talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

23 marzo 2006

Tappeto volante


Ieri sera ho visto Fez. Ci siamo incontrati davanti al cavallo pazzo della Rai, a viale Mazzini. Mi ha fatto aspettare tre quarti d’ora, davanti al cavallo, pioveva anche e faceva freddo, per fortuna c’era una tettoia che mi sono fumato mezzo pacchetto di Fortuna. Blu.

Però, mi ha fatto piacere vederlo, Fez. Magari mi dà una mano per quel lavoro, speriamo. Dice che aprono un ufficio a via del Quirinale e che forse cercano una posizione per ufficio stampa e rassegna e poi chissà cosa. Siamo andati in trattoria con Fez, abbiamo magnato di brutto. Gricia e cotoletta, io, ravioli e parmigiana, lui. Intanto parlavamo. Ne ha fatta di strada Fez da quando a Zena si strinava tutti i giorni come un maiale in letamaio di alcol e robe varie. Lui e il totip, lui e l’agenzia dei cavalli giù alla Foce. Lui e la montagnetta di San Siro a prendere il sole vicino all’ippodromo. Lui e il pic nic che abbiamo fatto vicino a San Siro, era domenica, giocavamo a freesbe, c’era anche Lele e i belgi dell’Erasmus e c’era uno di fianco che giocavano a calcio sul prato di San Siro, era domenica, c’era l’Inter che giocava e si sentivano i boati dei tifosi da fuori, e c’era uno che urlava fortissimo “Sheeevaa!!!!!!! Sheevaa!!!!!” intanto tirava calci al super tele e correva da solo.

Me lo ricordo certe volte Fez sconvolto, sdraiato per terra – una volta davanti alla porta di un cesso rannicchiato in posizione fetale – dopo una strina alcolica da panico al volante. E quella volta alla stazione con Sisto dopo il Palio di Siena, erano almeno le tre di notte, aveva vinto il Giraffone. Che poi il giorno dopo del palio dovevo andare a Torino per un colloquio di lavoro.

Che poi sono arrivato a Zena dal Palio alle sei di mattina, dopo la notte passata a bere per le contrade di Siena e a suonare le campane che aveva vinto il Giraffone che erano decenni che non vinceva. E io che sembravo uno di Siena, che invece era la prima volta che ci andavo, al Palio dico, e che il giorno prima la mossa non sapevo nemmeno cos’era.

E io che alle sei di mattina entro in casa a Genova dormo due ore poi mi alzo, mi vesto col vestito nuovo del colloquio comprato con mia madre alla Coin, per il colloquio di lavoro, due giorni prima, nuovo il vestito, con la cravatta e vado a Torino per il colloquio. Era luglio, arrivo a Torino sudato fradicio, con la cravatta, alle 11.00 c’ho il colloquio, ho 26 anni, per un posto ad un punto vendita Smart, arrivo al colloquio e devo correre al bagno, c’ho uno squarone da paura con tutto il vino e le salsicce che mi sono calato a Siena di notte per festeggiare la vittoria del Giraffone.

E io che poi al colloquio, che era di gruppo, che ti mettevano te con gli altri che si erano presentati per il lavoro, gli altri colloquianti, intorno al tavolo, che bisognava fare finta di collaborare insieme per inventarsi insieme la gestione del punto vendita Smart, che bisognava inventarsi in gruppo una strategia di gruppo per vendere Smart insieme con gli altri – questi colloquianti sconosciuti – e io che sudavo e dovevo andare al bagno e mi girava intorno la stanza perché il rosso del Palio di Siena ce l’avevo tutto nel cervello e non riuscivo a spiaccicare parola, con il mio vestito della Coin e la cacata che ci avevo lasciato di là, nel bagno, prima del colloquio di gruppo. Appena arrivato lì a Torino con due ore due di sonno in corpo, nel posto del colloquio della Smart.

E io che l’unica cosa che facevo, intorno a quel tavolo con gli altri colloquianti sconosciuti – c’erano due delle risorse umane che ci guardavano, ci osservavano, ci valutavano l’interazione – era dire sempre, a ogni proposta dei colloquianti “no, non mi sembra per niente una buona idea”. Però poi stavo zitto, sudavo, diventavo sempre più verde adrenalina in faccia, quasi in tinta con il vestito grigio chiaro di cotone della Coin, e non proponevo niente di costruttivo e sudavo come un maiale, mi scappava da vomitare e volevo scappare. E io invece che sono rimasto fino alla fine, come a un sit in, che mentre me ne andavo le due delle risorse umane che mi dicevano “le faremo sapere”, non le ho più sentite, le risorse umane della Smart. Era meglio se me ne restavo a dormire. Torino a luglio col vestito della Coin fa schifo, è da zero a zero.

Che poi, se c’è una cosa che odio sono le Smart. Belin, quei parcheggi a lisca di pesce improbabili nelle strettoie più strettoie, che sembrano le fessure più assurde, solo per far vedere che c’hai la Smart. Brava, c’hai la Smart. Brava, brava c’hai la Smart. Quelle stronze che non sanno guidare ma c’hanno la Smart. Col cellulare, la messa in piega, lo stereo al volante della loro Smart e il sorriso Durbans che glielo vendono in allegato nel portabagagli della Smart insieme al triangolo, una bella confezione gigante di sorriso Durbans, in dotazione. Che cazzo ti ridi, te e la tua Smart che vai in contromano ridendo soltanto che c’hai la Smart e allora ridi. Prima o poi un frontale non te lo leva nessuno. Belin, ho appena riletto sta roba delle Smart, sembro Masini, non è che poi mi porto sfiga con le mie mani, vero? Che poi alla fine la Smart non è così male, pratica.

Il mio amico Fez è arrivato a Milano nell’aprile del 2000. Mi ha chiamato intorno al 25 aprile del 2000. Erano tre anni che non lo sentivo, il mio amico Fez. Erano tre anni che stavo a Milano a fare il bravo bambino flessibile, a cambiare lavori su lavori, che il contratto più lungo era un cazzo di call center in alta stagione nella sala operativa dell’Automobil club tedesco, che a volte conoscere le lingue serve.

Sì che servono le lingue, per mandare i turdeschi in officina a Brindisi, servono le lingue. Il tedesco serve tantissimo quando rispondi al numero verde dell’Automibil club tedesco, a un turco che sta tornando in Germania e gli fonde il motore del suo Mercedes del ’75 stracarico di figli, mogli, zie, bagagli, mobili, canotti, mangiare.

E gli fonde appena arriva a Brindisi, dopo il terremoto del ’99, che è arrivato quando lavoravo lì, in agosto, e tutti i turchi di Germania erano in vacanza a casa loro, e poi sono tornati in massa in Germania, milioni di macchine di turchi che arrivavano a Brindisi con il traghetto, stracarichi e terrorizzati dopo il terremoto, e molto spesso gli fondeva la macchina appena arrivavano in Puglia, e chiamavano il numero verde (me) che stavo a Milano nel mio bel call center e gli dovevo organizzare la macchina sostitutiva o la riparazione.

Ero diventato amico di tutti gli elettrauto di Brindisi, nell’agosto del ’99, che gli mandavo questi turdeschi con il motore fuso in officina il 15 di agosto. A Milano si schiattava di caldo, quartiere Greco, in fondo a via Melchiorre Gioia, che una volta c’avevo in coda talmente tante chiamate di associati in panne, incidentati, con macchine da rottamare, che mi sono dimenticato una famiglia di quattro persone in un aeroporto, che non gli ho trovato la stanza per la notte, avevano distrutto la macchina sul lago Maggiore in vacanza, e se ne sono stati tutta la notte all’aeroporto, senza soldi e senza mangiare perché hanno perso la priorità di chiamata e non li ho più sentiti.

Il giorno dopo la mia capa di Bolzano mi ha chiamato, voleva farmi vergognare che mi ero dimenticato questi poveri bambini tedeschi all’aeroporto tutta la notte, le ho detto “mi dispiace, non penserai che l’ho fatto apposta, vero?”, poi mi sono alzato e sono andato a infilarmi la mia cuffia come quella che usava Ambra a Non è la Rai, ma ero nel call center italiano dell’Automobil club tedesco. Ho studiato il tedesco io, serve per trovare lavoro.

Mi ricordo che un associato una sera, erano le undici, mi chiama perché la macchina è in officina, ha diritto ad una macchina sostitutiva, però mi dice che vuole una macchina di grossa cilindrata. Chiamo un meccanico, lo vanno a caricare lui e la sua macchina in panne, arrivano in officina, mi dice il meccanico che ha soltanto una Uno. Glielo dico, all’associato, lui non vuole una Uno, vuole una Mercedes. Gli dico che c’è soltanto la Uno, prendere o lasciare, lui si incazza con me, vuole una tre volumi. Faccio cadere la linea.

Dopo un po’, sono le undici di sera, mi richiama, ero solo con un altro alle undici di sera, di notte c’è meno gente al call center, statisticamente ci sono meno incidenti di notte sulle strade italiane, anche i tedeschi in macchina muoiono di meno in vacanza in Italia di notte. Di solito a quell'ora mangiano o dormono o bevono, sì, bevono. Birra su birra.

Sto coglione mi richiama, è incazzato perché ho fatto cadere la linea, m chiede nome e cognome, che si lamenterà con la centrale a Monaco. Glieli comunico con lo spelling, a sto coglione, nome e cognome. Poi dice che pretende una macchina tre volumi sostitutiva, gli dico che non c’è, che se vuole c’è una Uno se no può morire lì, in quella cazzo di officina, a centinaia di chilometri dal suo paese, con la sua bella macchina in panne. Poi faccio di nuovo cadere la linea.

Richiama almeno dieci volte, urlando come un pazzo, perso in qualche minchia di officina sperduta per l’Italia, è impazzito. Ogni volta riattacco. Mi dice, mi giura che mi farà licenziare, gli dico “sai quanto cazzo me ne frega di questo lavoro di merda, brutta testa di cazzo”. E glielo dico in italiano, siamo in Italia, impara l’italiano stronzo.

Invece la cosa più bella che mi è successa quando lavoravo al call center dell’Automobil club tedesco, quattro mesi con la Manpower a rispondere ai tedeschi incidentati in vacanza in Italia, è stata una coppia in luna di miele. Chiama lui, hanno avuto un terribile incidente, l’auto è andata in fiamme però loro sono rimasti illesi, in autostrada sulla via di Sorrento dove hanno prenotato 14 giorni di luna di miele. Lui era completamente sotto shock quando mi ha chiamato e voleva assolutamente tornarsene a casa. La sua polizza copriva il rientro in aereo pagato e la rottamazione della macchina. Non se la sentiva più di guidare dopo l’incidente.

Gli ho detto, “senti, è andata bene, non ti sei fatto niente né tu né tua moglie, potevi morire ma non sei morto, né tu né tua moglie. Supera lo shock, fai presto, se no poi torni in Germania e penserai sempre al terribile incidente sulla strada per Sorrento. Pensaci un’ora, richiamami fra un’ora, adesso io non faccio niente di definitivo per te, mi rifiuto. Tu, associato golden card, in base alla tua polizza assicurativa, hai diritto al rientro in aereo se vuoi, anche a due notti di pernottamento in albergo, però fammi un favore, richiamami fra un’ora. Parlane bene con tua moglie, secondo me, visto che ti è andata di lusso e non ti sei nemmeno fatto un graffio mentre la tua macchina è esplosa, e nemmeno la tua novella sposa si è fatta niente, ti consiglio di prenderti una macchina sostitutiva. Ne hai diritto per due settimane, tutto pagato dall’Automobil club tedesco, sei associato golden card. Ti fai la luna di miele a Sorrento, che quando cazzo di ricapita di avere due settimane a Sorrento, hai già pagato l’albergo e tutto, che sei tedesco e che se ti va bene la prossima volta che ti sposi magari non ci vai nemmeno in luna di miele”.

Mi ha chiamato dopo un’ora, ha preso la macchina sostitutiva, si è fatto la luna di miele con la moglie e dopo un mese e mezzo mi è arrivata una cartolina, diretta a me, da questo associato golden card, dalla Germania, che mi ringraziava per averlo trattato male quella volta, di averlo fatto riflettere, mi ha detto, e che Sorrento è bellissima. Ero contento.

Alla Manpower di Trezzano sul Naviglio secondo me c’avevano la mia foto sullo screensaver dei pc, quelli della Manpower. Ero sempre lì, a chiedergli un altro straccio di contratto da quattro mesi, a quelli della Manpower di Trezzano.

Insomma, Fez mi chiama intorno al 25 aprile del 2000, e mi dice “ciao, il 2 maggio inizio a lavorare a Milano, non è che mi ospiti per un po’?!”.

Cosa gli rispondi a Fez, “sì, ok, ti ospito per un po’”. Arriva, ci sta quattro mesi. Vivevo in un monolocale, Fez dormiva per terra sul materasso, sul tappeto volante, l’abbiamo battezzato così quel materasso, il tappeto volante, che mi si era incrostato sul tappeto di casa, Fez, di fianco al mio letto a una piazza e mezzo, incancrenito in stanza, che le rare volte che c’avevo una donna con cui scopare dovevo chiamare a casa mia e vedere se non era lì, Fez. E lui, Fez, non si schiodava, alla fine gli ho dato l’ultimatum e se n’è andato. Alla fine. Fez è volato via sul tappeto volante.

Io mi alzavo alle sette, lui dormiva, lavoravo in una fabbrica di tubi, indovina dove. A Trezzano. Mi alzavo alle sette, all’inizio facevo piano, per non svegliarlo, Fez, poi me ne sono fregato. Facevo la doccia alla mattina, poi andavo sul tappeto volante, nudo come un verme appena docciato, aprivo i cassetti e mi prendevo le calze e le mutande pulite, che a volte Fez apriva gli occhi e la prima cosa che vedeva appena sveglio era il mio scroto sopra il suo naso, che stavo prendendo le calze e le mutande nel cassetto, che stava dietro la sua testa. “Cosa ci vuoi fare Fez, siamo in un monolocale, questo è un monolocale, io ci vivrei, qui, devo andare a lavorare, in fabbrica, dormi dormi”, gli dicevo a Fez e poi andavo indovina dove, a Trezzano.

Ieri sera Fez mi diceva che in quel periodo nel 2000 ero un po’ aggressivo. In effetti, come vuoi essere se non aggressivo quando i tuoi migliori amici sono quelli del Manpower di Trezzano, che secondo me c’avevano la mia foto salvata sullo screensaver del pc, e lavoravo a contratto da otto mesi in uno stabilimento produttivo – taglia il tubo, piega il tubo, forni, componenti, fiamma ossidrica, Ute A, Ute B, Ute C, Ute D – con i clienti Fiat, Alfa, Iveco, Bmw, che mi mandavano affanculo dalle otto di mattina alle sei di sera. Anche in tedesco, che le lingue servono per lavorare, meno male che c’avevo l’esperienza dell’Automobil club tedesco e quando mi mandavano affanculo in tedesco lo capivo subito. Eccome se lo capivo, lì a Trezzano.

Che il primo giorno che sono andato alla fabbrica di tubi, esco a pausa pranzo e la mia Polo non c’è più. Non lo sapevo, non si poteva parcheggiare di fronte alle villette a schiera che fioriscono a viale Industria, a Trezzano, e quella simpatica signora che l’avevo notata che mi guardava mentre parcheggiavo, un po’ intimorito per il primo giorno del nuovo fantastico lavoro in fabbrica - una prova, quattro mesi, per vedere se ero in grado - quella simpatica signora ha chiamato il carro attrezzi e mi ha fatto portare via la macchina.

Che alle sei di sera sono dovuto andare al deposito dei vigili di Trezzano, a meno di un chilometro, a piedi in viale Industria, e pagare trecentomila lire per il trasporto e il divieto di sosta. Grazie signora, non ti ho mai ringraziato di persona, ora lo faccio, mi hai insegnato molto con quel tuo gesto, certo che potevi anche aprire la finestra, alle otto meno dieci di mattina, e dirmi “guarda, lì non puoi parcheggiare, sei di fronte al cancello della mia villetta a schiera e non si può lasciare la Polo lì”.

Non l’hai fatto, signora, però il numero dei vigili invece l’hai trovato, probabilmente ce l’hai stampigliato su un post it, vicino al telefono, attaccato lì, sopra al tuo telefono in tinello, scritto a mano sopra al numero di casa del tuo medico curante, che spero di cuore che tu l’abbia dovuto chiamare spesso negli ultimi tempi, signora di Trezzano dietro la tua tendina della tua villetta a schiera in viale Industria. Un bel posto, delizioso, Trezzano.

Che poi in produzione, lì nello stabilimento, c’era Rigliaco, in mezzo a quelle macchine piegatrici, Rigliaco, il re delle piegatrici. Che quando passavo nello stabilimento, in mezzo a quelle macchine piegatrici che piegavano il ferro dei tubi, il mio lavoro era di rompergli le palle, agli operai.

Perché eravamo sempre in ritardo con le consegne dei tubi, in ritardo siderale con le consegne dei pezzi dei clienti, che producevamo i componenti per il servo sterzo e l’aria condizionata delle macchine e dei camion delle case automobilistiche. Quando passavo in mezzo alle macchine gli operai mi guardavano in cagnesco, manco fossi uno dei padroni della fabbrica.

Ma guarda che io ero messo molto peggio di loro, anche se portavo addosso la camicia e loro la tuta blu, che erano tutti metalmeccanici. Che io ero niente di più e niente di meno della foto nello screensaver dei pc di quelli che lavoravano alla Manpower di Trezzano, non c’è mica il sindacato della Manpower, che spesso invece loro, le tute blu, facevano sciopero, non come me che ero uno screensaver. Hai mai visto uno screensaver lasciare il suo monitor? Io no, a Trezzano non scappavo dallo screensaver del Manpower.

Che Rigliaco era un pezzo di merda che non montava mai un componente, era il capo di una Ute ma se ne fotteva alla grande della fabbrica. E Rigliaco mi imbarcava che i pezzi li aveva mandati avanti, in produzione, da un reparto all’altro reparto, nella fase successiva di lavorazione, ma non era vero, non era vero niente, i pezzi erano fermi. Non c’erano mai in piegatura e in saldatura i pezzi che cercavo, i miei pezzi che erano i pezzi dei miei clienti, che mi chiamavano ogni due secondi, per rompermi le palle, che io ero un account, che cioè io mi dovevo occupare del destino dei tubi per l’aria condizionata e il servo sterzo di certi clienti, alcuni erano tedeschi.

Uno dei miei clienti era l’Alfa di Arese, e mi chiamava che fra due ore c’era un fermo linea. Allora di corsa correvo in produzione, facevo fare al volo 30 pezzi e stavo lì, fra le macchine, di fianco all’operaia della fabbrica, manco fossi il padrone dello stabilimento, controllavo, poi chiamavo un pony express e lo facevo volare con i 30 tubi fabbricati al volo, messi dentro in uno zaino, fino ad Arese.

Di solito arrivava in tempo per evitare il fermo linea, che un’ora di fermo linea allo stabilimento di Arese constava una penale di milioni di lire del vecchio conio, come dice quel simpaticone di Bonolis nel gioco dei pacchi in tivù, e il pony prendeva il suo Ktm 600 e si sparava come un proiettile in tangenziale, arrivava all’Alfa di Arese per il rotto della cuffia, dopo una miriade di zig zag fra tir e macchine in tangenziale che secondo me gli piaceva rischiare e correre contro il tempo a quel pony. Quando lo rivedevo gli offrivo una birra e ridevamo insieme in qualche lurido bar a Trezzano, laggiù, vicino alla Manpower.