talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

19 marzo 2006

Perché scrivo

Io scrivo perché sono un lesionato e la scrittura è il mio unguento. Una specie di medicina, di cura fai da te, la vedo come una specie di Lasonil o Voltaren, a seconda della lesione che devo curare. Comunque una crema, che è anche un vaccino, che mi aiuta a stare meglio, anche se mi costringe a iniettarmi in vena la lesione, o meglio il germe della malattia, per poterla riconoscere e poi combattere.

A questa conclusione, che la scrittura per me è una cura dalla vita e dai miei traumi passati presenti e futuri, ci sono arrivato per gradi. Perché all’inizio, quando ho cominciato a scrivere, non sapevo che questo del Lasonil fosse il vero motivo che mi spingeva a scrivere. Ho iniziato a scrivere per gli altri qualche anno fa, forse quattro anni fa. Ma ci torno dopo.

All’inizio inizio, l’inizio della mia scrittura, senza saperlo, già scrivevo prima senza scrivere. La scrittura era uno strumento della memoria, che mi serviva per ricordarmi i sogni che facevo. A quel tempo ero in analisi a Milano dove vivevo, la maggior parte delle sedute era incentrata sui miei sogni, e mi ricordo che se non me li scrivevo da qualche parte i miei sogni me li dimenticavo e la seduta andava via un po’ in sordina e mi sentivo uno stupido perché non avevo fatto lo sforzo di segnarmi l’immagine onirica, che poi mi sfuggiva via come un pugno nell’acqua e non la ripescavo dentro di me senza la scrittura. Insomma, all’inizio ho cominciato a scrivere per non perdere i miei sogni.

Alla fine, era diventato un circolo vizioso, o virtuoso, dipende da come la leggi. Se non sognavo non scrivevo e non avevo molto da dire alla mia dottoressa in seduta, per un’ora di fronte a lei faccia a faccia rimuginavamo robe già dette oppure passavo il tempo a sparare barzellette e cazzatelle ed era divertente lo stesso, perché lei rideva fino alle lacrime. Ma io non andavo mica lì per fare il cabaret, lì ci andavo perché stavo come i pazzi. E così, senza sogni da raccontare, mi sembrava di perdere l’ora.

Allora, ho cominciato a sforzarmi di ricordare i miei sogni e appena mi svegliavo li scrivevo su dei foglietti di carta, che poi mi piegavo in tasca e mi rileggevo prima di entrare in seduta, così le immagini me le rinfrescavo e sapevo di cosa parlare. Per lo più scrivevo a mano i miei sogni, sul retro di scontrini della spesa, oppure strappando foglietti da comunicati stampa. Ci ho riempito un album intero con i foglietti di carta dei miei sogni. Un collage, meno male che in cima ci scrivevo sempre accuratamente la data. Un album verde ci ho riempito coi miei sogni, con le buste plastificate, in formato A4. Mi sono sempre ripromesso di riscriverli al computer, per metterli in ordine cronologico i miei sogni, ma alla fine non l’ho mai fatto. Quel che è scritto è scritto. Stop.

Quando ho finito la terapia, l’album verde dei miei sogni - più incubi e mostri che sogni rose e fiori tipo harmony - è finito nello sgabuzzino della casa dei miei a Genova. Io resto un lesionato, ma almeno adesso lo so. E’ tutto lì, nell’album verde. E quello che mi è rimasto è la voglia di scrivere, ma non di trascrivere i miei sogni. Ho sempre preferito non scrivere prendendo spunto dai miei sogni, perché adesso quando scrivo quello che voglio fare è mettere giù delle storie.

E’ per questo che prendo spunto dalla realtà e mi cannibalizzo di brutto, prendendo dei pezzi di me che metto giù, nero su bianco, impastati con altre storie, magari vere o immaginarie. Di solito fa parecchio male questa operazione di mescolanza di vero, falso, immaginario, fatti reali, parole e grammatica. E’ tutto iniziato in seduta, quando dicevo che mi sarebbe piaciuto scrivere un libro, avevo anche il titolo, “Sweden mon amour”. Ma questa è un’altra storia, quella delle mie origini svedesi.

La mia dottoressa mi incitava, forse lì nella scrittura potevo sfogare la mia carogna, così la chiamano a Genova, quel senso di rabbia che ti monta dentro e ti rode e che tu non sai bene da dove ti viene ma c’è, eccome se c’è.

Poi, ho iniziato a inventarmi delle storie, estremizzando a modo mio delle situazioni vere e condivise, e a spedire via mail le mie storie alla gente con cui vivevo gli spizzichi di realtà che mi davano lo spunto della storia. Loro leggendo ridevano come maiali che si rotolano nel letame. Allora scrivevo di nuovo, sempre storie nuove, perché loro, i miei amici, ridevano sempre di più e volevano ridere ancora. E io gli davo quello che volevano, risate. Poi, ho iniziato a dargli anche del pianto. Non è mica così difficile, alla fine, basta raccontargli la verità. Fino in fondo. Ovviamente, un po’ di amici così li ho persi, però almeno mi sono rimasti quelli che sono amici veri. Forse.

La prima volta che ho scritto una storia è stato dopo che ero andato a fare sesso nella mia Polo blu del ‘91 al Righi, una collina nei dintorni di Genova. Con me c’era una tipa, la mia ragazza di allora, una di Albaro che è come dire una dei Parioli – anche io sono di Albaro, anche se alla fine non mi sono mai sentito a casa mia lì – Ovviamente, non ero solo a fare sesso in macchina al Righi, c’era lei la biondina con i dreadlock che poi le treccine se le era dovute tagliare tutte perché c’aveva una matassa bionda piena di sabbia e sporcizia. E’ stato un dramma per lei tagliarsi i suoi capelli lunghi dorati che si era fatta imperlinare in vacanza. Ma la vacanza in Sardegna era finita, ero andato anche io dalla parrucchiera con lei perché era stato un vero dramma per lei dover tagliare tutto così. Ma questa è un’altra storia, quella dei capelli biondi falciati.

Insomma, lì al Righi in macchina, prima di vedermela piombare addosso a cavalcioni accucciata sul posto di fianco al guidatore puntellata con i piedini sui lati del sedile e il suo seno a sbattermi sulla faccia – uno dei due era molto ma molto più piccolo dell’altro - le avevo raccontato una storia su di lei, trasformandola in un personaggio di fantasia. E le era piaciuto, eccome se le era piaciuto. Si era eccitata di brutto, chissà perché.

Le avevo detto suppergiù questo prima di fare quello che stavano facendo file di passeggeri parcheggiati manco fossero in un parcheggio a lisca di pesce di fianco a noi, il parcheggio delle scopate notturne e clandestine, perché c’hai trent’anni ma a casa ci stanno i genitori e non c’è manco un posto per scopare in santa pace se non dentro quelle lamiere arrugginite della mia Polo del ’91, con la puzza stantia delle cento sigarette che mi fumavo tutti i weekend sulla Genova Serravalle, che tra l’altro mio fratello l’ha fatta rottamare la Polo qualche giorno fa. Ma questa è un’altra storia, quella della rottamazione della mia Polo.

Insomma, prima di farlo le ho raccontato questo, giusto perché non si riducesse tutto a un movimento sussultorio e ginnico concluso con un cleenex con un preservativo usato che volava dal finestrino su quel tappeto di cleenex pieni di Settebello usati, lassù nel buio del Righi – che tra l’altro c’è una vista panoramica da paura, si vede la Lanterna dall’alto e il mare e il Porto Antico fra una sigaretta e l’altra - prima di metterci il giornale aperto del giorno prima sul parabrezza, ovviamente.

Ecco cosa le ho raccontato, una storia su di lei. La Pariolina di Genova, tanto per scaldare un po’ l’atmosfera: “Lisix era atterrata sul Righi nel suo uovo spaziale, del tutto simile ad un piccolo meteorite, che si era rotto all’impatto con le sterpaglie miste a lavatrici abbandonate, buttate lì abusivamente fra comodini e mobili vecchi mollati lì chissà quando con i cassetti mezzo aperti. Erano morti quei mobili, ma senza cimitero. Solo fosse comuni per loro, a cielo aperto. Era buio pesto, Lisix era atterrata in mezzo ad un sacco di macchine, automobili con i giornali appesi ai finestrini, macchine tutte ferme, a fari spenti, che si muovevano con moti ondulatori che intuivi dal di fuori, manco fossero navi attraccate al porto di Sestri Levante, mosse dalla brezza leggera che arrivava da vicino, dalle grù delle acciaierie di Riva Trigoso. Spiando da uno di quei finestrini, Lisix aveva visto corpi avvinghiati nella condensa dei vetri, che con l’inverno si scaldano dall’interno formando un prato di bollicine umide piene di germi, soprattutto se non lasci nemmeno uno spiraglio del finestrino aperto perché vuoi sentire la musica che ti culla nell’abitacolo mentre lo stai facendo sul sedile ribaltato per l’occasione. Lei sapeva vagamente di essere l’ultima superstite di una stirpe ormai estinta, era lì per distruggere il mondo e il genere umano, succhiandogli l’energia vitale, per far rinascere in partenogenesi la sua stirpe estinta. Era travestita da donna, anche se non sapeva cosa volesse dire essere donna, in realtà era un rettile tipo quelli dei Visitors che figliava da sé. Non aveva bisogno di fuchi o cose del genere. Era assolutamente autonoma da quel punto di vista. Un animale a sangue freddo era, bisognoso di calore umano per procreare da sé. Mors tua vita mea, anche se da dove veniva lei, nelle profondità degli spazi siderali, il latino non lo studiavano. Alla fine, aperta un’auto e sventrata una coppietta, si era sentita felice e aveva capito qual era la sua missione segreta. Ripulire il Righi, mangiandosi tutti quanti, tipo il serpente che si mangia l’elefante. Leccandosi i baffi, aveva emesso un rutto tremendo, tanto che il giorno dopo sul Secolo XIX c’era la notizia di una lieve scossa sussultoria di assestamento, sulle colline nei dintorni del Righi, avvertita anche al Forte Diamante. Ma di piccola entità”.

Insomma, la tipa con cui ero, Lisix, dopo scopato, mentre si rimetteva i suoi stivali color viola acido - scopato abbastanza a sangue tra l’altro - mi aveva detto: “Paolo, sai quelle storie che mi racconti sono molto belle, dovresti scriverle”. Ci siamo lasciati quasi subito, dopo qualche settimana, perché io stavo a Milano e lei invece voleva vivere a Genova. A Milano ci era stata cinque anni, ma non aveva più voglia di sbattersi, così diceva la pariolina di Genova, che le mancava la famiglia e voleva dei figli e al mare proprio non ci poteva rinunciare. Diceva che con me aveva capito definitivamente cosa non voleva. In effetti nemmeno io volevo lei. Ho iniziato così a scrivere storie per gli altri. E ne ho scritte a paccate e così intendo fare anche in futuro, adesso che sono arrivato al sud.

2 Comments:

At 3:16 AM, Anonymous Anonimo said...

per caso ti droghi???

 
At 3:44 PM, Anonymous Anonimo said...

nel caso, è un'ottima droga... il racconto mi è piaciuto!

 

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