talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

18 aprile 2006

Mail per George Dabbeliu


Il buco dell’ozono esiste, è arrivato pure in Piazza Argentina. Se avessi l’indirizzo di George Dabbeliu, oggi gli manderei una bella mail per dirgli che qua a Roma il buco dell’ozono eccome se esiste, checché ne dicano molti scienziati prezzolati della Casa Bianca. E sto buco mi ha rotto di brutto.

A Dabbeliu gli direi che invece di comprarsi l’ennesimo paio di durango laggiù in Texas, nell’outlet vicino al suo ranch che assomiglia tanto a Neverland, la casa di quel pedofilo del suo connazionale Michael Jackson – che in un ranch secondo me ci vivono soltanto dei lesionati al giorno d’oggi, non ci sono mica più i bufali o gli indiani, Dabbeliù. Comprati un appartamento in città, Dabbeliu, che tra le altre cose c’avresti anche da fare - Dabbeliu farebbe meglio a tirare fuori la Bic dal taschino del suo vestito stile cow boy del Marlboro country o del Denim che non deve chiedere mai, e mettere una firmetta sotto il protocollo di Kyoto.

Perché Dabbeliu, mi sono davvero rotto per colpa tua e del buco che stai pesantemente contribuendo a creare nell’ozono, te le Porsche Cheyenne che ci stanno in giro, per lo più alla guida di madri mashate di biondo che ingorgano il traffico per andare a ritirare i figli a scuola a Piazza di Spagna, di vivere in una città che negli ultimi mesi, con il clima impazzito e le buche che Veltroni si ostina a non vedere – si vede che quando va in giro Veltroni non è mai a piedi, sui sampietrini fra le pozzanghere - si sta trasformando sempre di più in una città tropicale come Bangkok.

Una metropoli asiatica, sembra Roma, dove a fare i miliardi non sono i pusher italo-thailandesi del turismo sessuale, come succede a Bangkok, ma le frotte di cingalesi che girano con gli ombrelli in tasca, pronti da estrarre alla bisogna, cioè un giorno sì e un giorno no, quando Roma si trasforma in un acquitrino. Chissà da dove li estraggono tutti questi ombrelli i cingalesi romani, per venderli quando arrivano i soliti scrosci d’acqua inattesa, che certe volte a Piazza Argentina sembra di stare a Sumatra dall’acqua che viene giù a secchiate. Secondo me, se li tengono nelle mutande gli ombrelli, quando c’è il sole, o embedded, da qualche altra parte, Dabbeliu, vedi che a te ci penso, ti scrivo in inglese, Dabbeliu.

Ma andiamo con ordine. Oggi, verso le 12.45 esco per la mia solita passeggiatina. Pausa pranzo. Vado a Campo dei Fiori, sempre la solita passeggiatina, sono un metodico autistico, mi sembro quasi un metodista del Minnesota, Dabbeliu. La solita camminata purificatrice, per sgranchirmi il cervello, che sto sempre ore e ore connesso al web, fra un po’ mi trasformo in un sito internet che cammina, mi ci mancano solo i pop up che mi spuntano dalle ascelle e i virus che rutto dopo la Ferrarelle. A volte navigo talmente tanto che mi sembra di avere il mal di mare, navigo talmente che mi sembra di andare alla deriva, senza bussola, in questa rete virtuale che mi sembra di andare in giro senza navigatore satellitare – svolta a destra, fra cinquanta metri a sinistra. Stop - in mezzo all’Oceano Indiano, mi sembra di essere quando vado su internet.

Ma torniamo al punto. Esco a Piazza Argentina dalla redazione, comincio a camminare, e dopo qualche metro, sto all’attraversamento verso Largo Arenula, comincia a pioviccicare. Non ci faccio caso, in questo periodo pioviccica spesso e non voglio rinunciare alla mia passeggiatina, l’ora d’aria è un momento catartico per uno che sta ore e ore in apnea dentro al suo pc. Quando mi tolgono la passeggiatina, bhè, divento nervoso, Dabbeliu, mi capisci vero Dabbeliu, e semmai fatti tradurre, ce l’avrai un traduttore lì al ranch.

Comincia a pioviccicare, ma vado avanti. Da notare che per me, che come molti altri metalmeccanici del web journalism (vedi che ti penso, Dabbeliu), farsi due passi fra sessantaduemila megabyte scaricati nel cervello e trentamila battute di articoli e pezzi vari ed eventuali scritti per sbarcare il lunario nel mare magno della flessibilità globalizzata, farsi due passi in santa pace, sotto il sole romano, è un piccolo regalino che mi concedo per resistere a tutte le frustrazioni che tu, Dabbeliu, tu e tutti i tuoi amici, ci imponete mentre fate shopping in qualche outlet texano.

Insomma, io lavoro perché tu ti possa comprare i tuoi vestiti alla texana, i tuoi bei durango, però tu devi fare in modo che non piova a tradimento qua a Roma, lo capisci o no? A metà di via dei Giubbonari, all’andata, comincia a piovere di brutto. E’ troppo tardi per tornare indietro, e come Ulisse mi spingo oltre, fino al panettiere solito, dietro Piazza Farnese, per comprarmi il solito pezzo di pizza bianca mortadella e provola, più un’acqua da 33 cl naturale, Nepi, costo 3.80 euro, anche se oggi me l’ha messo in totale a 3 euro, penso che si sia sbagliato, ovviamente sono stato zitto. La ruota gira, la ruota della fortuna.

Esco dal panettiere, e Dabbeliu, se non ti è venuto un coccolone è un miracolo, perché te ne ho mandate di ogni, Dabbeliu, pensavo a quelle tue camicie a scacchi, blu e bianche, che assomigliano tanto alla tovaglia della Gallina d’Oro, vicino a Termini, e ai tuoi occhi, i tuoi occhi vicinissimi che nemmeno Salvatore Bagni c’ha gli occhi più vicini di te, presidente dei miei stivali, che se ti calcolano il quoziente intellettivo, Dabbeliu, secondo me te la giochi con Flavia Vento (Flavia Wind, Dabbeliu, vedi che a te ci penso).

Tutto per dirti, Dabbeliu, che oggi a Roma in centro mi sono lavato dalla testa ai piedi e che la tua ostinazione a non sottoscrivere il protocollo di Kyoto inizia ad essere davvero molto irritante, considerato che scrivere sai scrivere, anche se dicono che sei dislessico, non è questo il problema. In fondo, una crocetta sarai in grado di metterla, visto che se continuiamo così il tuo amico Berlusca non ti può più invitare in vacanza in Sardegna, te e tua figlia, e che la tintarella al massimo te la potrai fare al solarium che c’è in piazza lì, a Villa Simius o dove c’è la villa abusiva del nostro premier maximo illustrissimo egr. dott. Cav. Perché pioverà sempre anche lì, in Sardegna, Dabbeliu, e tutti i turisti americani invece di venire qua in vacanza dovranno scegliersi un altro posto per andare a rompere i maroni alla gente, loro e le loro macchine fotografiche digitali e le loro pance che sembrano orsi polari che vivono a birra Bud pop corn e il loro classico percorso alla Dan Brown del Codice da Vinci, che si scaricano in digitale sulle loro Canon da seimila ram di memoria e quando entrano al Pantheon invece di guardare la cupola sono tutti lì a guardarsi la camera con l’adesivo americano appiccicato sullo zoom. Ma magari smetteranno di intasarmi Pascucci, sti americani, che quando voglio un frullato devo dribblare più americani che pozzanghere con tutti gli obesi che ci mandi in visita, Dabbeliu.

Sono arrivato all’altezza del Brek, Dabbeliu, che ero fracico d’acqua piovana grigiastra e marcia e mi ero mangiato una pizza bianca con mortazza e provola che sembrava che l’avessero centrifugata in una lavatrice Ariston o Rex, fai tu, e questo non è bello, Dabbeliu. Il buco dell’ozono mi rompe le palle sul serio, soprattutto se penso che oltre ai vari accattoni che mi devo sorbire in ogni caso nella mia passeggiatina quotidiana dell’ora d’aria che li devo dribblare anche quando c’è il sole – quello senza una gamba, che chiede una monetina per favore e soprattutto i mosconi in piazza Argentina: “Conosci Africa?”, “Conosci Greenpeace?”, che mi verrebbe da rispondergli “Ma tu lo conosci Donato Bilancia? è mio zio” - quando piove ci sono i cingalesi che ti dicevo prima. E i cingalesi sono una tassa, Dabbeliu, la tassa dell’ozono sono i cingalesi.

Arrivano a frotte, estraggono questa marea di “ombrellaaaa, ombrellaaaa, vuoi ombrellaaaa” e te li aprono in faccia. Secondo me, trasformano le rose in ombrelaaaa, con qualche strano rito vudù appena sentono arrivare due gocce d’acqua, e arrivano tutti i giorni, ci mancano i monsoni e gli alisei, Gorge Dabbeliu, e poi qua a Roma ci sarà la stagione delle piogge tropicali e sul Tevere ci saranno le chiatte attraverso il Mecong, come in Platoon, che vanno a sfociare dal tuo amico Paparazzinger, che sono sicuro che giocate insieme a scarabeo, via internet, dopo che tu sei andato a farti shopping all’outlet, tu e i tuoi durango con le cuciture che te le avrà cucite qualche sarto paraguayano clandestino che hai regolarizzato in mondovisione perché ti insegna lo spagnolo mentre ti cuce l’orlo della giacca.

Arrivo al Brek, fracico, entro per farmi un caffè e la barista dice: “guarda come piove, ma a me non me ne frega niente, tanto stacco alle otto”. Sguardi di odio puro la attraversano manco fossero raggi X, gli avventori, quasi tutti fradici – nessuno si ferma dai cingalesi, vogliono cinque euro per un ombrellino che dopo due volte che lo apri ti si sfalda fra le dita, ombrellini made in Taiwan assemblati a Piazza Vittorio, sotto casa mia – la trapassano da parte a parte, la fanno a fette con lo sguardo.

La barista si rende conto che ha avuto un’uscita infelice, ma invece di tacere rincara la dose: “Per me, può piovere fino alle sette e mezzo, tanto sto murata qua dietro, a sto bancone e preparare caffè tutto il santo giorno”. Poi scoppia a ridere, guardando la sua collega. Un avventore, fradicio, dalla faccia e dal vestiario ha tutta l'aria di un quadro intermedio del ministero, la guarda e le chiede: “a che ora smonti stasera?”. Lei dice “alle otto, perché?”. Lui dice: “perché ti vengo ad aspettare fuori e spero che c'è il sole e ti riempio di secchiate d’acqua, bella”.

Poi, usciamo, vorrei accendermi una sigaretta, ma la pioggia e l’umido, Dabbeliu, hanno bagnato la pietrina del mio zippo, che non si accende, così sono costretto a tornare indietro, in tabaccheria, e comprarmi l’ennesimo accendino, perché lo zippo è anti-vento, mica anti-pioggia, e da quando tu non firmi sto protocollo di Kyoto piove molto più spesso, il clima si sta tropicalizzando a piazza Argenitina, ma allora tu dovresti mandarmi gli accendini a casa, gli accendini anti- tropicalizzazione. Mi compro l’ennesimo Bic, settanta centesimi non preventivati, li scalo dagli ottanta che per sbaglio ho risparmiato a pranzo, e fatti due conti, Dabbeliu, settanta centesimi qua settanta centesimi là, c’ho più Bic io a casa che calzini lunghi tu, quelli che vanno bene per quando ti metti i durango, quelli belli piegati nel cassetto del tuo ranch texano, Dabbeliu.