talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

01 aprile 2006

La regina del front office


Stamattina sono andato all’ufficio postale, il numero 21, quello di Largo Brancaccio. Sono andato lì, a cento metri da casa, per spedire due buste. Una piccola, già affrancata con posta prioritaria, l’altra grande, con dentro un dischetto e un foglio di carta. Sono entrato all’ufficio postale con in mano il sacchetto di carta grande, oggi ho portato al lavoro due quadretti di Kandinski da attaccare alle pareti della nuova redazione. Ho ritirato il numeretto, quello della fila giusta, servizi postali (l’altra boccuccia meccanica spara biglietti per i servizi bancari).

Alzo lo sguardo e non capisco subito quando sarà il mio turno, il display luminoso non indica una cifra vicina alla mia, sono il numero 51. Poi però capisco. La mia fila, quella dei servizi postali, è al numero 28. Devo aspettare 23 operazioni prima che arrivi il mio turno. Devo aspettare 23 operazioni per spedire due buste.

Mi siedo nell’angolo, in seconda fila, penso che sarà una cosa lunga ma ho già rimandato troppe volte questa tappa della mia personale via crucis quotidiana e per fortuna stamattina mi sono svegliato di buon umore e mi rendo conto che sono in condizione di aspettare senza crisi di nervi. Quindi, con santa pazienza mi siedo nell’angolo, vicino al tavolino dove la gente compila i vari formulari e cedolini classici delle poste. Ricevute con avviso di ritorno, telegrammi, vaglia, conti correnti.

Noto con un certo stupore che di sette sportelli aperti al pubblico, soltanto due sono riservati ai servizi postali, quelli per cui sono in fila io. Gli altri cinque sono a disposizione di chi deve fare operazioni bancarie o para bancarie, tipo ritirare la pensione o pagare la bolletta di gas, luce, acqua eccetera. Penso che la sproporzione è netta per un’organizzazione che si chiama Le Poste, che di suo, di core business come dicono quelli che scrivono le mission e le vision delle aziende, dovrebbe occuparsi di robe postali. Buste, lettere, robe di carta da spedire.

Però è soltanto una mia personale opinione, quella del core business delle Poste, ovviamente, io di mio non scrivo né mission né vision men che meno aziendali. Lì seduto, comincio a vagare con lo sguardo sul personale che sta agli sportelli, che si affacciano su un unico bancone blu. Sono tutte donne oggi, ma non sempre è così. Le due donne che si occupano dei servizi postali, ce le ho di fronte, le mie donne alla fine, sono molto diverse fra loro.

Una, la più scarsa che deve spesso chiedere aiuto alla collega anziana per espletare le sue mansioni, assomiglia a Floriana, quella del Grande Fratello, la versione anziana di Floriana però. Bionda tinta, capello lungo, marcato accento romanesco, jeans chiari attillati, maglione nero a collo alto, stivali a punta neri di pelle.

L’altra, quella anziana, è un’impiegata di lungo corso, si vede da come smista le buste e da come riordina i cedolini delle raccomandate con avviso di ritorno, che incomprensibilmente non sono poggiate sul tavolinetto rotondo riservato al pubblico degli utenti compilatori di moduli, davanti alle mie gambe, ma devono essere richiesti direttamente alle due vestali dei servizi postali, che le custodiscono gelosamente e le distribuiscono chissà perché contro voglia e dopo un severo screening facciale del richiedente, per lo più timido e spaesato, che dopo una rapida ricerca sul tavolinetto capisce che deve per forza superare la linea gialla di demarcazione che delimita lo spazio vitale dell’utente compilatore - sempre in attesa se si trova dalla parte sbagliata della linea gialla - dallo sportello infrangendo una regola non scritta ma in vigore impressa a fuoco nel dna della frotta di gente che sta aspettando avidamente il suo turno fremendo ad ogni sibilo del bip malefico che scandisce la successione della fila. La regola che se fai il furbo ti ammazzo.

L’altra è napoletana, capelli neri lunghi, sui 45 anni ma dimostra un’età indefinibile, perché lì dentro si vede che è un’anziana e questo ne modifica anche i tratti somatici, attribuendole attraverso la deferenza e il rispetto che le dimostra lo sguardo basso di Floriana un’aura di potenza assoluta anche agli occhi dell’attenta utenza. In quel momento, tu sei in balia di lei, dell’anziana, che controlla anche Floriana, il suo braccio destro, con il tuo numeretto in mano che dopo una decina di bip è già fradicio del sudore delle tue mani che fanno acqua da tutti i pori e anche dalle unghie.

La napoletana, a volte si alza dalla postazione, lasciando immobile l’avanzare lento della fila. Se lei non fa bip tu aspetti e puoi morire lì, nel tuo lago di sudore. E’ lei la dea assoluta della coda e lo sa, eccome se lo sa. A un certo punto arriva la barista del bar di fianco, con un vassoio stracolmo di cappuccini, brioches, succhi di frutta. Le due del servizio postale, Floriana e l’anziana, finiscono il giro con l’utente di turno e insieme si alzano e vanno a bersi il cappuccio nel back office, il retrobottega pieno di sacchi delle Poste italiane, che non sono più grigi con la banda tricolore ma gialli, in linea con il nuovo trend giovane delle Poste italiane, che dopo il cambio di branding delle vecchie Poste italiane punta su un’immagine giovane e telematica, privilegiando colori riconoscibili e ben assortiti, blu scuro e giallo canarino. Poste nuove, riti vecchi, a cappuccio finito, dopo una decina di minuti, le due vestali dei servizi postali tornano alla postazione spettegolandosi nelle orecchie e spruzzando a vicenda impercettibili residui gassosi di caffeina nei capelli.

Nel frattempo, al di qua della linea gialla la situazione si è fatta più complessa. In assenza delle vestali del tempio epistolare, un bel po’ di nuovi utenti sono entrati con il loro carico di pacchi e tic nervosi, invadendo senza ritegno il mio spazio vitale (sono seduto in una posizione poco tattica, molto vicino al tavolinetto per compilare le ricevute con avviso di ritorno, i vaglia postali e tutto il resto).

In particolare, a creare scompiglio arriva un sordomuto con sua moglie sordomuta, lui ha un ciuffo da competizione dietro, nei capelli dietro, sarà il vento forte che soffia su Roma, mentre il resto dei capelli è lisciato e impomatato. Non trova il modulo dei telegrammi, si avvicina allo sportello dell’anziana, urlando (a modo suo, è sordomuto, quindi al massimo sforzo di voce riesce a sussurrare) chiede dove sono i moduli gesticolando. La gente in coda al di qua della linea gialla è già pronta a scotennarlo lì, in tempo reale. Basterebbe un impercettibile cenno della vestale napoletana perché l’uomo, ma gli altri non sanno che è sordomuto, finisse sdraiato lì per terra, assediato da decine di mani che tentano di infierire sul suo volto coperto di sangue e saliva.

Ma l’anziana non fa alcun cenno, impercettibilmente si alza e per la prima volta supera il bancone verso il pubblico, scende fra noi, lasciando incustodito l’altare postale, fornito di bilancino, monitor del computer, salvaspicci, moduli e prezziari plastificati tutti appiccicosi (Floriana due minuti prima nel back office durante la simultanea pausa caffè ha rovesciato il suo cappuccino proprio sui moduli e sui prezziari dell’anziana, ovviamente per sbaglio, ma l’anziana l’ha punita urlandolo in pubblico, appena posato il fondoschiena sulla sua sedia reclinabile e molleggiata, il suo trono del front office, in modo che tutti noi, dall’altra parte della riga gialla, il solco tracciato sul pavimento grigio di linoleum per “tutelare la privacy” dell’utente allo sportello, potessimo sentire di cosa si era macchiata l’inesperta collega là dietro, fra i sacchi gialli delle Poste nel retrobottega dei misteri saffici delle Poste italiane di Largo Brancaccio).

La napoletana dà stizzosamente il modulo da telegramma al sordomuto, che comincia a compilarlo ma chiede aiuto a sua moglie perché non capisce se deve compilare tutto, fronte retro oppure se basta il lato A. Lo fa usando l’alfabeto dei segni, è nervoso, gesticola come un pazzo, sembra che si stia inghiottendo le dita chiuse come nel segno di “c’ho fame, dammi da mangiare”. All’improvviso, scontra il mio sacchetto con le cornici dentro facendolo cadere.

Non dico nulla, anche perché lui sembra non accorgersene, lo tiro su da solo il sacchetto cn i quadretti di Kandinski, ma si scatena un effetto domino inatteso, lì vicino al tavolinetto. Un’altra signora, che sta compilando un vaglia, rovescia l’espositore e tutti i moduli volano sul pavimento. La signora indossa un soprabito di plastica, mon boot di pelo verde, fuori fa un freddo polare, e si china per raccogliere la carta sparsa ovunque, mentre la sento digrignare contro il sordomuto (“mortacci sua”) che in effetti urtandola nell’atto di comunicare con la moglie a braccia spalancate l’ha spinta un po’ facendole perdere l’equilibrio e sbaffare con la penna la compilazione del suo modulo, che deve compilare daccapo, provocando così quel piccolo patatrac cartaceo. Il crollo dell’espositore di moduli pieno di vaglia ma carente di ricevute con avviso di ritorno.

All’improvviso siamo quasi al mio turno, sul display c’è il numero 48 che lampeggia rosso, ma tutto si ferma dopo una serie infinita di defezioni inattese e benvenute, accolte da una specie di ola da parte del pubblico al di qua della linea gialla (dal 35 al 47 almeno otto persone non si sono presentati all’appuntamento con Floriana o l’anziana). Floriana riscontra le defezioni a modo suo, aspettando un minuto e mezzo senza dire né fare nulla dal momento che fa bip e la pesa di coscienza definitiva che chi non si è presentato non ha più diritto di avanzare pretese perché lei ha fatto il suo dovere aspettando, e anche più del suo dovere, attendendo ottusamente che si materializzasse il legittimo proprietario del numeretto e titolare del turno. Ma Floriana è metodica, aspetta, si vede che le hanno detto di aspettare un po’ fra un bip e l’altro, intanto si lima un po’ le unghie quadratissime e sorseggia un Santal con la cannuccia, rispondendo a un sms, mentre dietro pressa il numero successivo, un maori di un metro e novantasette, che già incombe sul bancone dello sportello, come un cobra di Colle Ferro, di fronte a un’impassibile Floriana.

All’improvviso, a bloccare tutto il flusso ci pensa una tizia, sembra Loredana Berté, che senza chiedere il permesso a nessuno si getta allo sportello della napoletana, nell’interstizio temporale fra un utente e il prossimo bip per “chiedere soltanto un’informazione”, che si trasforma invece in un botta e risposta di dodici minuti fitti fitti. “E’ possibile inviare tre pacchi di libri con posta celere?”, chiede Loredana Berté. La vestale napoletana ferma tutto, scende dal trespolo, apre l’armadio a muro blu dietro di lei, prende un librone gigantesco, sembra un libro d’arte l’opera omnia di Giotto, e controlla. Dopo dieci minuti dice di sì.

Intanto, di fianco a me si è aggiunta una cinese con un cappello di lana, fatto a maglia, giallo e rosa. Guarda di fronte a sé con occhio vacuo, non riesco a capire cosa sta pensando, forse che l’ufficio postale di Pechino, sotto casa sua, è diverso, anche perché non credo che laggiù a Pechino espongano delle miniature delle buche delle lettere in vendita a 13 euro, che fanno bella mostra in triplice copia sopra all’armadio a muro.

Sul giornale di un pensionato arrivato dopo di me e seduto nella fila davanti alla mia (lui ha il numero 67 e si è organizzato per la lettura del Giornale, quello del fratello di Berlusconi) c’è scritto in prima pagina che Berlusconi vuole rimandare la fine della legislatura e in taglio basso che un frate ha violentato non so quante donne nel cosentino. Volto lo sguardo e vedo Floriana scartare un Mars e addentarlo con una certa violenza, dando l’ultima sorsata alla cannuccia del Santal. Arriva il mio turno, consegno le due buste, processate con maestria dalla napoletana, quella anziana delle due, che mi fa pagare un’integrazione di 90 centesimi per la busta grande, pesata con cura sul bilancino. Le dico grazie signora e me ne esco.

C’è un vento forte che spazza via Lanza, monto sul motorino bardandomi di tutto punto, metto le due cornici nel sacchetto sul poggiapiedi, e mi avvio al lavoro. In piazza Venezia c’è un altro tappo che mi blocca nella mia corsa al posto di lavoro, il vigile sulla piattaforma che dirige il traffico, un monumento vivente della capitale, un mito col basettone grigiastro iper-curato e i guanti lunghi che stanno benissimo con la divisa ufficiale della Polizia Municipale cittadina.

Aspetto altri cinque minuti che il vigile porti a compimento il suo show quotidiano, un bello spettacolo davvero, con quelle manine che dirigono autobus e auto con la leggerezza di un direttore d’orchestra che invita gli archi ad entrare in scena piano piano, parcheggio in tripla fila fra un’ape e una macchinetta elettrica posteggiate nella zona riservata ai motorini, e arrivo al lavoro, a Largo Argentina. Appendiamo le stampe di Kandinski al muro, dietro alle mie spalle, sfalsate in altezza per occupare più spazio visivo.

Oggi mi tocca andare in circoscrizione a vedere a che punto è l’iter del mio cambio di residenza, dovrebbe essere alla fine, il via libera i vigili di Trastevere me l’hanno dato tre mesi fa. Al lavoro, vicino all’ascensore, c’è scritto “non gettare per terra i mozziconi di sigaretta e quant’altro”. Mentre aspetto l’ascensore mi pongo due domande anzi tre: dove si gettano i mozziconi di sigaretta se non per terra? Cosa rientra nella categoria quant’altro, ma chi l’ha inventato quant’altro?