talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

25 marzo 2006

All inclusive


La prima volta che li ho visti non me ne sono nemmeno accorto. Il mio sguardo è scivolato su di loro quasi per inerzia nella sala d’attesa della Malpensa, partenze internazionali, terminal 2. Il nostro charter per Cancun era in ritardo di due ore, ma dicono che non c’è niente di strano.
“I charter sono sempre in ritardo, è normale”, diceva la madre alla figlia, una ragazza alta sui quindici anni, che si stava lamentando dell’attesa sbuffando annoiata. E’ lì che li ho visti per la prima volta, senza quasi accorgermene. Non sapevo ancora che erano gli interisti.

Stavo passeggiando avanti e indietro fra le poltroncine rosse della Malpensa, guardandomi le punte delle scarpe, le mie Puma nuove scamosciate, gialle e grigie, che spuntavano sotto l’orlo troppo lungo dei jeans neri, nei piedi a papera, piatti come le chiatte che avanzano lente e pigre piene di rifiuti sul Tamigi.

Mi guardavo i piedi piatti camminando piano per ingannare l’attesa. Meditavo se prendere la scala mobile e salire al bar al piano di sopra per comprarmi l’ultimo panino in vista della sfacchinata di dodici ore di aereo per il Messico, dove con Giusy, mia moglie da meno di tre mesi, abbiamo deciso di goderci la nostra luna d miele a scoppio ritardato, sfruttando il periodo di vacanze natalizie.

“Giusy, vado su a prendermi un panino, vuoi qualcosa?”. Mia moglie fa di no con la testa e vado da solo. Mi compro un panino con il crudo e una bottiglietta d’acqua naturale. Scendo la scala mobile giusto in tempo per vedere il segnale d’imbarco e salire sul charter mezzo vuoto.

E’ il 20 dicembre, a Milano fa freddo, per questo indosso ancora il mio eskimo imbottito e il cappello di lana verde scuro, che l’altra volta in trattoria mi dicevano che sembravo un pescatore vestito così. Il cappello con la visiera me lo tolgo una volta a bordo per dormire sdraiato sui sedili da tre posti. Madre e figlia interisti sono lì, qualche fila più indietro.

Sull’aereo ci danno il tipico mangiare da aereo, mi guardo un film tremendo con Jonny Depp. Mi tocco un po’ il brufolo che mi è spuntato monumentale, solitario e maestosamente enorme sulla fronte. Di lì a poco mi addormento profondamente, mentre la Giusy non riesce a chiudere occhio durante tutto il viaggio.

Siamo arrivati a Milano il 18 dicembre, verso le otto di sera. Mia moglie deve tenere una lezione all’università il giorno dopo, per questo abbiamo deciso di partire insieme il 20 dalla Malpensa. La accompagno a Milano, così siamo già lì pronti per il decollo. Dormo da mio fratello, in Ripa di Porta Ticinese, la Giusy dorme dal suo di fratello, a Porta Romana. Io e Giusy viviamo a Roma, i nostri rispettivi fratelli vivono entrambi a Milano, tutti e due vicino a una Porta. Lollo, mio fratello, vicino a Porta Genova, Giò, il fratello di Giusy, vicino a Porta Romana.

Il viaggio di nozze ce lo paga mia madre. Una settimana piena in una struttura cinque stelle in Yucatan, nel Golfo del Messico. Un all inclusive completo. Io non sapevo nemmeno che lo Yucatan si trova in Messico.

Il viaggio di andata passa liscio. Arriviamo a Cancun, il capoluogo dello Yucatan, di notte. Ci vengono a prelevare in pulmino, un minibus da dieci posti. Siamo stanchi, e lì rivedo gli interisti per la seconda volta. Sono al completo, sono in quattro. La madre, un peperino di donna con i capelli neri carré, si siede davanti di fianco all’autista messicano. La figlia grande, la quindicenne annoiata della Malpensa, si siede dietro di noi, di fianco alla sorella piccola e al padre. In pulmino la madre parla. E’ ciarliera, nonostante la stanchezza del viaggio parla e parla, ha una voce familiare. E’ la prima volta che la sento parlare. “E’ milanese stretto”, penso nei fumi del sonno. Nel tragitto fino all’albergo mi addormento profondamente.

E’ il 29 dicembre, siamo tornati ieri a Milano dalla vacanza in Messico. Sono appena stato al bagno dell’Eurostar, il Milano – Roma che ci sta riportando a casa. Sono abbronzato di brutto, mi è anche venuto l’eritema solare. Prude abbastanza. Il brufolo del 20 dicembre è acqua passata, seccato e assorbito dal sole e dalla tequila messicana.

Gli interisti, come dicevo, sono quattro. Padre, madre e due figlie. Con la Giusy li abbiamo conosciuti meglio il primo giorno delle vacanze. Siamo andati a sentire cosa diceva la tizia dell’agenzia con cui abbiamo prenotato il viaggio.

Il complesso alberghiero dove ci troviamo è un cinque-stelle all inclusive, situato in mezzo alla giungla della penisola dello Yucatan, a un centinaio di chilometri da Cancun, che non lo sapevo ma un paio di mesi fa l’uragano Wilma l’ha spazzata via la città di Cancun. Una città artificiale, costruita su una lingua di terra in mezzo al mare, una città come altre, costruite per volontà di qualche governante nel mezzo del nulla, come Las Vegas o Brasilia. Città nel deserto, città costruite sul nulla.

La tizia dell’agenzia di viaggi elenca le diverse escursioni e gite disponibili. Decidiamo di prenotare la visita alla piramide di Chichen Itza e quella al cenote. La guida per la gita al cenote è un bergamasco di mezza età, mi dà affidamento. Stranamente, sono io e non Giusy che decido di prenotare la visita al cenote, la grotta sotterranea con stalattiti e stalagmiti dove ci immergeremo di lì a qualche giorno. Soltanto in un secondo momento scopriremo che la guida bergamasca, un ex imprenditore di Treviglio con tre blocchi cardiaci alle spalle, si è trasferito in Yucatan sei anni fa, dopo il terzo attacco di cuore e che ora gestisce un diving center e fa parte di un network internazionale di sub impegnati nella mappatura scientifica dei cenote messicani (sono più di tremila quelli ad oggi rilevati nel sottosuolo dello Yucatan).

Gli interisti si siedono sui comodi sofà enormi nella hall dell’albergo, una fazenda messicana ricreata ad arte con simpatica pacchianeria. Li battezzo così, gli interisti, perché il padre, il pater familias, un uomo dal volto sincero con barbetta grigia, alto e sorridente, porta bermuda e un cappello con visiera da baseball dell’Inter. La madre è più piccolina. Sono una famiglia milanese tipica.

La madre si trova subito bene con la Giusy e chiacchierano senza sosta come soltanto le donne sanno fare. Sembrano palle di neve in discesa, la conversazione si trasforma in breve in una slavina, una valanga di parole, per lo più sensate, intervallata da domande, risposte, accenni, mezze parole, verità masticate, risate di donne, sbalordimenti femminili, teste che annuiscono, gesticolamenti, ricette, bagliori oculari, orecchie tese, teste che annuiscono facendo sì “ma va….”, segni convenzionali di assenso consenso. Linguaggio di donne. Il normale flusso di parole femminili in libertà, un codice a parte, tutto loro.

Nel frattempo, io guardo l’uomo. Siamo seduti nella hall messicana, fumando sigarette, ascoltiamo in background il tormentone natalizio dell’enorme hall dell’area alberghiera, un motivetto musicale semplice semplice che fa: “feliz navidad….feliz navidad….feliz navidad….feliz navidad….”.

Mamma e papà interisti sono molto affiatati fra loro. Sono due presone che si calzano a pennello, come due paia di scarpe vecchie e comode che riconoscono i calli del padrone. Si vede lontano un miglio che non si fanno venire le vesciche nei piedi, non stringono, non sono scivolosi l’uno per l’altra.

Ben presto scopriamo che sono sposati dal 1983, un’eternità, la figlia grande è alta e ha quindici anni. La “mia piccola”, come la chiama il padre, ne ha nove. Due grosse finestrelle si aprono nei denti di sopra, gli incisivi ci sono già, mancano i denti di lato, simmetrici, quelli prima dei canini. La piccola è carina e ha lo sguardo vispo.

La piramide di Chichen Itza sarà alta sì e no una cinquantina di metri. In cima ci arrivi salendo i gradini che ci sono su tre dei quattro lati che la compongono. E’ una costruzione antica, che sorge in mezzo a un grosso prato. Per i Maya la piramide aveva un valore religioso. Il giorno del solstizio di marzo un gioco di ombre, di luce e di sole crea la sagoma di un serpente, del dio serpente, sul lato principale della piramide.

La cosa più impressionante è salire in cima alla costruzione. Salendo non ti rendi ben conto di quanto ripida sia la parete. Salire è sempre più facile che scendere. Soprattutto se mentre Sali non guardi di sotto. Non ti rendi conto di quanto in alto sei salito. Te ne accorgi soltanto quando sei in cima. Quando ormai è troppo tardi per fare dietro front in maniera indolore.

Quando arrivo in cima alla piramide di Chichen Itza mi batte forte il cuore perché sono salito veloce. Mi volto e la vista del vuoto sotto mi fa venire le vertigini e un colpo secco al cuore. Pompo adrenalina e mi devo appoggiare al muro per non essere tentato dal tuffo nel nulla. Il giro intorno non lo faccio, c’è troppa gente e non ci sono ringhiere.

L’attrazione che è insieme terrore del vuoto mi atterrisce. Cerco di frenare il battito cardiaco, in lontananza vedo il campo della pelota, dove i sacerdoti maya giocavano il loro rito secoli fa. Chi vinceva veniva sacrificato agli dei. Mi domando se qualcuno di loro, degli antichi sacerdoti, abbia mai sbagliato apposta, per salvarsi la vita. Le regole sono semplici. Si tratta di una specie di minibasket, soltanto che facevano canestro in un cerchio posto in posizione verticale, come un bersaglio, e non verticale come la nostra pallacanestro.

Poi penso ai kamikaze islamici, capisco così in quel momento che quando giochi per la vita, quando in gioco c’è la tua vita, non giochi per perdere, non pensi certo a sbagliare ma al contrario ti concentri per vincere. Morire così non deve essere poi così male, ti sembra di aver vissuto per qualcosa di grande, di più grande di te, di trascendente.

Mi distraggo così, pensando alla pelota, il cuore si calma e pompa sangue più piano, mi siedo prima del bordo della piramide, scendo i gradini di culo, forzandomi a guardare le punte dei piedi per non perdermi con lo sguardo nello spazio intorno. Fisso le mie Puma, anzi le viviseziono, per non guardare il vuoto che mi circonda. Man mano che scendo, le sagome della gente sotto nel prato si fanno più grandi. Il ritmo cardiaco torna normale quando arrivo in fondo.

Alla fine, mi concedo di guardare liberamente il prato e vedo mamma interista riversa nel suo vomito. Anche lei è appena scesa dalla piramide.

Sono appena sceso alla stazione di Bologna a fumarmi una Marlboro Light alla stazione di Bologna. L’Eurostar per Roma è in orario. Uscendo, ho notato lo screensaver del portatile di un passeggero. Era un fotomontaggio curioso, con l’immagine di Russel Crowe nel film “Il gladiatore” con di fronte la foto speculare del viaggiatore, la stessa barbetta e la stessa semi armatura dell’attore di fronte a Russel Crowe sullo schermo del computer.

Ho guardato in faccia il passeggero, con la mia Marlboro già infilata fra le labbra, in effetti si assomigliano. Dopo la sigaretta, ritornando al mio posto, noto che il passeggero sta modificando al computer la pianta di una costruzione a forma di cupola. Sembra un’enorme voliera, senza uccelli. Magari è la pianta di una moschea e il Gladiatore dell’Eurostar è un fondamentalista islamico o cattolico.

La figlia piccola degli interisti si è fatta le treccine. Sta molto bene, sono chiuse con la stagnola, con piccole perline bianco-azzurre che tintinnano anzi picchiettano quando corre. La figlia piccola degli interisti fa ginnastica artistica e non perde occasione per accennare una verticale appoggiandosi alle seggiole di plastica del bar degli hamburger, in riva alla spiaggia. Il tempo si è messo al bello in Yucatan, anche se alle cinque diventa buio pesto. La figlia piccola degli interisti è molto meglio della grande. A me gli interisti mi sono simpatici perché perdono sempre.

Entrare nel cenote è come andare in cantina. L’aria è più fredda sotto la crosta di terra calcarea che copre lo Yucatan. Una terra porosa, carsica, da cui filtra l’acqua piovana creando enormi cunicoli di grotte acquifere sotterranee. Stalattiti colano dal soffitto del cenote. I pesciolini galleggiano nell’acqua di questo laghetto sotto terra. Radici gigantesche pendono dal soffitto e si infilano nell’acqua, facendosi largo nella roccia ed allargandosi come funghi a contatto con l’acqua.

La superficie interna del cenote sembra un enorme gruviera svizzero. Guardare sotto l’acqua con le maschere dà un’impressione strana. Grossi buchi neri, cunicoli e rientranze rocciose, si aprono sotto il fondale irregolare del cenote. Come sempre, il buio mi attira e nello stesso tempo mi spaventa fino al terrore, ricacciandomi verso l’ossigeno del boccaglio verso l’ossigeno e la luce superficiale.

E’ come se due forze opposte e contrarie convivessero dentro di me. Da un lato, la vita e la luce, che filtra dalle fessure solari, dall’altro l’irresistibile fascino dell’autodistruzione, di immergersi nel buio liquido del cenote per calcificarmi per sempre nella superficie delle pareti coralline, impastato con le radici millenarie della grotta sotterranea.

Una lotta costante, il cui risultato sono io. Mi rendo conto che l’equilibrio di queste due forze uguali e contrarie che si annullano a vicenda sono io, che con la testa sott’acqua nuoto lentamente nel cenote fissando il buio a debita distanza per poi uscire dall’acqua, togliermi la maschera e la muta da sub per seguire i raggi solari e riemergere in superficie, entrare nella giungla con le infradito, nella giungla dello Yucatan, per mollare una pisciata memorabile per potenza di getto e durata ai piedi del tronco di un albero secolare che risale all’epoca delle piantagioni spagnole di caucciù.

Intanto, in lontananza, ascolto il richiamo di una scimmia urlatrice che si sgola a chilometri di distanza. Ho la tentazione di rispondere ma desisto. Penso che in effetti il mio accento genovese sarebbe difficile da decifrare per le scimmie urlatrici. Penso anche che il mio cellulare triband in Messico non mi serve e che una volta l’anno disintossicarmi dal mondo civilizzato – cellulare, giornali e internet – è una cosa buona e giusta. Scrollandomi l’uccello penso che peccato che l’uragano Wilma abbia raso al suolo Cancun. Sono passati appena due mesi dal suo passaggio, mi sarebbe piaciuto andarci.

Nell’all inclusive dello Yucatan sono compresi diversi libri. Ho finito con Wallace, per un po’ mi prendo una pausa. Mi sono letto un libro con sette inchieste americane che hanno vinto il premio Pulitzer. Mi ha colpito moltissimo quella sul plutonio, dove si descrive la paranoia dell’arto fantasma di un paziente-cavia, un uomo di colore e bassa estrazione sociale sottoposto all’amputazione della gamba in seguito a iniezioni di plutonio somministrate su base sperimentale negli anni ’40 da staff medici americani impegnati nella realizzazione della bomba atomica, interessati alle conseguenze delle radiazioni sul corpo umano.

Il paziente, anni dopo l’amputazione, accusava forti dolori alle dita dei piedi della gamba recisa. L’immagine di questo mutilato mi ha profondamente colpito. Me lo immaginavo seduto in cucina con sua moglie che stira, mentre si lamenta del dolore immaginario ad un piede che da tempo ormai non è più attaccato alla caviglia, accusando chi sta torturando dita dei piedi che a occhio e croce sono già putrefatte da anni.

Tutto questo mi fa pensare alle gravidanze isteriche di molte cagne che danno naturalmente latte per cuccioli inesistenti. Tutto ciò mi fa pensare a quanta sofferenza ci attraversa al pensiero di lesioni emotive legate a fatti ormai morti e sepolti, che appartengono ad un passato remoto che riaffiora sotto forma di dolore lancinante per qualcosa che non c’è più, amputato dal trascorrere inesorabile del tempo, un dolore per qualcosa di indefinibile sommerso dalla vita, un dolore per qualcosa che non c’è più e mai tornerà.

Come una gamba amputata, che mica ricresce. Ma non importa, perché la gamba sarà pure andata, kaputt, putrefatta mangiata dai vermi, ma il ricordo torna a galla, creando l’illusione ottica di una sofferenza profonda, la certezza che il dolore lo provi davvero nell’arto tagliato. Secondo me al tizio del plutonio la gamba gli faceva male sul serio.

Scendo dal treno a Firenze a farmi una Marlboro Light. Il salva schermo di Russel Crowe è cambiato. Adesso c’è l’immagine di un sub con le pinne in movimento con le bolle d’acqua che fanno splash, blob e plaf sul monitor del pc. Il passeggero ha sempre la barbetta del gladiatore, ma la sua faccia non sembra più quella di un kamikaze.

Il filtro delle Marlboro acquistate al duty free dell’aeroporto di Cancun è bianco. E’ sempre bianco il filtro delle Marlboro americane. Fumare sigarette con il filtro bianco è sempre strano. Non riesco a regolarmi su quanti tiri mi mancano per finire la sigaretta. Di fianco a me c’è una ragazza milanese che fuma anche lei. Il filtro della sua sigaretta è marroncino, sta fumando sigarette europee. Mi guarda con insistenza in viso, probabilmente vorrebbe che le rivolgessi la parola, ma non lo faccio. Mi guardo con insistenza le punte delle puma nuove, scamosciate gialle e grigie, manco fossi in cima alla piramide di Chichen Itza. Intanto passeggio in tondo di fianco al predellino del treno.

Ho sempre paura che mi chiudano fuori dall’Eurostar quando sto fumando alla stazione, per questo preferisco il filtro colorato delle sigarette, per regolarmi meglio su quando sto per finire. La ragazza bionda mi fissa, io guardo le mattonelle in terra. Lo faccio apposta di non lazare lo sguardo per guardarla negli occhi, ma il suo sguardo su di me lo sento lo stesso.

Stamattina in metropolitana a Milano ho fatto il mio gioco preferito. Entrare nel vagone ed evitare apposta lo sguardo della gente. Vince chi durante il tragitto riesce a non guardare nessuno negli occhi. In metropolitana è difficile, perché a volte lo sguardo della gente lo incroci anche se non vuoi. A volte, quando vivevo a Milano, entravo in metropolitana con gli occhi chiusi. Conoscevo a menadito la stazione di Lanza, quindi riuscivo a tenere gli occhi chiusi fino alla fermata di porta Genova.

Ala fine, a Milano è facile non guardare negli occhi la gente. Quando sei nel vagone della metro, basta che ti concentri a leggere trenta volte di seguito la pubblicità dei manifestini della fitness Conturella oppure dei corsi dell’Istituto europeo di design, appesi alle pareti e sei a posto. Poi, la gente si guardano tutti le punte delle scarpe e questo aiuta.

Il libro che mi è piaciuto di più in Yucatan è stato “La camera azzurra”, un romanzo di Simenon sul tradimento. Il protagonista ha un’amante pazza, o meglio pazza di lui, con cui si incontra di solito nella camera azzurra di un albergo; la relazione finisce in tragedia. L’ho letto tutto d’un fiato il romanzo, mi ha colpito molto e mi è venuto anche l’eritema solare leggendolo. Ero talmente immerso nella storia che mi sono dimenticato di mettermi la crema protettiva, il sole picchia di brutto nello Yucatan.

Gli hamburger dell’all inclusive erano spettacolari. Mi mancheranno. Anche la cerveza, una cerveza mas mi mancherà eccome. “Se non ci sei abituato a sbafarti tutto gratis non ti viene subito automatico”, diceva papà interista. Poco prima di partire mi sono fatto un triplo giro di margarita e tequila, per ricordo. Ci stava tutto, in previsione del viaggio di rientro.

La notte dopo aver letto “La camera azzurra” di Simenon ho fatto due sogni. Non sognavo da tempo, i sogni in un certo senso penso di averli evocati con le mie mani, dicendo piano fra me e me “cavolo, da troppo tempo non sogno”.

Primo sogno: c’è una cena, organizzata nel cortile di un palazzo. Ci sono lunghe tavolate strette, messe a ferro di cavallo. Finisco seduto a fianco di una donna sorridente. Indossa un top nero aderente. Sorride, le tocco i seni prosperosi, sodi, con pieghe di benessere all’altezza del costato. Ride di gusto, manco le avessi fatto il solletico. Poi, senza alcuna vergogna, si alza il top nero. Fa vedere i grossi seni, me li fa vedere sotto il naso. Sono strizzati in un grosso reggiseno nero contenitivo, che regge grazie a due sottili tiranti, fili neri che tengono su tutto. Lei ride. All’improvviso, un gruppo rock in mezzo ala tavolata inizia a suonare musica heavy metal assordante. I musicisti attaccano gli spinotti degli altoparlanti con un baccano feroce. Poco dopo, al terzo piano del palazzo di fianco una donna in camicia da notte bianca si affaccia, esce sul terrazzino e con voce acutissima urla di smetterla con le chitarre elettriche, che in quel contesto sono effettivamente fuori luogo. Mi alzo dalla tavolata e mi sposto in una vicina balera sotterranea. Underground.

Secondo sogno: sono in seduta. Di fronte a me c’è il medico. Di fianco a me, stranamente, c’è una coppia di persone. Inizialmente, stiamo insieme e parliamo a turno. Poi, il medico mi invita ad uscire. La coppia ha la priorità. Mi alzo senza protestare, esco e mi faccio un giro nell’appartamento. Non ci sono mai stato lì, ma di certo è la casa del medico. Vado in giro e guardo i libri nelle librerie. Poi, mi siedo in cucina. Mi sto rivestendo per andarmene quando il medico arriva in cucina e mi pala lì, offrendomi amichevolmente un caffè. Non è più il mio medico, in effetti, ma si è trasformata in un’amica con cui parlo tranquillamente del più e del meno in cucina.

Nello Yucatan abbiamo visto gi iguana. Sembrano grossi lucertoloni venuti su a proteine e palestra. Facendo snorkeling, che alla fine vuol dire infilarsi maschera e pinne e guardare sott’acqua, ho visto le tartarughe marine e ricci giganteschi, dieci volte più grandi di quelli di Moneglia. Al ristorante mi sono pappato una bistecca gigante, buonissima, sembravo Obelix.

Abbiamo conosciuto i pistoeisi. Una coppia di ragazzi che fanno gli infermieri. Quando penso a Pistoia penso subito allo zoo e alla maglia della Pistoiese, che è arancione. I pistoiesi sono belli, lei è giovane giovane, vuole tanti “figliuoli”, auguri e figli maschi come dice la “tu’ nonna”.

Di ritorno da Playa del Carmen, un posto per lo shopping a mezz’ora dal nostro mega resort cinque stelle all inclusive, ci mettiamo ad aspettare un “taxi collectivo”. Aspettiamo un po’, ma non arriva. Altra gente come noi aspetta. Una donna biondissima – notevolmente fica - ad un certo punto si avvicina a noi per domandarci se abbiamo voglia di “share a taxi”. Dividere un taxi normale, che ci riporti all’hotel. Ci ha riconosciuto dai braccialetti fucsia di plastica che portiamo al polso, che servono per identificare tutti gli ospiti dell’hotel.

Accettiamo e saliamo sul taxi di linea dopo aver concordato preventivamente la tariffa, che divisa per quattro risulta irrisoria. La donna fica bionda è con il suo uomo, sembra suo marito, che nel frattempo non ha aperto bocca, sembra imbestialito.

Il marito siede davanti di fianco al guidatore messicano. E’ apertamente accigliato. Io mi siedo dietro, in mezzo a Giusy e alla bionda, che continua spasmodicamente a starnazzare: “we have been waiting for a taxi for so long…..Thanks God you wanted to share a taxi with us, my husband was getting mad to wait such a long time for a taxi…”. In poche parole, la bionda fica canadese, tanto fica quanto logorroica, mi dice che stavano aspettando un taxi collectivo da almeno un’ora.

Aggiunge che da quando erano arrivati in Messico, cinque giorni prima su una settimana complessiva di vacanza, lei aveva fatto shopping tutti i giorni, trascinando con sé il marito che era arrivato al momento di non ritorno. Era incarognito come un lama che gli strizzano le palle. Non ce la faceva più, per questo era ammutolito. Venivano da Calgary, in Canada, dove ci sono state anni fa le olimpiadi invernali. Loro alla piramide di Chichen Itza non ci sono andati, in compenso hanno comprato più o meno una decina di sombreri rigidi originali.

Sono in stanza. Decido di uscire a fumare. Tengo in mano le sigarette, nell’altra l’accendino blu della Bic. Chiudendo la porta della stanza, avvisto un bacherozzo che cammina sul muretto fuori. Accendere l’accendino e dargli fuoco è un attimo. Ci vogliono un paio di secondi prima che l’insetto avverta il dolore. L’ho affumicato come dio comanda. Inizia a volare all’impazzata, sembra accecato. Sbatte ovunque, contro i muri rosso-arancioni. Mi accendo la sigaretta. Sento per l’intera durata della sigaretta il ronzio incessante del bacherozzo, che continua a sbattere contro i muri.

2 Comments:

At 5:27 PM, Anonymous Anonimo said...

...altro che "puma nuove, gialle e grigie, nei piedi a papera, piatti come le chiatte che avanzano lente e pigre piene di rifiuti sul Tamigi"...da oggi potrai sfoggiare le “all star con fiammata tricolore incorporata al fianco”…mica paglia. I piedi piatti si sentiranno a casa. Zanna

 
At 7:37 PM, Blogger talentaccio said...

belin, grazie zanna, me le sto per provare, grande le all star mi piacciono un sacco, mi sa che me le incarno, paolo

 

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