talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

19 marzo 2006

La grammatica del cimitero

Quella faccia da Elvis prima maniera mi guarda dall’ovale incastonato nella lapide grigia della tomba di famiglia. E’ la prima faccia semi conosciuta che incrocio nel Lotto numero uno del cimitero del Verano. Con quei basettoni e la camicia anni ’70 e il colletto a punta – un travestimento come dio comanda - San Lorenzo torna per un attimo il quartiere che conoscevo già prima di andare lì, a passeggiare fra i morti e sepolti.


Elvis sorride sempre, mentre la Pina, di fianco a me, con un sussurro – è un po’ intimidita dalla presenza silenziosa di tutti quei trapassati – mi dice piano: “ma lo senti che odore dolciastro che c’è qua?”. Io la guardo negli occhi. La brezza calda di questo sabato diverso dal solito le scuote leggermente i capelli. Una settimana fa eravamo in Sicilia, la sua terra, davanti ad altre basette, quelle di monsignore Calì, l’arciprete che ci ha sposato. Al massimo la Pina avrebbe sperato di essere altrove questo sabato di ottobre. Magari in viaggio di nozze. Ma non si poteva proprio fare, il mio cronico precariato lavorativo impone la mia presenza fisica a Roma in sacra difesa della postazione. Senza eccezioni, nemmeno il matrimonio è una scusa che tenga per partire lasciando incustodito il fortino.

Annuso l’aria per cercare l’odore della morte, cercando quell’aroma dolciastro che sente mia moglie. Ma non sento niente. Il mio naso è un po’ traballante. Niente di strano. La mancanza di odori è lo scotto da pagare al tabagismo selvaggio che intacca da tempo anche le mie papille gustative. Fiuto ancora l’aria calda del Verano, sembro un cane da tana che cerca la preda nell’aria, nel grigiore un po’ gotico di angeli alati e scheletri – sembrano nibelunghi, anzi sembra il video di Thriller – fra le strisce ininterrotte di loculi, tombe e lapidi colorate di fiori di plastica opachi e grilli verdissimi.

“Ci manca solo che spunti Michael Jackson con la faccia da zombie”, penso in un lampo visualizzando il tizio di piazza Navona che imita il ballo di Jacko con le mani guantate. Un mito.
Un’allucinazione olfattiva mi dice che forse un barlume di odore lo sento, in fondo in fondo alle narici. “Ma Pina, a me sembra merda, puzza di merda”, dico in un soffio di voce che si perde nel venticello tenue che ci avvolge caldo.

La Pina scoppia a ridere, l’atmosfera un po’ tesa si stempera, mentre lei si avvicina e procediamo a braccetto. Ci fermiamo di fronte ad un’altra tomba, sono due coniugi. Mi domando perché le foto negli ovali sono sempre così tristi, a parte quella di Elvis. I due sono morti lei il 20 e lui il 21 di maggio dello stesso anno. “Beati loro”, dice la Pina. Mi viene in mente che poco prima abbiamo visto un’altra tomba matrimoniale. La donna è morta 54 anni dopo il marito. La foto di lui era relativamente giovane, quella di lei molto più anziana. Penso che non è giusto, che potevano almeno metterci la foto di lei alla stessa età di lui. Una specie di maquillage del tempo, così sembrava che lei non aveva vissuto tutto quel tempo da sola. Ma magari dopo la sua morte lei era stata felice. Chi lo sa. Da quelle immaginette in bianco e nero non si capisce tanto che vita hanno vissuto tutti questi morti e sepolti. Se sono stati felici in vita. Boh.

Poi mentre vedo un ovale di una bella donna in bikini, che sorride di fianco al marito in maniche di camicia, penso che siamo tutti un po’ vedovi. Anche da vivi. Senza per questo dover andare al cimitero. In quel momento, con la Pina sotto braccio, rievoco tutte quelle donne del passato, che mi mancano sempre a tratti. Le vedo che a volte ballano in cerchio dentro di me, chiamando il mio nome. Sembrano sirene. Poi l’immagine svanisce, sostituita dalla foto larga, finalmente quadrata, di un morto ritratto con un tonno di mezzo metro e la canna da pesca in mano. Sorrido.

Giriamo ancora un po’, per caso entriamo in un filare di nicchie degli anni ’60. Ci sono soltanto bambini, al massimo di dieci anni, tutti degli anni ‘60. Alcuni morti neonati, altri ancora a cinque o sei anni. Penso che forse al Verano i morti li catalogano per età, in qualche lotto particolare. Da una parte mi sembra una buona soluzione per quei bambini, che magari hanno giocato insieme a nascondino con i vicini. Una nicchia isolata è vuota. Dentro c’è una lampadina e qualche carta di chewing gum. Andiamo oltre.

Camminando immagino di imbattermi nella mia tomba. Come in uno di quei film mezzo splatter, penso di vedere la mia foto quadrata con me che esco dal mare dopo un bel bagno estivo e sorridente. La vorrei così la mia immaginetta, abbronzata e baciata dal sole. Me lo devo ricordare.

Sono quasi le cinque e per fortuna siamo vicini all’uscita perché il guardiano sta chiudendo il cancello. Con passo svelto ci avviamo fuori, passando accanto a due camion della polizia mortuaria. Sono identici ai camion con la cella frigorifera, la stessa del macellaio. Capisco in quel preciso momento che la morte in quel luogo assume la forma di pietra, trasformando così quello che eravamo, semplice carne, in qualcosa di diverso. Qualcosa di marmorizzato nel momento della sua fine. Ecco perché le foto dei morti sono sempre scattate poco prima della fine. E’ la legge del trapasso, la grammatica del cimitero, che con il trapassato remoto del ginnasio non c’entra nulla. Sono calmo e sereno, il sole splende, l’ottobrata romana non tradisce.

Siamo fuori, la Pina mi stringe il braccio. Passando di fianco ai fiorai della piazza ci chiedono tutti se vogliamo un bel mazzo di girasoli. Stranamente il mio naso si è risvegliato e respirando a pieni polmoni sono contento di essere fuori e di sentire il profumo un po’ stantio della vita. Una vecchia fioraia sta gettando dei maccheroni al sugo da un contenitore di plastica al suo cane alla catena. Respiro, sono contento di vedere le saracinesche delle agenzie mortuarie e dei costruttori di lapidi. Alla fine, la morte è un business come gli altri. Un business antico. I fiori li compreremo dopo, a Piazza Vittorio, dai cingalesi. Al Verano i fiorai sono italiani, chissà perché, tutti italiani.

Accendiamo i motorini e torniamo sui nostri passi verso casa. Per strada, nel riflesso della luce solare, vedo dentro di me che un po’ di cadaveri del passato stanno ballando un samba in mio onore. Chissà perché non ho più così paura di guardarli negli occhi. A piazza Vittorio passiamo oltre i cingalesi. I fiori li comprerò un’altra volta. Andiamo da Trombetta, che l’acqua è finita. Dato che ci siamo compriamo anche due bottiglie di Moretti.

1 Comments:

At 7:40 PM, Anonymous Anonimo said...

belin, paolo, vedo che ti sei fatto i culo questo pomeriggio. e io che pensavo di poter leggere un nuovo post al gionro. e ora come faccio che c'è già tutta questa roba? questo del cimitero non lo avevo letto e mi ha toccato molto. beh, sono sempre più contento di averti aperto le porte del mondo dei blog....
raffo

 

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