è per un cane? Poi, sarà un maschio o una femmina? Probabilmente una femmina, se non ricordo male Sole è un nome di donna, Maria Sole, non so chi è ma esiste.

Poi, non ho detto una cazzata, almeno non del tutto visto che la mamma della Pina ha trovato un cane un po’ di tempo fa. L’hanno chiamato Tom. Poi però dopo un po’ hanno scoperto che è una femmina. Però continuano a chiamarla Tom. Vedi un po’ te. Però la Pina mi ha detto che di nascosto sua mamma Tom lo(a) chiama Budda perché le piace di più Budda di Tom. Belin, ma anche Budda è un nome di maschio, o no.

Ieri sera mi sono visto Crime Scene Investigation e c’era uno dei malviventi del data base che si chiamava Jesus. Però, nel telefilm, a parte che Grissom sta diventando sordo, gli si sta sedimentando l’osso nella uegia (orecchia) e deve fare un’operazione urgente se no diventa sordo e ieri sera tutta la puntata facevano sentire le cose al volume che le sente lui, cioè bassissimo, per far capire quent’è sordo Grissom, questo Jesus non lo pronunciavano all’americana “Gisus”, ma alla spagnola “Hesus”. Non so, a parte che in Italia non c’è nessuno che si chiama Gesù, a parte il mio amico Gippi, che però penso di essere l’unico che continua a chiamarlo così, “Gisus” all’americana, sono antico io, saranno almeno quindici anni che nessuno lo chiama più così. Però, non so, se il telefilm è americano allora quello del data base lo devono chiamare “Gisus” all’americana, o no. Però magari è solo un errore di doppiaggio della versione italiana, e per questo hanno doppiato con “Hesus” alla spagnola. Comunque mi dava fastidio. E poi di crime Scene Investigation dopo che hai visto il primo episodio guardare anche il secondo è un casino, è difficilissimo e complicatissimo da seguire, di solito mi addormento sempre al secondo episodio perché poi lo danno il venerdì sera ed è il momento che sono più asfaltato della mia vita, mi sento il bitume dell’asfalto che mi cola nel cervello il venerdì sera per le settimanine di merda che passo a spremermi le meningi al giornale. Ma parliamo d’altro, che oggi è weekend e non ho nessuna voglia di parlare di lavoro.

Al lavoro hanno messo l’aria condizionata dappertutto a parte nella mia stanza. Così, adesso c’è un freddo della madonna nelle altre stanze mentre io continuo a sudare come un maiale, perché il ventilatore mi fa un seghino, anzi mi sminchia la spalla, c’ho sempre sto dolore nella spalla destra, quella dalla parte del mouse, che forse è il mouse e non il ventilatore. C’ho la spalla del mouse, come il gomito del tennista.

Allora, quando stavo al bar a Monti, oggi, nel gruppo di amiche che si sono incontrate per fare quattro ciance di sabato mattina, c’era anche la mia donna preferita di Monti, la matrona di Monti. Sono contento che adesso quando la vedo mi piace di nuovo, che comunque è da un sacco di tempo che mi piace guardarla, solo che per un certo periodo non mi piaceva più perché era successo un casino, mentre ricevevo una telefonata del cazzo al Faraone c’avevo lei di fianco quindi per un periodo la associavo a questa telefonata del cazzo, ma ormai mi è passata. Adesso mi piace di nuovo, sono contento di averla recuperata, era una grossa perdita se no.

La mia matrona del cuore è un donnone. Avrà sui quarant’anni, capelli neri lunghi quasi sempre raccolti dietro, porta questi occhiali da sole anni ’70, poi di solito è vestita anni quaranta, con le gonne longuette, sotto il ginocchio, e i tacchi alti. C’ha qualche difetto estetico, la mia matrona, ma perdonabile perché è troppo erotica, quindi le perdono tutto. Ad esempio, è polpacciuta. Ma chi se ne fotte, detto tra noi. Oggi, era proprio scasciata, c’aveva addosso un vestito del ’79, a righe bianco e azzurro, sembrava un pigiama, e scarpe basse. Però, la cosa più bella è che la mia matrona è misteriosa. L’unica cosa che devo fare è non conoscerla mai, mi sa che se la sento aprire bocca mi scende tutto subito. O no. Succede sempre così, o no.

Vorrei dire qualcosa di intelligente, ma non mi viene. Forse è meglio che me ne sto zitto, però starmene qua a scrivere mi piace, mi rilasso, anche se mi sento la spalla del mouse mentre scrivo, ma almeno non sto scrivendo roba di cui non me ne frega niente, come succede il 99% del tempo che scrivo.

Secondo me le donne se vogliono fare una cosa furba dovrebbero comprarsi tutte le Birkenstock, quelle con la linguetta che ti entra infradito nel pollice, rosse e la chiusura dietro. Troppo sexy come scarpe, poi sono comode e non puzzano. Così almeno mi rendo utile, con questi consigli, alle donne dico.

Ieri sera a un Posto al sole c’era Carmen che cantava la versione in inglese della sua canzone in napoletano. Mi sa che fra un po’ Carmen tradisce Filippo con Diego, che se la sbava tutta, chiamalo scemo Diego.

Oggi dopo che siamo stati lì al bar di Monti e la matrona se n’è andata, pensa te che culo, lei vive nel palazzo del bar di Monti, c’avevo una fame porca e mi sono fatto un calzone alla montanara. Nove euro spesi bene, poi dentro il formaggio era tutto filamentoso, la pasta era una goduria, l’abbiamo preso al Chicco di Grano, di solito non mi fa impazzire come posto, però sai, la fame è fame.

Tornando a casa, abbiamo visto la pazza che dormiva sotto il sole, all'angolo, in piazza, davanti a Santa Maria Maggiore, come faceva a dormire così, di fianco al traffico e sotto al sole, non si capisce. Però dormiva della grossa, come dice mia zia Anna (ha l'halzeimer) aveva anche la bocca aperta, russava, tutta vestita con le calze, buttata lì, appoggiata con la testa al palo con il segnale di divieto di parcheggio, sdraiata sulle sue cose, quattro sacchetti pieni dell'Amiu.

Mi sa che l’anno prossimo mi iscrivo ad un altro corso di scrittura creativa, però basta col minimum fax, voglio cambiare aria, voltare pagina. Sta cosa della scrittura ci devo un po’ pensare, mi piace, però ho anche visto che può essere un’arma a doppio taglio, una specie di boomerang perché quando scrivi non è che sei tu davvero. E’ soltanto una voce, una tua voce, una delle milioni di voci che puoi tirare fuori da te, che poi non sai bene chi è che sta scrivendo, se sei tu o un altro, e ti perdi. A volte. Non sempre.

L’altra sera c’era in tivù la premiazione dello Strega, ha vinto Caos calmo di Veronesi, che dal vivo è antipatico, è toscano, a me i toscani soprattutto i fiorentini non so perché non mi sono simpatici per niente. Mi sanno di finti, di quelli che appena volti le spalle ti prendono per il culo, almeno i romani ti prendono per il culo in faccia. Anzi, lo so perché mi stanno sul culo i fiorentini. Avevo questa capa, di Firenze, una volta le ho mandato una mail, c'era scritto personale in oggetto, e lei l'ha girata al direttore. Fai tu, dove possono starmi fiorentini secondo te?

Alla premiazione dello Strega su Rai Uno hanno inquadrato Sara, le abbiamo mandato un sms, era in diretta, che strano, l’ho riconosciuta, stava a fumare, sicuramente non era una Fortuna blu, mi sa che lei fuma le Philip Morris.

L'altra sera, allo Strega c'era uno scrittore che diceva di essere contento perché il suo libro l'ha scritto con la sua voce. Beato lui, era tutto contento di aver trovato la sua voce. Portava un cappello come l'ispettore Hammer, secondo me è pelato. E' di quelli che si mettono il cappello perché sono senza capelli e se per caso i capelli ce li ha allora è un minchione, perché quello non è il suo cappello, è quello dell'ispettore Hammer.

Vorrei scrivere una bella storia, con un inizio e una fine, ma non mi viene. Anche perché non è che ci penso tanto, alla trama, forse dovrei, però sai, così, preferisco sedermi qua e scrivere quello che mi viene. Mi diverto di più e poi non faccio fatica, non mi spremo le meningi. Ma le meningi cosa sono? Ma stanno vicino alle tempie le meningi? Ma che parola è ‘meningi’…e meningite cosa vuol dire, che diventi demente?

Oggi è sabato, domani c’è la finale dei mondiali. Mi ricordo che l’altra volta, nell’82, la finale l’abbiamo vista a Stroemma, in campagna, in Svezia. Il giorno della partita, anzi la sera, siamo arrivati al settimo del primo tempo, eravamo andati a farci un bagno al lago e abbiamo perso la cognizione del tempo, così siamo arrivati in ritardo. Mio nonno era tutto preoccupato, poi è andata bene, era contento anche mio nonno, quel uegione, le orecchie più a sventola del ventesimo secolo, mi sa che la Germania gli stava sulle palle non poco.

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07 luglio 2006

Come quando fai un sogno


Come quando fai un sogno, c’è la persona che conosci bene lì in cinema scope, però ha qualcosa di diverso. Mi è successo stanotte, ho sognato un mio amico, stava ridendo mentre mangiava, portava la camicia a maniche corte, le braccia erano tutte chiazzate di nero. Aveva una macchiatura nera sugli avambracci, era bicolor il mio amico, ma non era un tatuaggio, era proprio bicolor.

Come quando per sbaglio metti il sale nel caffè.

Come quando prendi lucciole per lanterne, che non ho mai capito cosa vuol dire ma ci stava bene qua.

Come quando volti lo sguardo per non vedere che se no stai male, è troppo forte quello che vedi e allora guardi per terra.

Come quando ti compri le scarpe nuove e nel negozio ti sembravano il tuo numero però poi scopri che ti vanno piccole, ma ormai le hai già un po’ sformate allora te le tieni e va a finire che le regali a qualcuno.

Come quando hai fame, apri il frigo, non c’è niente che ti piace ma mangi lo stesso, magari apri la maionese e col cucchiaino raschi le pareti.

Come quando non sai bene cosa c’è che non va ma senti uno spunzone nella pancia, da dentro, come un coltello, da dentro, che ti sta aprendo la pancia, da dentro, hai presente, un coltello, da dentro, che ti apre in due, da dentro, ma la lama non la vedi anche se lo sai, tu lo sai, tu soltanto lo sai, che dentro qualcosa c’è che ti taglia in due.

Come quando hai voglia di cambiare bar. Oggi sono andato a via del Biscione, a farmi un’insalata, arrivi al bancone e chiedi un’insalata per favore, ti riempiono il contenitore di plastica di quella verde, poi tu decidi cosa vuoi aggiungere. Oggi ho scelto l’uovo sodo, la donna dietro al bancone l’ha sgusciato e me l’ha ghigliottinato davanti, era sodo l’uovo, le ho fatto aggiungere le olive nere, no erano verdi, snocciolate. Mi piace questo posto a via del Biscione, prova a scriverlo e vedrai il correttore automatico te lo scrive piscione, belin, ma chi l’ha programmato il correttore automatico del word, un dislessico? Comunque, oggi ci sono tornato a via del Biscione, è la terza volta che ci vado, mi piace perché ci sono gli sgabelli e i tavolini alti di legno e le catene di metallo sotto, negli sgabelli e nel tavolino, poi c’è la tovaglietta con la mappa di Roma, colorata, usa e getta. Poi c’è questa scala ripidissima, di metallo, che ogni volta le donne del bancone salgono su, dentro al tetto, si vede che lassù c’è la dispensa, prendono le vettovaglie, le vedi che entrano nel soffitto, poi scendono, guardo sempre sotto la gonna quando ce l’hanno, come fai a non guardare, hanno le gambe belle bianche, poi salgono veloci, così quando gli scompare dentro la testa, dentro al soffitto, tutti che guardano sotto la gonna, è normale. Poi, paghi e te ne vai, non c’è mai gente, di solito ci sono pochi turisti, romani mai.

Come quando vedi un bel film o leggi un bel libro, che dici perché di lavoro non posso fare quello che guarda bei film e bei libri e poi dici ma non si può mica, poi cosa mi leggo di sera, prima di dormire, che ho letto tutto il giorno bei libri. Un brutto libro magari.

Come quando non vale, ma te ne freghi e cerchi di barare ma lo sai che te lo leggeranno in faccia.

Come quando tiri dritto, per la tua strada, anche se ci sono tante belle deviazioni ai lati, vedi i cartelli, della statale blu, i cartelli blu della statale, non quelli verdi dell’autostrada, e tu svolteresti ad ogni incrocio, però poi tiri dritto e fai finta di niente. Ma la curiosità ti resta, allora fino al casello continui ad immaginare chissà cosa c’era di là, se giravo di là, ma poi ti passa, poi non si può, perché nella statale il casello non c'è belinone.

Come quando ti rendi conto che passa tutto, come un bel risciacquo dei denti, che ti guariscono le gengive infiammate, o come lo sciacquone del cesso, che torna tutto bianco lindo e profumato dopo che lo tiri, finisce tutto là sotto, nei tubi della terra, chissà dove finiscono questi tubi, ma chi li avrà montati tutti questi tubi, come quando ti viene in mente che potresti scioglierti dentro al lavandino del bagno, o nella doccia, e finire anche tu nei tubi, e farti un giro delle tubature sotto terra a vedere com’è, magari c'è buio però mi porto la torcia elettrica non sono mica scemo che ci vado così al buio.

Come quando passo in via Merulana, angolo largo Brancaccio, e c’è sempre puzza di piedi, mi volto sempre per vedere se c'è un piedone, non c'è mai, ma la puzza resta mefitica chissà perché c'è soltanto lì.

Come quando chiedo una lager e mi portano una Bulldog e me la bevo lo stesso anche se non mi fa impazzire perché non ho voglia di polemizzare con il cameriere e me la faccio piacere perché se no poi tutti mi dicono che sono un rompipalle, che lo sono lo stesso, non chiamo il cameriere solo per pigrizia e poi sono timido.

Come quando mi sono reso conto che i peperoni, soprattutto alla griglia, non è che mi fanno proprio schifo ma è difficile ammetterlo perché ho sempre detto a tutti che i peperoni mi fanno cacciare e ho anche fatto delle scene apocalittiche quando arrivava la peperonata che adesso invece lo confesso me la mangerei volentieri ma non posso mica ordinarla, se no chissà cosa succede.

Come quando l'altra volta quasi di nascosto mi sono mangiato il pollo con i peperoni, al ristorante, non l'avevo ordinato io, l'aveva avanzato una di quelle anoressiche, io mi ero fatto una amatriciana olimpionica ma avevo ancora fame, nessuno se lo cagava quel piatto di pollo con i peperoni allora ho preso due piccioni con una fava che mi fa schifo scriverlo due piccioni con una fava però ci stava bene qua.

Come quando ho deciso che i cachi sono il mio frutto preferito, anche se le ciliegie detto fra noi gli fanno il culo ai cachi, ma non lo dico a voce alta così non si montano la testa le ciliegie.

Come quando vado a letto, leggo, sento la sindone del mio corpo che si imprime sulle lenzuola dell’Ikea e lasciano quell’odore quasi solido di traspirazione corporea. Sembra che là sotto si formi la mia controfigura, come un trasferello, in due dimensioni.

Come quando sei in ascensore e ti viene da scoreggiare ma te la tieni ancora per tre piani. Non fare agli altri quello che non vorresti facessero a te.

Come quando vado in motorino, sento le buche sulle ruote ma ormai sono tutt’uno con i sampietrini e in realtà non sento più niente.

Come quando mi sogno la donna vestita di bianco che cade dal balcone ma non muore perché al piano di sotto il cornicione è molto largo, è un sogno, e quindi si salva e torna al piano di sopra come se niente fosse.

Come quando ho deciso che non ho più voglia di odiare nessuno, ma è difficile, sono uno caldo io, e a volte l’odio mi sgorga dai pori, sembra sudore, sudo odio a volte, come quando bevevo solo alcol puro e mi puzzavano le ascelle di vodka.

Come quando torno a casa e invece vorrei andare in Islanda. Prima o poi ci vado in Islanda, mi prendo una nave dalla Norvegia e mi faccio la crociera nel mare del Nord. In Islanda i cognomi finiscono tutti in dotter, figlia di, come quando l’altra volta ero al bar e-

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