talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

25 luglio 2006

Zeligate


La mia dottoressa mi guarda negli occhi e scoppia a ridere di gusto. Una risata grassa, sembra obesa questa risata, come se a ridere ci fosse un elefante o un ciccione oppure uno tutto bocca. La bocca della mia dottoressa si allarga nella risata, si sbellica, sembra che stia per svenire dalle convulsioni, è tutta denti e niente guance, gli occhi strizzati per lo sforzo di tenere insieme la faccia. Poi, si asciuga le lacrime, sta piangendo, spegne la sigaretta, la solita MS rossa, quando vado in seduta lì in via Numa Pompilio se ne fuma almeno cinque, mi fissa negli occhi e mi dice: “Lei è proprio una sagoma, lo sa, soffre a tutti gli effetti della sindrome di Zelig”. Dovrei farle pagare il biglietto, sembra che stia al cinema.

La guardo interdetto, non ho capito niente, ma la sua risata è contagiosa. Sai, quando ridi ma non sai perché, soltanto perché un altro ride di fianco. Finiamo di ridere e le dico “scusi dottoressa, ma io questo Zelig non lo conosco”. Lei me lo dice chi è, poi aggiunge “prima o poi capirà meglio”.

Sono passati almeno cinque anni da quella risata mondiale, che secondo me in via Numa Pompilio vicino a Sant'Agostino nella stanzetta delle sedute, di risate così non se ne sono sentite mica tante dopo di me. La mia dottoressa non la vedo più da anni, anzi per la precisione da un anno, da quando qeust'estate sono tornato da lei di gran carriera, a Milano, zona sud, per un pronto intervento del cervello. Stavo per mollare mia moglie, non ero ancora sposato ma meditavo di non presentarmi all’altare, seriamente, avevo già tutto il piano del golpe in testa. Ma non è questo di cui voglio parlare. Voglio parlare di Zelig, di quella risata e del film di Woody Allen. Tra l'altro, a propristo di Zelig, quest'estate quando mi sono presentato dalla mia dottoressa a Milano pensavo di essere Alain Delon, nel film il Gattopardo, poi mi sono guardato allo specchio e per fortuna mi sono reso conto in tempo che non era vero. Cosa non si farebbe per rendersi interessanti. Pazzesco.

Il dvd di Zelig l’ho noleggiato l’anno scorso, in via Merulana. Adesso vivo a Roma con mia moglie, non l’ho mollata, non sono mica Julia Roberts in quel film che lei scappa sempre col vestito da sposa poco prima di sposarsi. No dai, non sono Julia Roberts, anche se un po' di profilo le assomiglio, da seduto però, che in piedi se va bene le arrivo all'ombelico.

Ho noleggiato il dvd di Zelig perché volevo capire meglio il motivo delle risate grasse di quel giorno, a Milano sud. Ora capisco di più, Zelig è un camaleonte, l’ho letto oggi in una recensione su internet. I camaleonti si mimetizzano, sono come la politica.

La scena di Zelig che più mi piace è quando Woody Allen parla con degli ebrei ultra ortodossi e così, mentre parla, gli cresce anche a lui il barbone lungo da rabbino. Si immedesima tanto nel ruolo che diventa come la audience che lo ascolta, un barbuto. Lui che è glabro più di Raffo.

Perché in vita mia mi rendo conto che sono sempre stato un voltagabbana professionista, un re del trasformismo inconsapevole, un maestro del doppio-triplo gioco. Talmente abile a mascherarmi che alla fine ho perso la mia identità e non la trovavo più. Era finita così lontano, là sotto, la mia identità che per trovarla ho dovuto fare degli scavi dentro di me che le trivellazioni petrolifere nel mare del Nord sono uno scherzetto per principianti del sottosuolo.

Ma andiamo con ordine, così posso raccontarvi la sindrome di Zelig e cosa significa per me aver finalmente capito cosa vuol dire e da dove viene questa strana cosa per cui ti continui a mascherare e cambi idea sempre e comunque a seconda della persona che ti sta di fronte. Perché non vuoi mai scontentare nessuno, allora fai sempre finta, per fargli piacere al tuo dirimpettaio. Come le pierre aziendali, che secondo me allo Iulm e alla Luiss e nelle altre scuole di marketing, anche alla Sda, dovrebbero fare sempre un corso monografico basato su Zelig. Basta che poi glielo dicono alle povere pierre, vittime di Zelighismo spinto senza saperlo, che è una finta. Zeligate in nome della vision e della mission. Ma non è questo di cui voglio parlare.

La prima maschera che mi sono messo in vita mia è stata quella del bravo bambino affidabile. E’ durata poco, anche perché i miei genitori non se ne accorgevano nemmeno che me la infilavo alla mattina. Però, mi è servita a scuola, dove almeno per un decennio, dalle elementari a tutto il ginnasio, questa maschera mi è servita parecchio a sfangarmela nell’età dai sei ai quindici anni. A volte me la metto ancora, ma adesso lo so che me la metto. Prima no, me lamettevo in automatico, senza saperlo.

Poi, è venuta la maschera del bel tenebroso, l’ho buttata sull’intellettuale per darmi un tono con le ragazze. Stavo sempre zitto, così pensavo di rendermi più interessante, anche perché la gente, soprattutto le ragazze (nella mia testa ovviamente, non so se è vero), di solito pensano che chi sta zitto è furbo e misterioso e affascinante. Chissà che cose geniali avrà da dire se uscisse dal suo riserbo, pensano le ragazze che sono regine di metafisica del bel tenebroso.

Così, la gente resta convinta che tu sei un genio, anche se non parli mai, anzi proprio perché non apri bocca. Le cose geniali te le mettono in bocca loro, ma alla lunga questa maschera stanca perché sotto sotto qualcosa da dire a volte ce l’avresti, ma sei talmente prigioniero del tuo personaggio e ti convinci che piaccia tanto agli altri il fatto che stai muto, che continui a tenerti questa maschera che quasi quasi ti si appiccica addosso talmente forte che poi per staccarla sono dolori. Peggio della ceretta a strappo o dell'epilady, me l'ha detto Julia Roberts.

Un’altra maschera, che mi sono tenuto addosso a sprazzi è quella del duro. Non è durata molto per fortuna, anche perché mi veniva male. E poi a botte sono un disastro. Poi, un'altra quella dell’impenetrabile. Mi ero talmente immedesimato nella parte, che oltre a non lasciare entrare nessuno dentro di me - nel senso che ero diventato più respingente di un guard rail in cemento armato - il problema di questa maschera era che formava una diga dentro anche verso l’esterno.

Così, non mi usciva niente da dentro, né di buono né di cattivo. Che in altre parole vuol dire che sei diventato così impenetrabile che nemmeno tu riesci a fare breccia dentro di te e non ti rendi conto di cosa stai provando e tirarlo fuori è davvero improponibile. Non sai mai se le cose che ti capitano sono buone o cattive. E' come se tutto ti scivolasse addosso. In effetti la tua scorza è diventata durissima e le cose come si suol dire ti scivolano sia da dentro sia da fuori. Sei blindato con quella maschera lì.

Da un lato, è una cosa positiva, perché sviluppi una profonda capacità di sopportazione al dolore (non te ne accorgi quando qualcosa ti fa male) però nello stesso tempo non riconosci nemmeno le cose buone. Insomma, questa maschera dell’impenetrabilità è un’arma a doppio taglio. Da una parte ti preserva dai colpi della vita, ma dall’altra non ti mette in contatto con le cose belle (non sei in grado di riconoscerle perché non le senti) e per paura di soffrire impedisci a te stesso di provare anche delle belle sensazioni.

L’effetto collaterale, quando ti togli questa maschera dell’impenetrabilità, è che sei completamente nudo di fronte a qualunque cosa ti possa capitare e in più non sei in grado di riconoscere le cose che ti fanno male da quelle che ti fanno bene perché non hai l’esperienza emotiva di nulla. Se ti impedisci di provare delle cose, buone o cattive che siano, allora il problema è che tutto ti sembra uguale, indistinto, indifferenziato. E’ come se uno avesse sempre mangiato tutto quello che gli mettevano davanti nel piatto senza l'uso delle papille gustative. Se a un certo punto riprendi a sentire i gusti, ecco che all’inizio non sei in grado di sentire la differenza fra una bella pasta all’amatriciana e un bel piatto di merda fumante. Il rischio è che ti intossichi un bel po’ di merda prima di capire che è velenosa. Ma stai sicuro che alla fine te ne accorgi, gli anticorpi non sono mica scemi.

Un’altra zeligata della mia vita è stata quella della maschera di Elvis. Solo, che quando me lo sognavo era sempre un Elvis vecchio, all’ospizio, che tra l’altro di sosia di Elvis è pieno il mondo. Penso che Elvis sia una delle maschere più imitate della storia, parlando di sindrome da Zelig. Tempo fa su Mtv ho visto un video di Robbin Williams che cantava una canzone fingendosi un sosia di Elvis e mi sembrava di essere tornato in uno dei miei sogni all’epoca in cui la mia dottoressa mi guardava e rideva in seduta. Elvis vecchio, con il naso camuso di un pugile suonato.

La mia parabola zeligante continua con una serie di personalità che ho adottato a sprazzi: il partner maschile di una coppia gay, ad esempio. A lungo mi sono vestito di nero, tutto attillato, sembravo il fratello minore di Freddy Mercury, senza baffi però. Non so perché lo facevo, anzi lo so ma non ne voglio parlare. Poi, mi sono travestito da Superman, ero giovane, adesso non lo rifarei. Salvare il mondo non fa per me, preferisco una bistecca al sangue da Sergio alle Grotte. Nemmeno i supe eroi fanno per me, sempre reperibili peggio del telefonino per salvare l'umanità. Poi, se sei Superman c’è sempre la kryptonite. Preferisco sapere come stanno le cose, anche se non sono sempre come le vorrei, piuttosto che farmi avvelenare dalla kryptonite, che in giro ce n'è tanta.

Mi ricordo una volta che ho sognato di essere Superman, volavo, poi uscivo dal fumetto e arrivavo davanti alla fermata della metropolitana di Lanza, a Milano. Era notte, tutto serrato con le grate e i lucchettoni. Cerco di aprire i cancelli, non ce la faccio e all’improvviso si apre una porticina, compare un nano, mi dice “Superman, devi entrare?”. Gli dico “sì”. Il nano mi fa “seguimi”, così entro da una botola. Se non era per il nano ero ancora lì, con i miei super poteri fasulli davanti alle grate e ai lucchettoni di Lanza.

Zelig, poveraccio, quello del film, è uno che non sa chi è e che per compiacere gli altri, a fin di bene, per farsi accettare dagli altri, si trasforma di volta in volta in quello che gli altri vorrebbero che lui fosse. Ma così facendo il povero Zelig si mostra di una fragilità colossale, come se per essere amati dagli altri fosse necessario cambiare se stessi, ma cambiare se stessi fisicamente. Io, di mio, lo facevo nei vestiti e nelle idee. Potevo cambiare il mio modo di pensare da un giorno all’altro come cambiavo le scarpe. Per dire, che un giorno ero di sinistra peggio di Caruso e il giorno dopo sembravo il figlio di Calderoli, poi diventavo nazista e il giorno dopo andavo a protestare davanti all'ambasciata americana.

Sinceramente, era un problema perché cambiavo idea un giorno sì e un giorno no e poi alla fine per compiacere gli altri era un gran casino, perché poi gettavo la maschera e la gente non mi riconosceva più. E nemmeno io mi riconoscevo, sarà per questo che passavo le ore davanti allo specchio per capire dov'ero. Poi non puoi piacere a tutti. Come quella volta che stavo con una di Gallarate, l’avevo conosciuta in gradinata, a vedere la Samp. Ci siamo visti qualche volta a Milano e sono andato da lei. Non sapevo che fosse la figlia unica di una famiglia ultra conservatrice, lei stessa si era travestita da ultras della Samp e faceva quella avanti, con la sciarpa e tutto il resto.

Quando le ho regalato il libro Afrodita, della Allende – un libro con ricette afrodisiache e molto piccanti – i suoi genitori mi guardavano male, non capivo perché, poi per l’imbarazzo ho rovesciato un bicchiere pieno di spumante sul tavolo di legno, macchiando la tovaglia buona e compromettendo per sempre il legno pregiato. I genitori guardavano senza dire niente. Non l’ho più rivista, tra l'altro il treno per Milano non arrivava mai lì alla stazione di Gallarate. Lì però non ero mascherato, le avevo semplicemente dato un bacio di buon compleanno, davanti ai genitori, ma non sapevo di trovarmi nel profondo nord più taliban dei taliban. Non mi stupisce che i satanisti vengano di là, con gente così cosa vuoi fare se non mascherarti da diavolo.

Poi, sempre a Milano mi ero travestito per lungo tempo da risorsa umana iper flessibile. Ma mi veniva male, facevo fatica. Anche quella maschera alla fine mi è passata dalla faccia, sinceramente non ci ho messo molto a buttarla via. Anche se a volte tutte queste maschere ti tornano in faccia senza che te ne accorgi. Te le trovi lì, sulla faccia, o almeno la gente le vede così, come le vuole vedere, e tu ci ricaschi perché pur di strappare un po’ di attenzione agli altri si fanno dei numeri fuori da acrobata se no non ti caga nessuno nemmeno di striscio. Come quelle volte che ti mascheri da uno che regge l’alcol, ma invece dopo due bicchieri ti viene sonno ma continui a bere per non fare la figura dello scemo.

O quando ti mascheri da tollerante, che fai finta che certe cose non ti danno fastidio, ma alla fine ti incazzi. Ho capito che è meglio incazzarsi e rimanerci male piuttosto che tenersi una maschera in faccia. Meglio non fare i fasulli che solo le pierre sono davvero capaci, è il loro lavoro loro e il marketing allo Iulm e alla Luiss e alla Sda, che la vision e la mission.

2 Comments:

At 3:12 PM, Anonymous Anonimo said...

Posso dirti che è simpaticissimo questo testo? hai una creatività che pare essere infinita. E uno se la ride, se la ride eccome. Complimenti.
Carlotta, ARPANet

 
At 3:28 PM, Anonymous Anonimo said...

Bellissimo Paolo, anche se da ex studentessa dello Iulm e pierre aziendale non dovrei dirtelo... solo ora mi fai venire degli strani complessi d'identità! Effettivamente nella vita quante zeligate facciamo o siamo costretti a fare senza nemmeno accorgercene??? Un bracio

 

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