talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

26 gennaio 2013

Ritorno a Marassi

Domani vado a Genova. Arrivo alle 13 e colgo l’occasione per tornare allo stadio, dopo secoli che non ci vado. Mi accompagna anche Lollo. Speriamo che sia una bella partita e che la Samp vinca lo scontro diretto contro il Pescara. Dopo la partitaccia di Siena, domani contano soltanto i tre punti.

Sono curioso di vedere i ragazzi dal vivo e di vedere che effetto mi fa tornare a Marassi dopo così tanti anni.

Stamattina con Pietro abbiamo passato due o tre ore a Colle Oppio ed è stata una mattina molto bella. Fa freddo, ma c'è un sole bellissimo. Pietruzzo ha giocato con un bambino, Andrea, hanno costruito una torre di sampietrini.

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20 gennaio 2013

E oggi a Siena si soffre

Oggi scontro salvezza contro il Siena. Partita difficile, scontro diretto, nella tana di mister Iachini che resterà sempre nel cuore di noi tifosi. Sono curioso di vedere l’atteggiamento della Samp. Sono queste le partite che definiranno il nostro cammino futuro in campionato. Fare punti sarebbe ottimo e tranquillizzante. Quello che mi auguro vivamente è non rivedere una partita come quella della Samp a Catania, quando abbiamo perso malamente 3 a 1 dopo essere andati in vantaggio.

E’ vero che quella è stata l’ultima partita di Ferrara in panchina, ma una ricaduta oggi sarebbe deleteria per il morale e la riacquistata fiducia dell’ambiente blucerchiato dopo l’arrivo con impatto molto positivo di mister Delio Rossi. Tanti i meriti del mister, in primo luogo aver recuperato gente come Palombo, De Silvestri ed Estigarribia.

La cessione di Pozzi al Siena è dolorosa e da tifoso dico che se mandi via un giocatore, con la rosa scarna della squadra che ci ritroviamo soprattutto in attacco – Maxi Lopez e Eder sono soggetti a problemi fisici in maniera costante – allora devi comprare un sostituto. Si fa il nome di Fabbrini, non so valutare, la cosa importante è che arrivi un sostituto.

Perché non riprendersi Zaza, 11 gol in B con l’Ascoli? Di fatto è un tesserato della Samp e allora riprendiamolo. Se penso che Piovaccari ce l’abbiamo ancora sul groppone, con maxi ingaggio che va in scadenza nel 2015, e che Piovaccari dopo il flop da noi ha fallito anche a Brescia e Novara e sta per tornare alla casella di partenza, il Cittadella, senza passare dal via con un ingaggio di 500mila euro all’anno, mi vengono i brividi.

L'andata contro il Siena è stata la prima partita che ho visto. Abbiamo vinto, grazie ad un guizzo da bomber di Maxi Lopez, che oggi non è stato ancora convocato - meglio così - e gol decisivo di Gastaldello su calcio d'angolo. Non è stata una partita facile, loro hanno fame di punti, se non vincono oggi il distacco diventa una voragine. Sarà un match durissimo, spigoloso e con Iachini in panchina sarà una sofferenza. Vergassola, poi, con noi ha il dente avvelenato. Meno male che Pozzi non è convocato.

Ieri ho visto un bel pezzo di Palermo-Lazio. Il Palermo nostra concorrente per la salvezza è riuscito a pareggiare, avrebbe anche potuto vincere con un po’ di fortuna. I rosanero sono rimasti dietro, per fortuna, distanziati per ora di 5 lunghezze dalla Samp. Ma li vedo in risalita. Saranno pericolosi fino alla fine. Miccoli è ancora forte, se penso che fu lui a fare la partita della vita a Marassi quando andammo in B, lui tifoso del Lecce, penso che dobbiamo mettere punti in cascina adesso per non trovarci nella mischia a fine campionato.

Dybala è forte, peccato che non l’ho schierato al fantacalcio, e dire che l’avevo messo ma poi ho cambiato idea affidandomi al solito Pandev. Speriamo che il macedone ricambi la mia fiducia in lui.

Menzione speciale per Sergio Floccari, attaccante di gran classe che ieri a Palermo ha fatto un partitone. Floccari nella Lazio è il vice-Klose. Lo ha sostituito degnamente ieri a Palermo, dove ha segnato, gli hanno annullato un gol bellissimo assolutamente valido – che compensa però il gol di mano segnato domenica scorsa contro l’Atalanta – e fa un movimento incredibile in attacco. Credo che uno come Floccari debba giocare titolare in questa Lazio. Credo che sia compito di Pektovic trovare una collocazione per Floccari in campo al rientro di Klose, perché rinunciare ad un giocatore così forte e in forma sarebbe davvero un peccato.

Floccari non sarà un bomber clamoroso ma è completo, forte di testa, ha un sinistro fulminante e svaria su tutto il fronte d’attacco. Dopo l’exploit di qualche anno fa nelle file dell’Atalanta non si è mai confermato ad altissimi livelli. Ma forse non è colpa sua. Magari gli allenatori a volte non capiscono che uno così comunque deve giocare anche se non segna gol a grappoli.

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19 gennaio 2013

Tutto su mio padre

Mio padre è morto più di un anno fa e penso a lui tutti i giorni. E’ più vivo che mai. Gli vorrei parlare tante volte e anzi gli parlo più ora di quanto non facessi prima, quando lo chiamavo e gli chiedevo “come stai?”. E lui: “Bah, da poveretto”. Dentro di me, gli parlo, e lui risponde, dentro di me c’è e mi parla sempre. E’ come se sapessi già cosa mi dirà, in molte situazioni. Soprattutto, parliamo della Sampdoria.

Ogni volta che parlavo con mio padre, prima o poi si andava a parare lì. Sulla Sampdoria. Era il nostro campo neutro, dove non eravamo quasi mai in disaccordo.

Quando avevo 11 ero in vacanza a Stroemma, la casa di campagna dei miei nonni vicino a Stoccolma. Mi ricordo che mio padre mi chiamava, sarà stato a luglio, per aggiornarmi sulla campagna acquisti della Samp neo promossa in serie A. Era l’era di Paolo Mantovani e il giorno che la Samp comprò Mancini pioveva. Ero in casa, squilla il telefono, e mio padre mi dice “Abbiamo preso Mancini, 4 miliardi”. Pioveva fuori, vedevo il cielo grigio nel giardino verdissimo. Ero senza parole, ho pensato che ci saremmo divertiti con Mancini in squadra. Mister 4 miliardi, Bobby Gol, il Bimbo. La sua fama lo precedeva e la Samp ci avrebbe dato molte gioie. Ed è stato così, tante gioie.

La casa di Stroemma era rossa, con gli spioventi. Come le case dei Loaker, una specie di baita svizzera, una stuga in piena regola, di quelle casette che gli svedesi hanno per le vacanze estive. C’era un cancello verde, di ferro, e un sentiero con una salita di ghiaia che portava alla casetta. Una veranda e poi la stanza di legno, con il camino, un divano letto e la tv. Un tavolo per giocare a canasta con le amiche di mia nonna. E i fornelli alimentati a legna.

Dietro alla casa c’era un praticello e il cesso. Una turca senza acqua corrente, una volta al mese venivano quelli del Comune a svuotare il cesso. Mi ricordo che con mio fratello ce la tenevamo il più possibile per non finire dentro a quel cesso tremendo, pieno di mosche. Era un modo molto democratico per condividere la nostra merda di famiglia, almeno sapevamo che in quel cesso ci andavano soltanto le persone di casa perché altrimenti non sarebbe stato tanto bello sentire quelle zaffate sapendo che non erano frutto della pancia del nonno, della nonna o della mamma. Per fortuna la pipì la facevamo all’aperto.

Mi sono sempre domandato perché i maschi fanno la pipì contro un albero. Potrebbero farla anche in mezzo al prato, ma di solito si appartano contro un muro o un albero o qualcosa di solido.

D’estate a Stroemma con mio fratello Lollo andavamo al lago a fare il bagno. L’acqua era calda perché il laghetto, si chiama Kruksjoen, era piccolo e si scaldava presto. Facevamo un sacco di tuffi dal moletto. Ma madre ci guardava. Aveva sempre paura che ci facessimo male tuffandoci. Non è mai successo niente di grave. Qualche culata qua e là. Ma niente di grave. Giocavamo a freesbee sulla battigia o a pac-man. Andavamo al lago in bicicletta. E lungo il tragitto spesso ci fermavamo a raccogliere i mirtilli. Era pieno di mirtilli e fragoline rosse.

Io e Lollo avevamo delle vecchie bici sgangherate. Un giorno sono sceso per il vialetto, ho preso troppa velocità e sono volato nel fosso. Mi sono fatto malissimo alle palle, sbattendo contro il ferro. Erano tutti preoccupati, ma era colpa mia. Non avevo frenato in tempo e mi ero ingarbugliato con il manubrio.

Dietro alla nostra casa c’erano tanti cespugli di ribes rossi. Poi mia nonna li puliva e ce li mangiavamo con il latte. C’erano dei secchi pieni di bacche, tanto che spesso li dovevamo regalare ai vicini perché se non andavano a male.

La stuga era davvero piccola. C’era la nostra stanza, dove io e mio fratello Lollo dormivamo in due lettini che stavano vicini a forma di L: Mia madre stava nella stanza grande, dove c’era il camino. I miei nonni, invece, ogni sera passeggiavano un po’ nel bosco per raggiungere una mini-dependance per dormire. Era bello accompagnarli a dormire. Mio nonno camminava con il bastone e io gli tenevo il braccio. Una sera è arrivata una volpe, lui l’ha scacciata con il bastone. Era piccola, magra e nervosa quella volpe. Quell’estate si aggirava nei giardini delle case della zona. A volte alzavi gli occhi e la vedevi lì, in mezzo alla boscaglia, che ti osservava da lontano.

Dopo l’estate, quando siamo tornati a Genova, è cominciato il campionato. Il primo gol in maglia blucerchiata che ho visto di Mancini è stato contro la Roma. Eo nella Nord, con mio padre, ho visto un lancio filtrante e il suo scatto a bruciare la difesa. Sull’uscita di Tancredi il Mancio lo ha bruciato con un rasoterra di destro. Uno a zero per la Samp, neopromossa terribile.

Mio padre è morto più di un anno fa, ma quando vado a dormire penso a cosa mi direbbe oggi. Rivedo gli eventi della giornata e li filtro con uno schermo immaginario, lo schermo di Bammaeo. Bammaeo è il soprannome che ho dato a mio padre, non so da dove arriva. E’ un suono che gli sta bene, senza spigoli.

Domani giochiamo contro il Siena, partita salvezza, chissà cosa direbbe della partita, se ci fosse so che la guarderebbe. E io me la guardo.

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Quando la Samp ha comprato Vialli, ero in Svezia per le vacanze estive. Non ricordo esattamente mio padre che me lo comunica, ma sono sicuro che è andata così. Mio padre che mi chiama, io che al telefono lo ascolto mentre mi aggiorna sulla campagna acquisti dei blucerchiati. Vialli-Mancini, i gemelli del gol. Eppure mi ricordo che all’inizio Vialli stava in panchina. Era magro, lungo, sbilenco. Una volta è entrato nel secondo tempo contro l’Avellino, la nostra bestia nera. La Samp non riusciva a segnare. Cross al centro e gol di testa di Vialli. Era entrato dalla panchina e aveva il nuero 15.

Erano ancora i tempi in cui i giocatori portavano i numeri da titolare, dall’1 all'11. Chi entrava era riserva, dal 12 al 16. Vialli quando cominciò la sua carriera portava spesso l’11, il 9 titolare era Trevor Francis. Mancini a un certo punto ha preso il 10, anche se sono sicuro che avrebbe voluto il 9. E ce l’ha pure avuto, il 9, ma non sempre, perché era un centravanti atipico.

Nel Bologna, l’anno prima di passare con la Samp, Mancini era il numero 9.

Grandi panchinari della Samp sono stati Marco Branca, Enrico Chiesa, Fausto Salsano, Maurizio Ganz.

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Di solito io e mio padre andavamo alla partita a piedi. Uscivamo dopo pranzo, verso l’una e un quarto. Scendevamo a piedi la scalinata di via Nizza e facevamo un pezzo a piedi fino a corso Torino. Se c’era il bus lo prendevamo, se no proseguivamo a piedi, lungo corso Sardegna. E Poi lungo il Bisagno.

Ci fermavamo spesso ad un vespasiano per fare pipì, vicino a Bisagno. Non avevamo sciarpe blucerchiate né segni di riconoscimento della nostra fede calcistica, eravamo talmente doriani che non c’era bisogno di farlo vedere in pubblico.

E poi al botteghino prendevamo due biglietti di gradinata Nord. Quella degli ospiti, a volte andavamo nei distinti. Ma dalla gradinata la partita si segue meglio, la prospettiva è migliore per capire le trame di gioco.

Se pioveva o c’era vento, il vecchio Marassi era una ghiacciaia. Ma non ci lamentavamo. Soprattutto se la Samp vinceva. Se perdeva muti fino a casa, eravamo in lutto stretto e osservante.

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Quando la Samp giocava in trasferta, ascoltavamo le cronache delle partite alla radio su Tutto il calcio minuto per minuto. Mio padre stava sdraiato sul suo letto e io mi mettevo in camera con lui. Mi ricordo che quando entrava mia madre erano guai, perché se per caso segnavano i nostri avversari, Bammaeo se la prendeva con lei.

Lollo intanto magari cucinava qualche dolcetto e ce lo portava durante il match. Se entrava e la Samp segnava, mio padre lo costringeva a restare in camera con noi: “Resta, resta porti culo!!!!!”.

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Mio padre aveva la fobia delle formiche. Sul terrazzo a Genova era pieno di formiche. Io e Lollo giocavamo a tagliarle a metà, le formiche, con dei vecchi pennini da stilografica presi chissà dove. Le tagliavamo in due e la parte della formica con la testa continuava a muoversi per un bel po’. Le formiche tagliate in due e mutilate sopravvivono, non muoiono.

Io e Lollo eravamo impegnati in questa crociata tremenda contro le formiche e ci sentivamo legittimati dalla fobia di mio padre, che in qualche modo legalizzava quella strage.

Se per caso le formiche trovavano un pertugio e penetravano in casa, erano dolori. Mio padre diventava matto. Ricordo sciami di formiche alla carica in cucina e mia madre che le sprayava, gassandole, perché se “le vede tuo padre è un dramma”. Ma intanto ghignava sotto i baffi biondi.

Mio padre aveva anche la fobia dei vermi. Sul terrazzo c’erano tanti vasi di piante e un giorno io e Lollo abbiamo riempito un vermetto di vermi e li abbiamo messi sotto le coperte, nel letto di mio padre. Quando lo ha scoperto è sbiancato. Noi ridevamo, crudeli e felici. Lui muto, poveretto.

Un’altra volta, mio padre era sdraiato sul suo letto. Io e Lollo lo abbiamo attaccato. Abbiamo cominciato a prenderlo a botte. Lui non reagiva così abbiamo continuato colpendolo sempre più forte. Avremo avuto 8 e 6 anni. Alla fine si è messo a piangere dal dolore, ma non ha mai reagito né si è lamentato. Dopo ci ha detto che era un esperimento, per vedere fino a che punto saremmo arrivati. Per fortuna ci ha fermati nostra madre, se no lo ammazzavamo di botte.

Un Gandi in via Trento 12, mio padre.

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Mio padre non era tanto alto, più o meno un metro e 73. Ha sempre avuto i capelli grigi, lisci, con la riga da una parte. Se li pettinava con cura e ogni mattina se li massaggiava con l’acqua mista a colonia 4711. L’ha talmente usata che a un certo punto gli sono diventati i capelli verdognoli. Mia cugina Giovanna gli ha detto di smettere di frizionarli con l’acqua di colonia. Così ha iniziato a usare un altro prodotto, che gli faceva diventare i capelli blu. Io lo chiamavo Blu Hair, sembrava un po’ Arnaldo Forlani nella capigliatura.

Di mattina mio padre si svegliava prima di noi, verso le sette. Ma lo sentivi subito ciabattare con le dottor Scholl’s in corridoio. Faceva talmente casino che svegliava tutta la casa. Poi, faceva le sue abluzioni con la 4711 e andava al lavoro.

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Lavorava sempre e quando tornava a casa aveva mal di testa.

Soffriva di emicrania e si doveva sdraiare a letto. Allora non potevamo disturbarlo.

Il mal di testa è una brutta bestia. La sua fobia, un’altra oltre le formiche, era che gli toccassimo la testa. E in effetti io ci stavo molto attento, perché se poi gli scoppiava il mal di testa andava fuori uso per ore. Doveva chiudere le persiane e stare sdraiato. Non penso che riuscisse a dormire. Stava lì, sperando che gli passasse.

Mio padre ha sempre avuto una salute cagionevole. Usava sempre la canottiera. Io non l’ho mai usata. Gli veniva sempre il raffreddore e quando starnutiva strombazzava di qua e di là, sei o sette starnuti di seguito, rumorosissimi, con annessi grugniti incontenibili. Lo stesso faccio io e la Giusi, mia moglie, si incazza, ma per me è questo il modo di starnutire, lo stesso di mio padre. Amen.

Mio padre non poteva bere tanto perché gli veniva mal di testa. Chiudeva sempre le finestre in casa, perché se no c’era corrente e se sbattevano si incazzava come Jena Pliski.

Quando guardavamo le partite in tv, diventava matto se mettevo i piedi sul tavolino. E se facevo il caffè dall’altra stanza mi urlava “Fallo grosso!!”. Origliava tutto quello che succedeva in casa. Sembrava che avesse un grosso orecchio con cui sentiva tutto quello che si diceva in casa e poi si intrometteva anche se si trovava dall’altra parte della casa. Sembrava che avesse una squadra di spie della Stasi in casa, con cui cercava di controllare tutto quello che gli succedeva intorno.

Era davvero molto attaccato alla sua famiglia. A modo suo, però era così.

D’inverno si metteva speso delle camicie di flanella a quadri. Tipo quelle dei cow boy, camicie da montagna. Anche io me le metto, la Giusi mi prende per il culo. Ma intanto a Natale me ne ha regalata una, almeno è di un colore che le garba. Ce l’ho addosso anche ora, mentre scrivo. E' blu, a scacchi. Me l’ha regalata per Natale. Bammaeo style.

Oltre alle canottiere, mio padre portava sempre dei pigiami Calida. Io ne ho ereditati un paio, indistruttibili, li uso ancora adesso, avranno trentanni ma sono intatti. Uno è bordeaux, l’altro marroncino chiaro con i bordi marrone scuro. Sembra la tuta dei personaggi di Spazio 1999.

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L’altra settimana sono andato a trovare mia madre a Genova. Nella libreria in camera di mio padre ci sono montagne di libri. Mi è caduto l’occhio su un libro vecchio, sulle tecniche di meditazione. La prossima volta che torno a Genova me lo voglio leggere. A volte ho problemi a dormire, di sera, e svuotare il cervello non è così facile.

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Quando la Samp ha perso la finale di Champions League contro il Barcellona, mio padre era distrutto. Siamo usciti da Wembley con mio padre in stato di choc. Quella volta gli sono stato vicino, perché era rimasto senza parole. Ero io che parlavo, riempiendo il silenzio. Mentre sciamavamo fuori dalla nostra sconfitta definitiva, a due passi dal trionfo, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta così vicini alla vetta, sono stato io a dirgli che belin, vaffanculo, "chissenefrega", almeno ce la siamo giocata sta finale. Senza di me sarebbe sprofondato. E invece no, siamo arrivati a Genova e la città era già tappezzata dai murales dei genoani. “Almeno qualcuno ha festeggiato”, ha detto mio padre. Era un Gandi, senza saperlo.

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Domani vado a Genova, per questioni di avvocato e condominio. Visto che è domenica, e che arrivo in tempo per andare allo stadio, ho chiesto a mio fratello Lollo se vuole venire con me. Vediamo cosa decide. Di solito, quando andavamo allo stadio con mio padre, Lollo non veniva con noi. Forse è venuto qualche volta. Non ricordo esattamente, però senza dubbio anche lui sapeva tutto della Samp, anche solo per osmosi, perché in casa parlavamo tanto di calcio.

La domenica, se non andavamo alla partita, ce la sentivamo per radio. E tutti i membri della famiglia, direttamente e non, erano coinvolti nelle sorti blucerchiate.

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Sul valore profetico dei sogni non sono un esperto, però ci credo. Se li sai leggere, i sogni ti possono dire un bel po’ di cose sul futuro. Intendiamoci, non sono una fattucchiera o un veggente, o cose così. No, dico soltanto che certi sogni sembrano anticipare quello che potrebbe succedere. Lo dico per esperienza personale, certe volte ho fatto sogni che poi si sono realizzati o che a distanza di tempo si sono trasformati in qualcosa di reale.

Ma non è questo il punto. Il punto è che quando mio padre è stato male ho messo mano ai suoi di sogni e sono rimasto colpito, per non dire sconvolto, dalla preveggenza dei suoi ultimi sogni. Ho scoperto che mio padre ha tenuto una raccolta di sogni lungo l’arco di tutta la sua vita. E gli ultimi prefiguravano in modo molto dettagliato la sua morte.

Nei giorni precedenti all’ictus che lo ha stroncato mio padre ha sognato di trovarsi in ascensore, con un vicino che durante il tragitto veniva colto da un ictus. Mio padre lo soccorreva e riusciva a riportarlo a casa sua, al secondo piano. Poi, rientrava in ascensore e ascendeva al sesto piano, dove c’è casa nostra. Nel tragitto, anche lui veniva colto da un ictus prima di arrivare in casa.

Insomma, questo sogno lo ha fatto qualche giorno prima di stare male. Non so che dire, lo ha scritto nero su bianco, lo ha sognato. Chissà cosa pensava dentro di sé, probabilmente sentiva che qualcosa non andava bene e il suo inconscio gli stava dando un messaggio nemmeno troppo velato.

Un altro sogno della vigilia dell’ictus vedeva mio padre in una campana di vetro, una sorta di bolgia, che piano piano era invasa dall’acqua se non ricordo male, spingendo tutti gli abitanti di quel mondo verso l’alto in cerca dell’ossigeno residuo. Mio padre e alcuni altri eletti si affrettavano verso l’alto, continuando a leggere dei libri, per sfruttare fino all’ultimo respiro a disposizione per accrescere la loro conoscenza intellettuale tentando così di esorcizzare la paura della fine imminente. Altri abitanti di quel mondo invece correvano su all’impazzata presi dal terrore e in maniera scomposta, con l’unico obiettivo di salvarsi anche a scapito di chiunque altro.

Un sogno claustrofobico e apocalittico, impregnato del pensiero platonico secondo cui il logos, l’intelletto, è l’ideale più alto dell’uomo fino alla fine. Ma è anche un incubo, dove l’ascensione verso l’alto è una fuga a tempo da una fine inevitabile, che si può raggiungere in diversi modi. E mio padre ha scelto di arrivarci godendo del suo intelletto, fino all’ultimo. Giù il cappello.

Un terzo sogno vede mio padre correre in macchina con a bordo degli amici di gioventù e un dottore, che gli dice di andare più piano perché sta guidando in maniera troppo avventata. Mio padre ignora la richiesta di questo dottore e continua nella sua corsa, correndo troppo e rischiando di uscire fuori strada ad ogni curva. La fine però è dietro l’angolo e il sogno è un thriller. Perché si intuisce che quella corsa potrebbe terminare con un incidente e il giorno dopo è arrivato l’ictus.

Non so che dire, questi sogni mi hanno profondamente colpito, anche perché li ho letti post mortem, anzi mentre era in coma in quei dieci giorni in cui è stato in rianimazione. Quando li ho raccontati alle mie cugine, Giovanna, Maria e Cristina, anche loro erano molto colpite.

Penso di non fargli un torto condividendo i suoi sogni con tutti quelli che vorranno leggere. E’ un lascito che vale la pena condividere, quello di un intelletto e di uno spirito molto brillante, di cui mio padre non era certo privo.

Mi sono sempre domandato perché mio padre fosse così entusiasta del fatto che io avessi intrapreso il mestiere di giornalista. E’ una cosa che mi ha sempre colpito questa sua positività verso la mia propensione alla scrittura. Scopro soltanto ora che anche lui, senza saperlo o senza rendersene conto, era un grande scrittore. Scrittore di sogni, ma cosa sono i sogni se non la nostra realtà più vera e profonda?

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Mio padre ha avuto diverse macchine in vita sua. La prima che mi ricordo, verso la fine degli anni ’70, era una Fiat 127 rossa a due portiere. Io ero piccolo, avrò avuto sui 6 o 7 anni. Una volta sono salito e mi sono messo davanti, di fianco a lui. Eravamo appena partiti in via Trento e io, non so perché, ho aperto la portiera mentre andavamo. Mio padre si è preso un coccolone e ha subito richiuso la portiera. Allora sulle macchine non c’erano ancora le cinture di sicurezza, ci siamo presi un bello spavento.

Un’altra volta, mi ricordo che era domenica e pioveva. Avevamo deciso di andare al cinema di pomeriggio, a vedere un film di Lupin III. C’era anche mio fratello Lollo e una nostra amica, Maria Rosa. Però, quando siamo arrivati al cinema mio padre si è accorto che non aveva il portafoglio con sé . E’ stata una grossa delusione, ci siamo rimasti tutti male per primo mio padre. Però a volte era un po’ sbadato.

Altre volte con la 127 andavamo di domenica a fare una gita a Creto, un posto nell’entro terra di Genova dove facevamo un pic nic. Il pic nic della domenica, ci portavamo il freesbee e il pallone e sul prato di Creto passavamo dei lunghi pomeriggi. Il mito di Creto era la salita che portava al nostro posto, al nostro Prato.

C’era una serie di tornanti e in macchina spettavamo sempre di arrivare alla curva dove c’era una piccola moto di marmo, in ricordo di un povero motociclista che l’aveva presa troppo forte ed era morto lì. Ogni volta, mentre ci avvicinavamo alla moto, rievocavamo il povero motociclista e ogni volta che ci passavamo davanti, alla moto di marmo, gli facevamo una preghierina alla memoria.

Prima della 127 mio padre aveva avuto un maggiolino rosso della Volkswagen. Mi diceva sempre che ce l’aveva quando viveva in Svezia con mia madre e che d’inverno doveva montare gli pneumatici con i chiodi. Tra l’altro, anche mia zia Anna aveva un maggiolino, beige, ma a Genova ovviamente. Tutto il quartiere la conosceva mia zia Anna perché guidava come un cane lentissima e per fare un parcheggio praticamente bloccava il traffico in zona per mezzora. Non so come faceva a parcheggiare perché lo sterzo di quel maggiolino era come quello di un trattore.

Dopo la 127, mio padre si è comprato una Golf 1100 blu a quattro porte. E il porta sci, per le nostre domeniche a Limonetto, Limone, Artesina, Prato Nevoso e posti assurdi tipo Zum Zeri. Li abbiamo provati tutti, i posti dove si arrivava in giornata. Due panini e via. Mai una sosta in baita, belin, da morire certe volte.

Dopo al Golf blu, si è comprato un’altra Golf, 1300 bordeaux, con l’autoradio, così quando tornavamo da sciare si sentiva le cronache delle partite. Per fortuna non siamo mai stati costretti a montare le catene perché mio padre non era per niente manuale. Anzi, era davvero incapace manualmente, e io non sono da meno anche se mi sforzo un po’ di più.

Dopo la Golf bordeaux, è cominciata la fase della Lancia. La prima è stata una Lancia Prisma blu, 1300 a quattro porte. Poi, una Prisma bianca. Poi la Dedra e l’ultima una Lancia Delta 2000 di cilindrata, una scheggia fenomenale attaccata al terreno.

Io di mio in vita mia ho avuto una Polo blu, che mio padre mi regalò nel 1999 quando vivevo a Milano. Ottima macchina, Volkswagen. Da quando sono a Roma vado in giro in motorino.

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Una volta con la Dedra abbiamo fatto un lungo viaggio da Genova fino a Stoccolma. Erano i giorni prima di Natale. Io avrò avuto 22 o 23 anni. In macchina c’era anche mia madre e mia nonna, Lilly, la madre di mia madre che era venuta in visita da Stoccolma a Genova. La riportavamo in Svezia in macchina. Un viaggio lungo, almeno due giorni di viaggio con sosta notturna necessaria in Germania.

Per farti capire chi era mio padre, basta dire che alla partenza, senza rendersene conto, ha buttato via la cartina dell’Europa insieme alla spazzatura. Ce ne siamo accorti al confine con la Svizzera, se non ricordo male, quando mio padre mi chiese di prendere la cartina per dirgli dove doveva andare. Gli ho detto che la cartina non c’era e allora lui si è ricordato di averla gettata nel cassonetto ancor prima di partire.

Mia nonna e mia mamma dormivano dietro. Io davo il cambio a mio padre. Eravamo partiti un po’ alla ventura, senza grossi preparativi. Quando siamo arrivati in Germania, sull’Autobahn, il tempo era brutto e a Francoforte nevicava. Era buio e alla stazione di benzina abbiamo pensato di mettere l’antigelo nel radiatore. Abbiamo aperto il cofano e mio padre ha tolto il tappo, che gli è scivolato dentro al motore. Il tappo era perso nei meandri del motore, eravamo in Germania, era buio e nevicava sull’Autobahn. In macchina c’era mia nonna ultra settantenne e mia madre alquanto nervosa.

Abbiamo messo l’antigelo e uno straccio nel serbatoio e abbiamo ripreso il viaggio, con la paura che succedesse qualcosa di strano al motore. Siamo arrivati in un paesino lungo l’Autobahn e abbiamo dormito lì. Il giorno dopo, siamo andati in cerca di un rivenditore Lancia che ci ha fornito il tappo giusto e poi piano piano siamo arrivati a Stoccolma. In Danimarca ho guidato io, dopo il mega ponte che arriva dalla Germania. E’ una tavola piatta, la Danimarca, e poi a 110 kmh fino a Stoccolma.

Una sfacchinata mica da ridere. Quando siamo arrivati in Svezia, nevicava di brutto e noi avevamo i copertoni da città. Per fortuna siamo arrivati sani e salvi. L’ultimo intoppo è stata la portiera della Dedra, che si era ghiacciata e non si chiudeva più. A un certo punto siamo riusciti a chiudere e l’abbiamo lasciata parcheggiata ferma per tutto il tempo che siamo rimasti in Svezia. Del ritorno non ricordo nulla ma immagino che sia andato tutto bene, altrimenti me lo ricorderei. Di certo la Dedra non dà il suo meglio d’inverno oltre il confine delle Alpi. Ma mio padre come faceva a saperlo?

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L’altra settimana a Genova mio fratello tirava fuori alcune cose su mio padre. Alcuni mantra. Quando sentiva che in cucina stavamo per preparare il caffè, dall’altra parte della casa partiva l’immancabile urlo: “Fallo grosso!!!!!”. Quando stava per piovere o quando c’era vento: “Chiudi, chiuuuuudi!!!!!”. Ovviamente le finestre, perché se sbattevano diventava matto. “Poi c’era la paranoia dei piedi sul tavolino, mentre guardavamo la tv. Diventava matto se li mettevamo sul tavolino, e per questo o io o mio fratello Lollo glielo facevamo apposta di metterli sul tavolino, i piedi.

Con la sigaretta in mano, io, mio fratello o mia madre, mio padre cominciava a incazzarsi: “La cicca, la cicca!!!!!”. Quando litigava con mia madre: “E’ tragicomico!!!”, con risata ironica annessa e urla da orango. Poi, quando si incazzava, si dava delle sberle devastanti sulle cosce, spesso e volentieri nude perché amava andare in giro mezzo nudo e in mutande, quando stava in casa.

Quando starnutiva, sembrava una tromba d’aria: “Ueeesh, ueeesh, ueeesh, ueeesh…..argh…..uesh, ueeesh, ueeeesh!!!!!!”. Di solito erano delle raffiche di starnuti, cinque o sei di fila, poi si soffiava il naso come un trombone. Un tratto che ho in qualche ereditato da lui e che mia moglie mi contesta. E che in qualche modo ha ereditato anche mio figlio, scherzi del Dna.

Altre cose, le forme di formaggio che si mangiava intere, a mani nude, spesso senza pane. Il modo di mangiare le pere e le mele, mordendo la mela e sputando nel piatto la buccia. Lo stesso faceva con l’uva, molto oxfordiano. I cavoletti di Bruxelles, ne mangiava quantità industriali, che impuzzavano tutta la casa. La fobia delle briciole e delle formiche.

Le tirate contro mio fratello e contro di me, considerato un minus habens. Il cambio di reputazione e status dei suoi figli a seconda del lavoro che stavano facendo. Appena facevamo un lavoro che lui considerava buono salivamo nella sua scala di valori di diversi scalini. Idem se facevamo un lavoro che lui non considerava adeguato, degno o abbastanza figo.

Le montagne di puffi in regalo che ci portava quando andava in trasferta di lavoro ad Hannover. I regali che ci faceva, per lo più omaggi aziendali. La quantità enorme di libri che aveva in casa, fra Meridiani e Einaudi. La musica classica che ascoltava il sabato mattina, a palla. Le domeniche mattine passate a vedere la prima manche di qualche slalom speciale di coppa del mondo, lo sport in tv e i film su Sky. Le domeniche con tutti i miei amici che venivano a vedere la Samp o qualche partita su Sky. Tutti i miei amici che appena entravano in casa si toglievano le scarpe, perché lui rompeva le palle, bonariamente, ma rompere rompeva.

Le serate davanti alla tv, veniva anche la zia Anna, a guardare gli sceneggiati come Michele Strogoff, Il ritorno dei tartari, Sandokan. I varietà con Amanda Lear. La Rai quando ancora non c’era Mediaset e la pubblicità non esisteva. Il Secolo XIX in casa e sempre l’Espresso, che gli arrivava in abbonamento. Mario Segni e Nick Zanone, Zanone gol, e le gite che facevamo a Montecarlo, per andare all’acquario, e a La Turbie a mangiare le lumache, con il cucchiaione per le escargot, le grotte di Toirano.

D’estate andavamo al mare a Moneglia. Il momento clou, dopo Riva Trigoso, erano le gallerie per arrivare a Moneglia. Una decina di gallerie strettissime, si passava a senso unico alternato, il semaforo durava tantissimo perché prima dovevano arrivare tutte le auto dall’altra parte. Certe volte non aveva voglia di aspettare e passavamo con il rosso, gli piaceva il rischio, l’azzardo nel suo piccolo.

La galleria degli orsi, a Livigno, battezzata così perché i ventilatori nel tunnel facevano un rumore sordo, che aumentava sempre più man mano che ci avvicinavamo alla metà della galleria. Io e mio fratello avevamo un po’ paura, anche se sapevamo che era uno scherzo. I doganieri svizzeri alla frontiera, le paste ai mirtilli a Pontresina, le gite al lago Maloja dove raccoglievamo mirtilli, e quella volta che ho perso un pallone super tele nel lago, e lo abbiamo visto galleggiare sempre più in là, sempre più irraggiungibile, e che abbiamo fatto tutta la passeggiata intorno al lago per recuperarlo, ma era impossibile, e lo vedevamo sempre più lontano, fra i surfisti del Maloja. E ogni volta che tornavamo lì mio padre che diceva “Andiamo a cercare il pallone”.

Il prato dei pic nic vicino al Morteratsch, dove da piccolo mi mettevo in piedi su un masso e dicevo “Sono il re del mondo” e mio padre diceva sì, sei il re del mondo. E poi ci mangiavamo il nostro panino con la bresaola di Livigno. Quella volta che con mia cugina Cristina siamo andati al planetario di Lucerna e al ritorno siamo arrivati troppo tardi alla frontiera della Forcola, che ad una certa ora chiudeva, e allora siamo andati a dormire in un albergo in Svizzera. Le sciate al Diavolezza, d’estate. Il portasci sulla Golf. I pizzoccheri, la pizza Steinbock, all’hotel Steinbock di Livigno. Le Olimpiadi in tv, d’estate, Sara Simeoni e mio fratello che faceva il salto in alto per finta sul letto e diceva Bikova, Kostandinova.

Mio padre che gioca a poker con i miei cugini, nella saletta, con le fiches sul tavolo. E quei maglioni tirolesi che si comprava al negozio “Moda Giovani” di Livigno. L’hotel Lanz a Livigno, dove mi portò con mia madre nel 2000 per una settimana bianca, ma ormai non sciava più. I suoi Blizzard blu, un metro e ottanta, quando andavamo a Limonetto, e la sua tuta Benning, blu scuro. La Nivea che si spalmava e la neve che si metteva in faccia per abbronzarsi a sciare. Le risalite in skylift e in seggiovia.

Quando arrivavamo a Moneglia si spogliava e senza nemmeno l’asciugamano davanti, in spiaggia fregandosene di chiunque altro, si metteva il costume. E poi nuotavamo fino agli scogli e ritorno, “Attento ai ricci!!!!”. Poi si spalmava di crema e diventava rosso come un peperone. “Mettiti la crema, così ti abbronzi anche tu!!!”.

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A mio padre piaceva l’azzardo. Era uno che amava il rischio, quando c’era di mezzo qualche bluff ci sguazzava dentro, non perdeva occasione per provarci. Si creavano situazioni molto complicate e quasi pericolose. Ogni anno andavamo in vacanza a Livigno. Il viaggio era lungo, almeno sei ore di macchina da Genova fino in Valtellina.

La macchina era carica di bagagli, ci portavamo anche gli sci per andare a sciare al Diavolezza. Era bello arrivare a Como, costeggiare il lago, di solito erano giornate estive molto soleggiate e piene di luce. Mio padre parlava di quel ramo del lago di Como, poi attaccava la solfa dell’orrido di Bellano, lo strapiombo più profondo della terra. Io e mio fratello, avevamo otto e dieci anni, ascoltavamo un po’ impauriti ma in fondo ci godevamo il viaggio. Mia madre dormicchiava.

Verso Como o Lecco ci fermavamo da qualche parte, in un prato sulla strada, per fare un pic nic e spezzare il viaggio. Mia madre preparava sempre dei panini, li metteva nella borsa rigida Jo Style, quella con il ghiaccio secco dentro, e così il pic nic era servito e si entrava già in clima vacanze, visto che il pic nic era un rito fisso delle nostre gite quotidiane in montagna.

Prima di partire per Livigno, mio padre faceva il pieno di benzina a Genova. Quando arrivavamo a Como, metà serbatoio era andato. Il problema è che lui non faceva più benzina. Aspettava. Mentre guidava teneva sotto controllo la lancetta della benzina e non diceva niente. Guidava. Più si andava avanti e più la lancetta calava. Io stavo seduto davanti, vedevo la lancetta, e più avanti, verso Chiavenna, cominciavo a dirgli dobbiamo fermarci dal benzinaio, siamo quasi a secco.

Mio padre faceva lo gnorri. No, vedrai che ce la facciamo, non c’è problema, non siamo nemmeno in riserva. Così andavamo avanti, con il serbatoio che si svuotava e la preoccupazione in macchina saliva. Avevamo paura di restare senza benzina, magari su qualche tornante in salita, sperduti nelle montagne, a chilometri dal prossimo centro abitato. Mia madre cominciava ad agitarsi, dietro. Lui continuava imperterrito a guidare e ci prendeva gusto.

Andava più piano per consumare meno. “Dai che manca poco, guarda che bel panorama!! Che aria fresca!!”, diceva quando arrivavamo in riserva in cima a Tre Palle, il comune più alto d’Italia, da dove comincia la discesa di tornanti a gomito che porta a Livigno. “Se non c’è più benzina, metto in folle così non consumo benzina”, diceva. Voleva a tutti i costi arrivare a Livigno senza fermarsi al distributore, per fare il primo pieno di benzina più a buon mercato, visto che lì è zona franca e il carburante costa meno. Mia madre diventava una iena.

Le discese da Tre Palle si trasformavano per noi altri della famiglia in un misto di maledizioni verso mio padre e di preghiere perché Dio ce la mandasse buona e la benzina bastasse fino all’arrivo in paese. Calava il silenzio e mio padre si concentrava su ogni tornante per minimizzare il consumo di carburante. Mio padre sotto sotto se la rideva, lo faceva apposta per menarcela e ci riusciva benissimo. Noi tutti avevamo a quel punto l’occhio fisso sulla lancetta della benzina sul cruscotto, oramai ben al di là dell’ultima tacca, e sulla spia rossa della Golf che si accendeva quando entrava la riserva.

Da quanto mi ricordo ce l’abbiamo sempre fatta per il rotto della cuffia. Appena arrivati a Livigno, dopo sei ore di viaggio, si fermava dal benzinaio e faceva il pieno come se niente fosse. Noi lo mandavamo a quel paese, anche perché oltre alla spia della benzina, quasi sempre si accendeva qualche altra spia durante il viaggio, che ci accompagnava lungo tutto il percorso, spie che non si accendevano mai quando eravamo in città. Ma che appena partivamo per le vacanze prendevano vita.

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D’estate ogni anno andavamo sempre in gita in Austria. Una tappa fissa era il negozio di giocattoli a Landeck. Io e mio fratello ci pregustavamo la gita a Landeck mesi prima delle ferie, perché in quell’occasione mio padre sciallava e ci comprava tutto quello che volevamo. Nei limiti, ovviamente. Un anno io e Lollo ci siamo comprati dei robot, uno nero e uno bianco, con le calamite negli arti, che si potevano agganciare a mo’ di centauri su cavalli annessi. Fu un regalo memorabile, ci abbiamo giocato fino allo sfinimento.

Altre tappe fisse erano la piscina all’aperto di Martina, dove mio padre intavolava conversazioni in tedesco con la cassiera. Gli piaceva parlare in tedesco quando andavamo in gita, anche se in Svizzera gli parlavano in svizzero-tedesco, che è diverso, e lui la menava su questa cosa. Poi c’era la pasticceria di Pontresina. Ci andavamo a sbafare paste buonissime alle more, ai lamponi e ai mirtilli. Erano buonissime, ma c’era un problema.

Mio fratello Lollo ha sempre sofferto la macchina. Per questo si sedeva dietro, con mia madre di fianco che teneva un sacchetto in mano in caso di voltastomaco. Le strade ovviamente in Engadina sono zeppe di tornanti. Quando uscivamo dalla pasticceria, Cominciava il toto-vomito. Lollo poveraccio era goloso, quindi mangiava paste a tutto spiano.

Andavamo a vedere le marmotte, poi ricordo che Lollo cominciava a stare male verso la Forcola e una volta ha vomitato tutte le paste di Pontresina, una scia rossastra di more selvatiche, dal finestrino della Golf, fuori. Eravamo in mezzo al paese, a Livigno. Praticamente stavamo andando a passo d'uomo. Mio padre urlava “Apri il finestrino!!!!” e Lollo cacciava tutto quello che aveva in corpo con mia madre che lo teneva. La cosa strana è che anche Pietro, mio figlio, soffre la macchina e sembra Lollo. Si vede che che è suo zio.

Un’altra volta, Lollo aveva resistito fino all’arrivo in via Trento, dopo un qualche viaggetto in macchina. Appena parcheggiata la macchina, Lollo è riuscito a cacciare tutto in macchina con un tempismo perfetto. Mia madre era contenta. “Così impari e la prossima volta di fermi”. Mio padre stava zitto oppure parlottava fra sé: “E’ tragicomico!”.

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Le mise di mio padre erano piuttosto fisse e cambiavano a seconda delle stagioni. Quando tornava a casa si metteva per così dire in désabillé, in boxer e canottiera. Poi, immancabile il Calida come pigiama. Ne ho ereditati due, che uso ancora adesso e per i quali la Giusi mi maledice perché secondo lei sono dei pezzi da museo, anche se in realtà sono assolutamente intatti, neanche un buchetto. A dimostrazione che la buona qualità paga.

Uno è bordeaux, ce l’ho addosso anche adesso, mentre scrivo. Sono le 2,13 di mattina e non riesco a dormire. L’altro è marroncino chiaro, con i bordini marrone scuro anche sul taschino. E’ questo che solleva di più le ire di Giusi, perché è quanto di meno sexy si sia mai visto in una camera da letto. Detto questo, è il mio pigiama preferito. “Ce ne fossero pigiami così”, direbbe mio padre. E sono d’accordo.

Spesso andava in giro per casa nudo, con soltanto gli zoccoli addosso. Non mi dava alcun fastidio, ci ero abituato.

Un altro capo di abbigliamento suo, che ho usato fino al logoramento, è un Duffelcoat color cammello, con gli alamari di corno. Era un classico, chissà che fine ha fatto. Avevo dovuto metterci una toppa perché si era bruciato, sarà stata una sigaretta.

Altri capi di vestiario classici di mio padre, un maglione grigio tirolese, con i bordini rossi e i bottoni d’argento. Lo portava sempre. Poi le Church e le Rossetti. E un sacco di vestiti eleganti per il lavoro, penso che ci tenesse visto che lui tutti i giorni giacca e cravatta.

Ultimamente sto usando spesso una giacca di Cabrino sua, di caschmire, bluette. E’ l’unica giacca che mi metto volentieri, sta bene anche con i jeans. Nelle mezze stagioni usava l’impermeabile, Burberry, mentre non l’ho mai visto con un cappello in testa, a parte quando andavamo a sciare e faceva troppo freddo per stare senza. Soffriva di mal di testa quindi non si metteva mai nulla sul capo.

A volte a sciare si metteva delle fasce di lana in testa, per coprirsi le orecchie, erano un po’ ridicole a ripensarci, ma lui se ne fregava. Negli ultimi tempi usava spesso un maglione giallo, girocollo. Nei weekend, quando non doveva lavorare, si metteva casual e ha avuto diverse paia di Adidas, quelle bianche con le strisce blu, e le Timberland con il carro armato sotto.

Tutto sommato stava bene quando era vestito elegante, era un uomo piacevole. In certe foto assomigliava parecchio ad Al Pacino come tipo, Al Pacino nel Padrino quando prende in mano le questioni della famiglia.

Immancabili gli zoccoli del Dr Scholls, le canottiere Ragno, le mutande Cagi. Per farsi la barba ha sempre usato il rasoio elettrico. Io mai, mi irrita la pelle e da quando è morto mi sono fatto crescere la barba, non pensavo di avercela così bianca. Ma d'altronde pure lui ha sempre avuto i capelli grigi, anche da giovane. Si vede che in questo ho preso da lui.

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Spesso ce ne stavamo in salotto a guardare la tele, lui fumava le Merit. Era bello stare lì, a fumare insieme e parlare del più e del meno, senza grosse pretese e poi magari guardare Vittorio Sirianni su Primocanale e andare a dormire.

Altre volte invece il clima si scaldava e lui sbraitava, magari perché mettevo il piede sul tavolino. Era una cosa che non poteva sopportare: “Il piede, tira giù il piede!!!!”. E’ ovvio che scattava la ritorsione e il piede lo lasciavo su apposta e allora partiva una serie di improperi. Ma poi tutto finiva lì.

Un’altra cosa che non sopportava erano le briciole e per questo dovevamo sempre mangiare il pane in cucina. Devo ammettere che questo genere di fobie mi è rimasto anche a me.

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Da quando ho cominciato a scrivere questi flash su mio padre non ci penso più così spesso e non mi viene più il magone quando penso a lui che non c’è più in carne e ossa. L’altro giorno ho guardato la foto di mio padre, quella che ho nel porta fotografie in salotto, nella quale sorride insieme a Pietro, che all’epoca aveva un paio d’anni. Eravamo in Sicilia, lui aveva vinto la ritrosia a muoversi di casa ed era venuto in Sicilia per il battesimo del bambino. Nella foto è sorridente, con uno sguardo furbetto, quasi scaltro. E’ soddisfatto e contento di essere lì, con Pietro che si sta tirando il piede nel passeggino. E’ una foto molto bella, è stato l’ultimo viaggio di mio padre, direi un viaggio mica male. E dal suo sguardo si vede che si stava divertendo.

Di solito, prima di cominciare a scrivere questi miei pensieri su mio padre, quando guardavo quella foto in salotto mi saliva il magone. Anzi, di più, cercavo di non guardarla in faccia quella foto, per evitare che mi tornassero in mente delle cose che riguardano mio padre. Ma adesso non più e sono contento.

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Mio padre non aveva un rapporto rilassato con i soldi. Detta fuori dai denti, prima di cacciare una lira ce ne metteva di tempo e se sganciava lo faceva con il contagocce. Un’attenzione al denaro che aveva ereditato dai suoi genitori, almeno credo, sua madre era una maestra elementare di umile origine piemontese contadina e suo padre, il nonno Emanuele di Amalfi che non ho mai conosciuto, un capitano di mare spesso in viaggio. Sono figure mitiche per me, ma credo che il loro influsso su mio padre, nato e vissuto nella casa in cui alla fine è anche morto, sia stato decisivo per formare la sua personalità.

Di mia nonna ho l’immagine di lei che lava i piatti al lavello di ardesia di casa mentre sorride e di lei con i miei cugini che giocano sul terrazzo, con qualcuno di loro che fa il bagno in una tinozza azzurra di plastica al sole. Di mio nonno mi hanno detto che quando partiva in mare faceva suonare la sirena mentre passava di fronte alla casa di via Trento. Era un omone grande e grosso che aveva dei problemi a relazionarsi con mio padre, mingherlino e sempre malaticcio, con le sue manie intellettualoidi.

In vita loro i nonni hanno accumulato un discreto gruzzoletto con il sudore della fronte, faticando come bestie per offrire ai figli un futuro migliore. Sicuramente avevano nel sangue una fortissima voglia di rivalsa sociale e l’hanno trasmessa ai figli con un portato verghiano di rispetto per la “roba” che rasentava l’auto annullamento della loro persona. Non so se mi spiego, ma certe frasi topiche di mio padre sono diventate un classico. “Finisci quello che hai nel piatto, non ce lo regalano mica”. “Cosa credi, che i soldi li zappo”. “Mangia, mangia”. “Non sono mica Pantalone”.

Personalmente mi sono abituato abbastanza presto a non avere mai tanti soldi in tasca, la paghetta era un concetto inesistente per me e mio fratello, non dico che non avessimo lo stretto necessario, ma di certo non navigavamo nei soldi. Mio fratello ricorda quando non ci dava i soldi per comprarci dei jeans perché costavano troppo. Io ricordo che mi regalò una Polo, nel ’99, perché mi serviva per andare a lavorare.

A volte, cercava di fare il furbo e si prendeva dei pacchi giganti. Una volta dei napoletani lo fregarono vendendogli dei telefonini finti per 500 euro o giù di lì. Era tutto contento dell’affare, ma poi la beffa. Per lui fu uno smacco quasi da infarto quando, aprendo le custodie dei telefonini, si rese conto che erano finti, con la suoneria giocattolo di “jamme, jamme, jamme jamme ja”. Probabilmente erano dei furbastri di Amalfi che avevano individuato l’allocco, truffatori da quattro soldi napoletani o giù di lì e sarà stato il nonno capitano di mare che ci ha messo lo zampino. Insomma, ci era caduto come una pera cotta.

Sono sicuro poi che lo spread sopra i 500 punti, Monti e tutto il resto, hanno contribuito non poco a dargli il colpo di grazia finale. Leggendo i suoi sogni, che annotava quasi quotidianamente in una sorta di dialogo costante con il suo inconscio vivido di immagini, c’erano sempre annotazioni scritte in caratteri diversi e ben distinti dalla parte onirica relative all’andamento di borsa e alle vicissitudini politiche che influivano sui listini mondiali. Spesso restava sveglio fino a notte fonda per seguire la chiusura di Wall Street o l’apertura del Nikkei, il tutto dalla stanza di via Trento dove era nato.

Ricordo una volta, avrò avuto più o meno ventanni, mi comprai un vestito spendendo una cifra abominevole secondo i suoi crismi. Un vestito che ho ancora adesso, di buona qualità, sulle 700mila lire. Glielo dissi a cose fatte e lui era diventato matto. Non ricordo se mi diede qualche soldo, penso di no. Probabilmente fu mia madre a foraggiarmi. Per fortuna sono sempre stato uno frugale e piuttosto parco e non ho mai dovuto chiedergli tanti soldi da quando ho cominciato a lavorare.

Ricordo anche il riciclaggio di omaggi aziendali e le figure di merda quando il destinatario si rendeva conto che erano doni ricicciati. Figuracce a iosa. Ma anche una visione reale del valore del denaro, fin troppo reale.

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Il rispetto di mio padre penso di essermelo guadagnato in tarda età, dopo che è nato mio figlio Pietro. A quel punto mio padre ha cominciato a trattarmi con più comprensione, i figli per lui sono sempre stati “la cosa più importante” e non mancava mai di ricordarci che tutto quello che faceva lo faceva “per noi”. “Cosa credi, lo faccio per voi”, diceva, ma consocendo i miei polli lo faceva anche e soprattutto per sé. Ma non ci trovo nulla di male, anche se rovesciare su noi figli le sue paranoie non è stata una cosa molto tattica da parte sua.

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Se mio padre oggi fosse vivo so esattamente cosa farebbe. Si guarderebbe le partite e magari una passeggiata per comprarsi il giornale. Tra l’altro penso che sarà quello che farò anche io, oggi. Domani guarderebbe Napoli – Samp. Chissà cosa direbbe della Samp di Delio Rossi, la cosa che mi dispace di più è che non abbia visto la Samp tornare in A l’anno scorso.

L’ultima volta che ci siamo visti a Genova era Pasqua. Siamo andati con Pietro e la Giusy giù in piazza Palermo al parco giochi. Pietro si è divertito e anche mio padre si è divertito a guardarlo giocare. Aveva tutti i capelli bianchissimi.

E quel maglione giallo che non si toglieva mai. Sembrava molto soddisfatto del nipote, i bambini gli sono sempre piaciuti molto, e Pietro passava parecchio tempo con lui mentre eravamo a Genova. Ci stava bene con il nonno Gimmi e quando è morto è stato un trauma per il bambino, che ancora adesso dice che vuole andare in cielo a trovare il nonno Gimmi.

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La domenica mattina quando eravamo piccoli era il giorno del bagno. Riempivamo la vasca e molte volte io e Lollo facevamo il bagno insieme. Poi mio padre che faceva velocissimo perché l’acqua calda scarseggiava e faceva un freddo cane in casa. Per fortuna poi abbiamo messo la doccia e il riscaldamento autonomo, perché di mattina si gelava in casa. Io e Lollo per vestirci ci piazzavamo davanti alla stufetta in camera, c’era un freddo cane.

Poi mio padre si frizionava i capelli con la 4711, si faceva la riga da una parte, la barba e via. A rompere le palle a qualcuno. Anche se devo ammettere che quando andavo a scuola mi dava una mano a studiare. Gli ripetevo le cose, lui stava sdraiato sul letto con il libro aperto davanti.

Quando ho passato l’esame da giornalista era incredulo, pensava che mi avrebbero bocciato. Anche lì cominciò a rispettarmi di più, mi diceva sempre che la scrittura era una cosa che gli piaceva di me. E mi spronava sempre a scrivere il mio blog. Ed è quello che sto facendo, papà. Scrivo il mio blog.

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Bammaeo bam bam, Bammaeo bam bam bam. Bammaeo bam bam, Bammaeo bam bam bam.

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Milk delivery van. Mi ricordo che quando avevo cinque o sei anni, anzi almeno sei anni perché sapevo già leggere, mio padre mi comprò un libro illustrato scritto in inglese. Voleva insegnarmi l’inglese e ricordo questa immagine del milk delivery van, il pulmino del latte, con una volpe al volante. Io ero seduto in salotto e lui mi ripeteva milk delivery van e mi invitava a ripetere con lui. La pronuncia l’ho imparata lì, a sei anni. Poi a 26 anni mi ha pagato una vacanza studio in Inghilterra e ho fatto il resto, ma la pronuncia già la sapevo, me l’aveva insegnata lì, sul pavimento del salotto a sei anni.

Un’altra cosa che mi ricordo sono le registrazioni che faceva con noi della famiglia. Prendeva un registratore, sembrava un’autoradio con una custodia nera e la bretella. Agganciava un microfono al registratore, metteva una cassetta vergine e ci intervistava. Facevamo lunghe interviste e poi riascoltavamo cosa avevamo detto, magari a distanza di mesi. Chissà che fine hanno fatto quelle cassette.

Gli piacevano le calcolatrici, mi ricordo che alla mia prima comunione mi regalò una calcolatrice Casio meravigliosa, ero felice. Gli piacevano anche gli orologi, ricordo che una volta tornò dalla Russia con un orologio favoloso, con le scritte in cirillico. A un certo punto voleva studiare il russo. Parlava cinque lingue correntemente. E leggeva un sacco di libri in tedesco.

Mio padre era un intellettuale, di natura, purtroppo per lui ma anche per noi spesso e volentieri non si sentiva realizzato e scaricava sugli altri le sue frustrazioni. Ma non penso sia l’unico che reagisce così, tanto più che ha sempre lavorato all’Ansaldo o in qualche azienda e probabilmente non era quello il suo sogno della vita lavorativa. C’è da dire che quando viveva in Svezia con mia madre, prima che nascessimo noi, aveva lavorato all’Istituto di cultura italiano e che una volta rientrato in Italia aveva fatto un anno di insegnamento a Novara. Ma alla fine le cose sono andate così, poteva anche andare peggio alla fine.

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Mi ricordo che una volta, sarà stato il 1982 o il 1983, siamo andati al cinema a vedere ET e che Bammaeo ha pianto dall’inizio alla fine. All’uscita io e Lollo lo prendevamo in giro e lui si schermiva.

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Si tagliava le unghie dei piedi con un trancia unghie professionale, sembrava una tenaglia, e lasciava cadaveri di unghie sparsi in tutto il bagno. Io quando mi taglio le unghie dei piedi lo faccio nel bidé e poi le raccolgo e le butto via anche perché se vanno nei tubi rischiano di intasarli. Odio quando sollevi il tappo, magari nella vasca, e c’è il grumo di peli e di unghie lasciate da qualcun altro.

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Da piccoli ci aveva regalato il calcio balilla, lo tenevamo in stanza e facevamo dei mega tornei con i cugini o con gli amici. Giocava anche Bammaeo, diceva sempre “non rullare, non vale rullare, non vale!!!!”. Di solito preferiva stare in porta.

Facevamo dei mega tornei domenicali di Monopoli e Risiko. Quando andavamo a Landeck ci compravamo giochi da tavolo come Viaggio in Europa e altri giochi come Indovina chi. Gli piaceva giocare con noi, anche a carte, ma la cosa che preferiva in assoluto era il poker con i cugini.

Da piccoli ci regalò i primi giochi da attaccare alla tv, il tennis e l’hockey con le manopole. Ci regalò anche due biciclette uguali, due Ideor da cross la mia blu e quella di Lollo rossa, che usavamo sul terrazzo.

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Da quando è morto mio padre sento tutti i giorni mia madre al telefono. Prima sentivo sempre lui e con mia madre ci parlavo poco, perché lui accentrava tutti i contatti e poi riportava le cose che ci dicevamo a mia madre, ovviamente filtrandole a modo suo.

Adesso invece sento direttamente lei e devo dire che da quando non c’è più mio padre ho ripreso il contatto con mia madre e sto imparando a conoscerla meglio.

E già, perché prima era Bammaeo che controllava in toto i mezzi di comunicazione in casa. Telefono, internet, citofono, porta di casa, ma anche la gestione domestica delle spese e delle bollette che pagava a modo suo, cioè a singhiozzo. Non entro nei dettagli, ma dopo la sua dipartita ci ha lasciato una discreta serie di gatte da pelare, per fortuna stiamo rientrando in pari con le spese.

Mia madre ha dovuto fare uno sforzo per imparare a gestire da sola diverse cose che in passato erano completamente in mano a mio padre. E’ stata brava, io e mio fratello le stiamo vicino e le cose procedono. Dalla gestione del terrazzo a quella delle bollette da pagare ecc. mia madre ha fatto un salto quantico gestionale degno di un master in business administration, complimenti a lei che tra l’altro ha smesso di fumare nel frattempo.

Giù il cappello alla Guldina, alias mia madre, che ha preso possesso di alcuni feticci di Bammaeo, totem intoccabili prima che ci lasciasse. Mi riferisco al telecomando, anzi ai telecomandi che gestiva come fossero diversi scettri intoccabili. La caffettiera, grande e piccola. La lavastoviglie che voleva caricare solo lui perché si sentiva il miglior caricatore-di-lavastoviglie-della-terra. “Nessuno carica la lavastoviglie come me”, diceva convinto di quello che diceva.

Gli piaceva poi dare l’acqua alle piante sul terrazzo. Leggere due o tre quotidiani al giorno e poi commentare le vicende politiche al telefono con me e a voce con mia madre. La sua mancanza in questo settore la sentiamo pesantemente, perché aveva una cultura enciclopedica e se uno aveva un dubbio di qualsiasi tipo di politica o di attualità lui te lo chiariva.

Seguiva la borsa, leggeva tomi di filosofia e architettura, ascoltava musica classica. Insomma, non si faceva mancare niente per alimentare il suo intelletto. Gestiva la spazzatura, litigava un po’ con tutti e quelli del palazzo non lo amavano. Ma ormai questa è acqua passata.

Spesso lo vedevi in salotto, seduto sulla sua poltrona con il suo feticcio primario, il-cuscino-sulla-pancia che si leggeva qualche tomo di letteratura medievale o che guardava dei quadri di pittori del ‘600. Allora ti sedevi lì e alla fine lui chiudeva il libro e parlavamo.

Se la Samp perdeva, si ammutoliva e cercava un film per estraniarsi. Non accendeva mai la Domenica Sportiva se la Samp aveva perso, faceva finta di niente. “Non chiedetemi della Samp!!”, “Squadra femmina!!”.

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Quando io e Lollo andavamo in Svezia per le vacanze estive, insieme con mia madre, lui restava a Genova a lavorare. Ci chiamava al telefono e ricordo che è venuto anche lui, qualche volta. Una volta è venuto e i miei genitori hanno litigato di brutto, mi ricordo che fu molto sgradevole perché eravamo a casa dei miei nonni. Un’altra volta, ricordo che siamo andati in un grande magazzino a Stoccolma.

Mio padre ci aveva comprato dei regalini, a me e Lollo, li aveva posati sul bancone per pagare. Ad un certo punto, è arrivato uno che li ha presi, anche lui voleva fare quei regali a suoi figli. Mio padre lo ha bloccato, dicendogli “Che fai, sono i regali per i miei figli”. Quello aveva chiesto scusa, alla maniera scandinava, la cosa assurda è che quello lì era il re di Svezia. Si trovava anche lui ai grandi magazzini NK, nel centro di Stoccolma, e stava facendo shopping per i suoi figli. Mio padre non se n’è accorto, che era il re, per fortuna non lo ha mandato a quel paese come spesso faceva con la gente, per autodifesa automatica.

I miei nonni se la ridevano quando raccontammo il nostro incontro con il re, mio padre divenne un idolo per una sera, ma ero stato io che gli avevo detto “guarda che quello era il re”, lui mi aveva risposto “E allora? Questi giochi li ho scelti io per voi”.

Un inverno, a gennaio, abbiamo fatto una bellissima crociera di due giorni da Stoccolma a Helsinki. Si prendono queste navi enormi, della Silja Line, e dopo una notte di navigazione sul Baltico si arriva a Helsinki, dove si trascorre una giornata in città, per ripartire la sera stessa. Faceva freddissimo, ma l’idea della crociera ci elettrizzava.

Abbiamo mangiato al buffet, fatto acquisti al duty free, giocato al casinò e di sera abbiamo fatto un salto in discoteca. A Helsinki c’era un freddo polare, ma siamo andati in giro lo stesso. Abbiamo visto una qualche casa di Alvar Aalto e siamo andati in pasticceria a mangiare bullar. Era davvero freddissimo, sugli autobus di Helsinki ci sono le doppie scritte, svedese e finlandese. E’ stato un bellissimo viaggio. E’ stata una delle poche volte in cui ho visto mio padre con il cappello di lana in testa.

Quando avevamo qualche esame o qualche occasione pubblica, di solito mio padre non veniva oppure arrivava tardi. Eppure ti assicuro che ci teneva più di noi. Ha fatto così quando mi sono laureato, quando ho fatto la maturità. Non è venuto al mio matrimonio in Sicilia.

Era uno che aveva un po’ di problemi a stare con gli altri, usando un eufemismo. E gli piaceva alimentare queste sue stravaganze, forse pensava che gli dessero un’aria più interessante. O forse era semplicemente timido o forse un po’ disadattato. Ma oramai sono cose a cui non penso più, non mi interessano più, anche se all’epoca dei fatti un po’ dispiaceva che lui si rintanasse sempre dentro al suo fortino di casa. Una specie di bozzolo dal quale non è mai uscito del tutto, come un grande marsupio in cui ogni giorno si è ritirato dalle insidie della vita.

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Quando mio padre è stato male me ne sono accorto perché non mi ha risposto al telefonino. Di solito rispondeva subito. Era sera, non rispondeva nemmeno a casa. Non c’era nessuno. Ho chiamato mia madre e non rispondeva nemmeno lei. Mi sono allarmato, poi mi ha chiamato mia madre, erano le nove. Erano al pronto soccorso del San Martino.

Mia madre era in stato confusionale, le ho detto di passarmi mio padre. Sono riuscito a parlargli, stavano aspettando un medico in sala d’attesa. Gli ho detto che volevo passargli la Giusi, me lo aveva chiesto lui il pomeriggio stesso. Ma ha detto “no, non è il momento di parlare”. Mi sono accorto che le cose non andavano perché parlava rallentato e stava perdendo le parole. Non gli venivano più. Non l’ho più sentito né visto cosciente, è stata l’ultima telefonata.

A mezzanotte passata, ero a letto e avevo già preso un biglietto del treno per l’indomani mattina presto, mi ha chiamato Lollo da Londra. Era allarmato. La mattina dopo alle sette ero alla stazione, mi ha chiamato di nuovo Lollo per dirmi che era in coma. E’ stato un viaggio di merda.

Quando sono arrivato al pronto soccorso del San Martino c’era mia cugina Giovanna, lui era stato messo in una stanza. Era intubato, coperto da un lenzuolo bianco e senza pigiama. Non ha più aperto gli occhi.

Poi nel pomeriggio lo hanno trasferito in rianimazione. Mia madre era sconvolta. Lui la sera prima era caduto in cucina, davanti al microonde, si stava scaldando un caffè d’orzo. Si era ripreso dopo un po’. Ma era rintronato. Mia madre lo ha fatto sedere in poltrona, in salotto. Piano piano si stava riprendendo. Non voleva che mia madre chiamasse l’ambulanza, ma per fortuna poi lei lo ha fatto.

Lui non voleva andare, continuava a dire “e vabè, e vabè”. Si vede che se lo sentiva che gli era venuto un ictus e aveva paura, immagino.

Lui qualche anno fa aveva già avuto un infarto, sempre in casa, e mia madre lo aveva salvato trovandolo senza sensi nel corridoio. Quella volta lo hanno salvato per miracolo, gli hanno fatto un’angioplastica e lo hanno messo a dieta. Negli ultimi anni, dopo l’infarto, era mia madre che si occupava di lui, che per fortuna è sempre stato autosufficiente.

Quando dopo l'ictus è finito in rianimazione mia madre era distrutta. Le cose si sono messe subito male, il giorno dopo, fatta la tac, si è capito che era messo davvero male. Non voglio dilungarmi sulla rianimazione, è stata un’esperienza che non auguro a nessuno, certo che i medici possono essere delle brutte gatte da pelare. Era chiaro dopo un paio di giorni che era messo male, ha avuto un ictus troncale, era vegetativo, e lo tenevano in vita con le macchine. Ma nessuno ce lo diceva con chiarezza. Per fortuna è arrivata mia cugina Cristina da New York, lei è un medico, e dopo diversi tira e molla con i medici – anzi con un medico, ma non ne voglio parlare – alla fine per fortuna se n’è andato da solo, per morte naturale, dopo dieci giorni di coma.

Sono stati i dieci giorni più brutti della mia vita, ringrazio i miei cugini Cristina, Maria, Giovanna, la zia Mimina e tutti gli altri parenti per il sostegno e la vicinanza. Andavamo due volte al giorno a vedere come stava, la sala d’attesa del reparto di rianimazione è un posto incredibile, sembra una dogana, nel senso che i parenti vanno lì con la speranza del miracolo. Alcuni sono fortunati, e possono ritrovare i loro cari che se la sono vista brutta ma alla fine ne sono usciti. Altri invece vedono la speranza spegnersi e andare lì diventa una tortura.

Ricordo che entrare, infilarsi la mascherina e la cuffia, i copri scarpe e vedere mio padre attaccato alle macchine che muoveva le braccia in maniera innaturale e spastica a cause dell’ictus è stato un calvario per me e per tutti quanti. L’idea che finisse in qualche struttura di lungodegenza ci distruggeva, anche perché conoscendolo era l’ultima cosa che avrebbe voluto per sé e per noi. Peccato che il medico in questione non fosse dello stesso avviso, ma per fortuna la natura ha fatto il suo corso.

Quando è morto è stato un sollievo. Ero a casa del mio amico Gippi, avevamo appena mangiato una pizza diavola. Hanno chiamato dall’ospedale, dicendo che se ne stava andando. Lui mi ha portato lì, mi sono lavato le mani e sono salito. Quando ho suonato alla porta in rianimazione, il medico di turno, una donna, mi ha detto che era appena morto. Ero sollevato. Sono entrato a vederlo, il volto era rasserenato. Aveva uno sbafo di sangue vicino alla bocca ma gli avevano tolto tutti quei tubi e la macchina era spenta, finalmente. Poi sono arrivati i miei cugini e mio fratello. Erano tutti intorno al letto che piangevano, io e mia madre eravamo in capo al letto in piedi ma non siamo riusciti a piangere. Eravamo troppo choccati.

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Dopo siamo andati a mangiare da mia cugina Giovanna. Ho rimangiato, c’erano i pizzoccheri. C’era una tavolata, è stato il nostro modo di stringerci insieme per superare la botta immediata.

Il giorno dopo lo hanno portato all’obitorio dell’ospedale, lo hanno ricomposto. Gli abbiamo portato i vestiti, un maglione bordeaux e una maglietta blu sotto. Stava bene, gli hanno intrecciato le mani sul petto. Entrando in quella camera mortuaria, con i ventilatori aperti e tutte le stanze con i morti rivestiti in attesa del funerale, ho pensato al film Biutiful con Bardem. Nel film Bardem ha questo dono di parlare con i morti e per la prima volta anche io ho avuto a che fare con i morti veri.

C’era una signora in una stanza morta e sdraiata, aveva addosso il suo tailleur migliore ed era senza scarpe. Mi è sembrato sensato che fosse senza scarpe e anche mio padre aveva dei calzini blu. Lollo gli ha fatto un paio di foto con l’iPhone, io ho visto la foto del suo cervello dopo l’ictus, il 30% del cervello era andato, kaputt, non sarebbe mai tornato come prima perché è stato un ictus ischemico e non emorragico. Tutte cose sapute di straforo perché il medico della rianimazione non ci aveva detto nulla di preciso, tirava a tenerlo in vita il più possibile.

So che la legge italiana prevede che sia così, però penso che la volontà dei familiari dovrebbe essere tenuta in maggior ocnsideraizone in casi del genere. E’ pur vero che mio padre non aveva lasciato disposizioni scritte in questo senso, ma se i familiari ti dicono che lui non avrebbe voluto trovarsi in quella situazione, che non ci teneva a rimanere in vita come un cactus, allora tu medico mi devi ascoltare. Ma mi fermo qui.

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Abbiamo organizzato un bel funerale, la cassa era decente, l’Ataf, la società comunale dei servizi funebri è stata iper efficiente. Abbiamo seguito il carro funebre in macchina, guidava Lorenzo marito di mia cugina Giovanna. Vedevo la corona di fiori bianchi sopra la cassa che si agitava attraverso il parabrezza e la gente lungo la strada che si fermava e si faceva il segno della croce o che salutava al passaggio. Non sapevo che ci fosse questa usanza, mi ha fatto molto piacere vedere la partecipazione della gente, di sconosciuti che in segno di rispetto fanno un cenno di saluto al poveraccio che è morto. Il prete è stato sobrio, la chiesa era piena di gente, mio fratello ha parlato ricordandolo e poi ha pianto come un vitello. Io e mia madre siamo stati in prima fila, vicino alla cassa. Non abbiamo pianto, siamo fatti così, non piangiamo ma forse è anche peggio.

Dopo il funerale abbiamo seguito il carro fino a Staglieno. Al cimitero hanno tirato fuori la cassa e l’hanno parcheggiata in uno stanzone pieno di altre decine di casse. Mentre passava sul carrello, ho visto che quella di mio padre aveva la targhetta numero 17. Mi è venuto un sorriso amaro, sfigato fino all’ultimo, lui che era nato di venerdì 17.

La cremazione non l’ho seguita e al cimitero ci sono andato tempo dopo, alla Befana di quest’anno, più di un anno dopo la sua morte. Mio padre voleva che le sue ceneri fossero disperse in mare, con una cerimonia elaborata a base di musica classica e cibi raffinati, ma io mi sono opposto. Voglio che ci sia un posto fisico dove andarlo a trovare quando ne ho voglia. E alla fine Staglieno è abbastanza vicina a Marassi e quando gioca la Samp, se il vento tira dalla parte giusta, magari gli arrivano anche i cori della Sud. Scusa papà, ma ho deciso io.

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Tornare a Genova è un po' come mettersi un paio di scarpe vecchie e comode, che non ti fanno male ai piedi perché le hai usate tanto, anche se ormai non le indossi più quasi mai. Ieri siamo andati a Staglieno, al cimitero, a trovare Gimmi. Era la prima volta che andavo a vedere dove è sepolto mio padre, anzi no, avevo già provato il primo maggio, ma il cimitero era chiuso per la festa dei lavoratori.

Abbiamo preso prima il 36 fino a via Roma e poi il 34, che fa capolinea al cimitero. In tutto ci vogliono più o meno tre quarti d'ora per arrivare e dal capolinea si entra attraverso l'ingresso secondario fino alla passeggiata dei loculi, che sono messi tutti in ordine cronologico.

Di fronte al cimitero c'è uno stabilimento, si una collina al di là del Bisagno, con l'Istituto italiano di saldatura, ma poi quando arrivi ai loculi non si sentono rumori dalla strada.

Prima di entrare ci siamo fermati dal fioraio e abbiamo comprato una rosa rossa, l'ha scelta Pietro. Dal fioraio c'erano tre cagnolini che si sono messi ad abbaiare, Pietro come un piccolo bambascione si è spaventato ma poi gli è subito passata, i cani erano davvero micro, tanto rumore per nulla.

La cosa che mi ha colpito di più la cimitero sono state le tombe con gli stemmi del Genoa e della Samp vicino alla foto del defunto. C'era pure un povero ragazzo, con la maglia della Samp addosso, si vede che giocava nella Primavera e lo hanno immortalato con la maglia blucerchiata. E un altro giovane morto a 18 anni in un incidente di moto, poveretto. E una serie di portachiavi appesi in qualche modo ai loculi, quasi tutti della Samp o del Genoa. Anche i ceri rossi sono carini, peccato che molti siano rovesciati o arrugginiti.

Le foto più belle sui loculi sono quelle di persone ritratte al mare, mentre prendono il sole, o direttamente in acqua mentre fanno il bagno o fanno cose di tutti i giorni. Ce ne sono parecchie così, e forse la regina assoluta è quella di una coppia di anziani affacciati insieme ad una stretta finestra mentre sorridono.

La foto di mio padre è decente, mia mamma prima che arrivassimo diceva che non le piaceva tanto, a me invece non dispiace per niente. Poi mi piace che sotto al nome e cognome ci sia scritto tra virgolette ”Gimmi”, il suo soprannome con il quale è conosciuto da tutti anche se io di solito lo chiamo Bammaeo. Sopra, c'è un'altra foto da deca e lode, di un operaio che sta lavorando con la sigaretta in bocca accucciato e pronto a passare il cemento su un pavimento. Il tempo era molto bello e soleggiato, abbiamo messo il fiore, lì vicino c'è anche il loculo di Luis che ha una bella foto pure lui e mi fa piacere che nel corridoio dei loculi siano vicini, Luis e Bammaeo. Pensavo molto peggio Staglieno, alla fine il posto dove riposa mio padre non è male, c'è il sole ed è facilmente raggiungibile in autobus. Per chi vuole andare a fargli visita è comodo e spero che lui sia d'accordo con me anche se avrebbe preferito qualcosa di diverso. Però almeno così uno sa dove andare a fare una preghiera per lui se ha voglia di fare una piccola gita.

All'uscita c'erano gli inservienti del cimitero che trasportavano due casse, mi sono ricordato della prima volta che abbiamo portato la bara di mio padre al cimitero, aveva la targhetta numero 17, sfiga fino all'ultimo secondo Bammaeo, ma si dice così per ridere perché intanto alla fine finiremo tutti allo stesso modo, si spera il più tardi possibile.

Siamo tornati indietro con il 34, il Bisagno un po' d'acqua ce l'ha in questo periodo, e a Manin abbiamo fatto un mini picnic con della focaccia che aveva comprato mia madre, io l'ho mangiata alla cipolla ai quattro palmenti e doppio menti. Ottima e poi siamo andati a piedi fino al Porto Antico. Una passeggiata un po' troppo lunga, fra via Assarotti e compagnia bella, Klainguti, il Britannia, Romanengo, palazzo San Giorgio, la sopraelevata, ecc. non ho più troppa coscienza delle distanze a Genova.

Pietro ha giocato con un ragazzino di colore che si chiama Joshua, poi a cena siamo andati a mangiare dalla Giovanna, tutto buono, e sul 36 c'era una signora, che mi parlava dei suoi nipoti mentre Pietro faceva il bastian contrario e si impuntava per restare in piedi anche se c'erano tantissimi posti liberi a sedere.

Uno dei nipoti si chiama Dante, un nome un po' impegnativo, poi non so perché è venuto fuori il nome di Caproni, il poeta del viaggiatore cerimonioso che prima di scendere dal treno all'ultima stazione saluta chiunque con grande ossequio: il marinaio, il soldato, gli innamorati. Me lo voglio rileggere.

Me ne parlava, di Caproni, perché le ho detto che ormai vivo a Roma da anni, ma che tornare a Genova mi piace sempre perché la trovo una bellissima città. Lei mi ha detto "sei come Caproni, che però diceva che a Roma non ci viveva, ma ci abitava soltanto". Forse anche io ci abito a Roma, ma in realtà vivo altrove.

Quando siamo tornati a casa, abbiamo fatto una partita a Fiaspel, un ”ever green” che non delude mai. Il backgammon lo lascio per un'altra volta, anche perché per Pietro è troppo difficile, ha soltanto cinque anni.

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Mio padre si chiamava Gianmichele, ma tutti lo chiamavano Gimmi. Non so da dove sia nato questo soprannome, forse una specie di inglesismo visto che se la tirava un po’ con le lingue e con il suo coté internazionale. Un coté che però non era soltanto di facciata, perché alla fine si è sposato con mia madre che è svedese. Mio padre parlava bene svedese, ma aveva un po’ l’accento italiano. Mio fratello Lollo lo prendeva in giro: “hur mar du? bara bra, bara bra, bra”, e pronunciava all’italiana. Mio padre un po’ si incavolava con questa cosa. Era permalosetto.

E allora scattava la sua frase preferita: “Io poi sai, poi io sai poi, io sai poi, poi io sai, io pai sai tu, poi io sai poi, tu....”, e se ne andava rifuggendo il confronto e bofonchiando da solo fra sé e sé ma facendosi sentire. Era un modo di fare sdegnoso, voleva farti capire che non ti dava importanza, che era superiore alle tue critiche, però si vedeva che ci soffriva. Per questo io e Lollo glielo menavamo parecchio si diverse cose. Spesso glielo menavamo in maniera gratuita, ma era quello il bello.

Magari si discuteva o si litigava, allora scattava l’epiteto che lo faceva incavolare in maniera definitiva. Io e Lollo spesso apposta gli dicevamo “alitux”, "aaa-llli---tux", che poi veniva storpiato in alex, perché gli puzzava l’alito. Lui si offendeva subito, poi se ce l’aveva prendeva una caramella o una mentina oppure Lollo gli diceva di prendersi una mentina e comunque ci mandava affanculo. Noi ridevamo. Lui sclerava e faceva le prove alito.

Altri epiteti pesanti che ci scambiavamo in famiglia erano “monghintown”, e una canzoncina che rendeva l’idea era “in the monghintown, in the monghintown, town, town....”. Anche qui il nome era stato storpiato direttamente in town, taun. Ci chiamavamo taun a vicenda.

C’è stato un periodo, quando mio padre aveva i capelli blu per colpa della lozione che usava, che lo chiamavamo Blue Hair, prima quando ce li aveva verdi per colpa della 4711 era Green Hair.

Altri soprannomi di mio padre Bammaeo, Bammaus, Bacci, Baccibaeo, Babaeo, Bubaeo, Buba gol, Bamma gol, Bacci gol e canzoncine assurde come "Bamma bamma gol". Molte volte mio padre mi ha chiesto da dove venisse fuori questo soprannome di Bammaeo, non lo so, non so mi sembra un po’ onomatopeico e giusto per definire mio padre, una specie di Barbapapà un po' molliccio e rosato.

Quando invece mio padre si incazzava a me e mio fratello ci insultava al femminile: "vecchia stronza, stronza, belinetta, cretina, stupida ecc. in effetti era un bel misogino e per insultare qualcuno, quando era incavolato sul serio, ti insultava al femminile. Non lo ha mai nemmeno nascosto più di tanto di essere misogino, è rimasta mitica la volta che ha detto “zitte galline” a due donne per strada. Stavamo andando a piedi a Marassi, non le conosceva, non so perché glielo ha detto, ma una prontamente gli ha risposto “zitto tu cocomero”. Intanto lui stava già fuggendo e mi diceva “veloce, via, via”, senza voltarsi indietro.

Quando si incazzava urlava come un pazzo, sputava dappertutto, e dava pugni sui muri. A volte botte sugli oggetti o sui mobili e immancabilmente si faceva male da solo. Un minchione. Magari offendeva qualcuno per strada poi scappava, "vai, vai".

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La mattina ero ancora sotto le coperte e sentivo gli zoccoli di mio padre in corridoio, lui che andava in bagno, lo sciacquone, la caffettiera sul fuoco, l’odore di caffè. Mio padre che starnutiva. Poi si vestiva e il rumore delle sue scarpe in corridoio. L’acqua che scorreva nel lavandino. Poi la porta che si apriva e lui era uscito. Io ero ancora a letto.

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Chissà cosa diresti, Bammaeo, di Beppe Grillo. Io ho la finestra aperta, adesso, e sento lui, Grillo, che urla dal palco di San Giovanni. Cosa diresti, Bammaeo, “è tragicomico, che paese che siamo”. Però Bammaeo mi sa che tu e Beppe Grillo una cosa in comune ce l’avete, il timbro di voce. Anche tu urlavi come un pazzo, quando sento Beppe Grillo mi vieni in mente tu, almeno per il tipo di urli che tiravi e che tira lui. Belin, Beppe Grillo ha riempito piazza San Giovanni e ha pure sfanculato la stampa italiana, non male, un tipetto tranquillo.

Adesso Beppe Grillo sta sfanculando qualcuno, penso qualche politico. E’ fuori come un balcone. Ci sono anche delle sirene in sottofondo. “Uscire dall’euro”, boato della folla. Belin, Bammaeo, meno male che ti risparmi sto sfacelo.

L’altra sera sono andato a mangiare fuori con Giorgio, Stefano e Alessandro. Giorgio mi ha portato un regalino graditissimo, un disegno di un calciatore blucerchiato fatto da suo figlio Tommaso, me lo sono attaccato al muro. Il calciatore è super proporzionato, l’unica cosa i tacchetti delle scarpe sono giganteschi, però il disegno è favoloso.

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Siamo in macchina, è estate, fa caldo. Prendiamo l’autostrada verso Sestri Levante, non c’è troppo traffico. L’autoradio è accesa, ci sono le gallerie, ma mio padre va piano. Superiamo i caselli, mi sento sereno, il finestrino è giù ma non troppo.

“Non tirarlo troppo giù, potrebbe schizzare dentro un sasso”, dice mio padre, gli do ragione non ho voglia di discutere e poi ha ragione. Una volta era entrata una vespa in macchina, dalla parte di mio padre che guidava. Era stato un casino perché eravamo in autostrada e un’altra volta gli era entrata una mosca in bocca, mentre guidava.

Abbasso il parasole, mi guardo allo specchio, controllo la barba e vedo se ho qualche brufolo sul mento. Mio padre guarda davanti a sé, la strada è sgombra. Ci fermiamo a fare benzina.

E’ estate, avrò 16 anni, andiamo a Moneglia. Guardo il paesaggio fuori, il guardrail e le strisce che delimitano la corsia d’emergenza. Hanno messo le strisce sonore, se ci passi sopra friggono, mio padre un po’ frigge, poi si rimette in carreggiata. Sestri Levante, la gru a Riva Trigoso, le gallerie. E’ rosso, ci fermiamo ad aspettare. Poi diventa verde, partiamo, arriviamo, troviamo parcheggio. Via i vestiti, srotoliamo gli asciugamani, lui ha il suo telo, quello blu grande.

Si mette la crema, me la passa, guarda il sole in modo avido, come se lo volesse mangiare, aspira il sole come se fosse una cosa da mangiare. Si sdraia e si frigge al sole, con le braccia tirate su. Poi si volta di schiena, andiamo a fare il bagno e nuotiamo fino agli scogli.

Sono vicini, in mezzo ci sono le barche ormeggiate, l’acqua è salata. Molto salata e pizzica un po’, mi sono portato le pinne, o forse no. “Attento ai ricci”, mi dice, Lollo è lì con noi, ci asciughiamo al sole, agli scogli, la pelle si raggrinzisce per il sale che tira. Poi ci rituffiamo e torniamo a riva.

“Mettiti al sole, così ti abbronzi e ti passano quei ponfi”, mi diceva, guardandomi i brufoli.

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Ho digitato il suo nome su Google, viene fuori soltanto il testo del necrologio che ho scritto per lui sul Secolo XIX. Altre volte ho trovato pure che si era iscritto ad un corso di spagnolo online e che aveva fatto alcune lezioni, ho cercato di entrare nei suoi esercizi, ma ci vuole la password. Io con mio padre ci parlavo spesso su Skype. “Pronto, pronto, mi vedi?”. “Sì ti vedo”. “Mi senti?”. “Sì ti sento”. Come va?”. “Bene, bene domani c’è la Samp. Lo spread è alle stelle…”.

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Una volta mi ha regalato un paio di Nike alte, bianche, mi piacevano molto. Avrò avuto otto anni. Un’altra volta mi ha regalato una giacca Slam blu, tutti quanti in famiglia avevamo la Slam. Sembravamo come quelle famiglie che le riconosci che sono famiglie perché hanno i vestiti uguali. E’ una cosa che mi irrita un po’, una coppia di persone che magari ha le scarpe uguali, o il casco uguale, o le scarpe uguali, magari adulti e bambini. Noi con la Slam eravamo così.

A volte ancora adesso mi metto una maglietta bianca di cotone a maniche corte con scritto Ansaldo sopra. Sponsorizzato sono nella t-shirt di trentanni fa. Dell’Ansaldo a casa mia ci sono ancora un po’ di portachiavi. Gadget.

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Per il suo ultimo compleanno gli avevo regalato il romanzo di Franzen, Libertà. Chissà se lo ha letto, anche perché poi non l’ho più trovato in casa, chissà che fine ha fatto. L’ultimo libro che ha letto è un giallo, di uno svedese, me li confondo un po’ i nomi dei giallisti svedesi anche perché me li divoro in quantità industriale.

Parlava però di un vecchio commissario di polizia in pensione, il libro comincia con il commissario che ha un infarto a Slussen mentre si compra un hot dog. Profetico anche il romanzo, che però parla della degenza post infarto del commissario diabetico, come mio padre, e di come risolva un caso difficile, l’ultimo, prima di morire in cima ad una torretta per avvistare la selvaggina nella sua casa di campagna. Un libro molto bello. Sono contento che sia riuscito a finirlo prima di andarsene.

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E’ il giorno del battesimo di mio fratello Lollo. E’ il primo ricordo che ho di mio padre, e forse il primo ricordo in assoluto a parte quando ho messo la chiave della Simmental nella presa della corrente. Io avrò avuto due anni e mezzo, ma mi ricordo tutto. Siamo davanti alla chiesa a San Pietro alla Foce. Ci sono tutti i parenti. C’è questa cerimonia, Lollo piange quando il prete gli versa l’acqua in testa. Io sono incazzato nero perché tutti guardano lui e nessuno mi calcola. Torniamo a casa, c’è il rinfresco. Mio padre è su di giri, ha ancora i capelli abbastanza neri. E’ contento.

Mi vede un po’ giù di corda e allora prende Lollo in braccio, a pancia in giù, come si fa con i neonati quando hanno le colichette. Di fianco a lui c’è mio cugino Emanuele, mi chiamano e cominciamo a fare un tour della casa.

Per farmi ridere, visto che ero nero di gelosia, lo prende come un bambolotto e comincia a dire “dove lo mettiamo, dove lo mettiamo, lo mettiamo qui”; e fa finta di appoggiarlo sul calorifero. Poi continua e dice “dove lo mettiamo, dove lo mettiamo, lo mettiamo qui” e lo posa per finta sopra ad un mobile. Continua il tour di mio fratello bambolotto e mi passa l’incazzatura.

Alla fine lo ha messo nel box, Lollo ci stava bene nel box, giocava con i suoi peluche e io non gli potevo rompere le palle.

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Quando guardavamo la tele di sera il posto più ambito era in mezzo alle gambe di mio padre. Lui seduto sulla poltrona e io e mio fratello che facevamo a turno per sederci per terra in mezzo alle sue gambe, sul tappeto.

Ci guardavamo sempre Fantastico e i varietà con Amanda Lear che piaceva a tutta la famiglia.

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Rigore per la Samp. Mio padre mi prende in braccio per vederlo meglio. Tira Zanone, il portiere Mannini del Pisa lo para. Eravamo nella Nord, abbiamo pareggiato, ma mio padre ha detto che saremmo andati in A presto e aveva ragione lui.

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A mio padre non piacevano le feste comandate e le ricorrenze. Ogni volta che c’era un natale, una pasqua, un compleanno o un esame importante con festa annessa cominciava a fare storie. “Non ho voglia, non vengo, vacci tu”. Eppure poi quando andavamo a fare il pranzo di natale dalla Mimina con tutti i cugini e la zia Anna ci veniva volentieri. E si divertiva perché i cugini lo mettevano in mezzo e lo facevano sciogliere.

Non ho mai capito questi suo lato isolazionista, alla fine gli piaceva stare con la famiglia e condividere con tutti le sue fobie. “Oh, belin, io la penso così”, diceva stizzito se qualcuno lo contraddiceva. “Sai io poi sai poi io sai poi tu poi sai io poi”. Quando si incazzava cominciava a urlare senza controllo, con un tono di voce che saliva di un bel po’ di decibel, in maniera sorda, come una sirena che si mette in azione.

Urlava, sputava, non ascoltava e poi quando si calmava, di solito ci metteva un po’, doveva sdraiarsi perché gli veniva mal di testa, magari costringeva tutti a “parlarne” insieme. Si sedeva in poltrona, voleva che tutti si sedessero in salotto, e faceva una specie di analisi di gruppo. A volte la cosa si risolveva, altre volte no. Però era un classico, “dai, parliamo di questa cosa, su, dai su, dai su, dai”. Magari tu non ne avevi voglia, ma bisognava parlarne.

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Nel palazzo non era ben visto dai vicini. Quando chiamava l’ascensore a stava arrivando qualcuno dal portone, diceva “dai su sbrigati, entriamo, vai, vai”. Insomma, non era un simpaticone, però c’è da dire che nemmeno quelli del palazzo erano dei mister simpatia con lui. Negli ultimi tempi ho saputo che a ripetizione hanno sfasciato la cassetta delle lettere di mio padre, così per ritorsione. Belle carogne.

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Nel 1992 abbiamo fatto dei lavori grossi di ristrutturazione in casa e di fatto ci siamo trasferiti dalla Mimina. Io e Lollo ci andavamo sempre, a mangiare giù da lei e Luis. Ci siamo sempre trovati bene con lei, con noi è stata molto gentile negli anni in cui mia madre è stata in Svezia.

Mi lavavano la roba da pallone piena di terra e mangiavamo le uova con gli asparagi, che Lollo non poteva soffrire. Mio padre lavorava parecchio prima del rovescio improvviso con cui fu di fatto messo da parte. Era ancora relativamente giovane quando fu costretto a stare a casa, i primi tempi non furono facili, ma alla fine trovò un modus vivendi anche grazie a internet. Gli interessi culturali non gli mancavano.

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Oggi sono andato a votare, ci sarebbe andato anche lui se fosse stato qui. Bammaeo ha vissuto tutto il ventennio berlusconiano con grande sofferenza. Al di là dell’uomo, che detestava dal profondo e tutti noi con lui, era molto preoccupato per le conseguenze nefaste del berlusconismo sul tessuto sociale del nostro paese, che è l’Italia.

“Ci vorranno anni per riparare i danni che ha fatto Berlusconi”, mi diceva al telefono, elencandomi le nefandezze che commetteva lui e tutti i berluschini che lo hanno sempre circondato in tutti questi anni. Vedeva con grande tristezza il disgregarsi sociale del nostro paese e il diffondersi di questa barbarie di sotto fòndo, che a tutti i livelli ha minato come un virus la stabilità del paese.

Vedeva con sofferenza lo sdoganamento di atteggiamenti diffusi a tutti i livelli di malaffare e menefreghismo totale, il declino totale del livello culturale del paese. E si preoccupava per noi figli, ricordando come quando era giovane lui ci fosse una speranza che le cose potessero andare meglio in futuro.

“Mi dispiace per voi che invece dovete vivere in questo periodo storico, chi l’avrebbe mai detto”, diceva. Se la prendeva anche con la debolezza e l’incapacità quasi connivente dell’opposizione al berlusconismo, una malattia del paese che tra l’altro gli è costata il coccolone che si è preso.

Quando gli è venuto l’ictus lo spread era a 500 e rotti punti. Era stressatissimo, mio padre, e Monti appena nominato non era riuscito a dare subito la sferzata ai mercati. Berlusconi si è dimesso il 13 novembre, spread a 575 punti, mio padre ha avuto il colpo il primo dicembre, quando Monti aveva già deciso di mettere l’Imu. E’ stato il colpo di grazia per lui, abbiamo scoperto post ictus che era iperteso. Mio padre è stato una vittima dello spread.

Monti con il suo loden è stato almeno un buon viatico per Bammaeo, che almeno ha vissuto le dimissioni del Berlusca. Ora speriamo che dall’alto ci metta lo zampino sulle elezioni di oggi e che il paese in qualche modo sia governabile da dopodomani.

Bacci era sempre esterrefatto dalla performance del Berlusca e non si capacitava del fatto che gli italiani continuassero a votarlo. Probabilmente non si è reso del tutto conto del livello di decadenza psico-culturale degli italiani che per anni si sono fatti abbindolare "dal pifferaio di Arcore".

Una cosa che non mi va giù è che Monti sia identificato con il loden, perché anche mio padre lo usava sempre, verde lo portava. E’ una caratteristica di mio padre, non mi va giù che sia diventato una specie di feticcio e di simbolo che riguarda questo uomo politico, il tecnocrate che volente o nolente con la sua discesa in campo ha decretato il colpo di grazia per mio padre.

E’ un po’ la stessa sensazione che nutro nei confronti del G8 di Genova, quando due luoghi della mia infanzia, le mie scuole la Pascoli e la Diaz, sono stati sporcati dai fatti di sangue del 2001. Ma questa è un’altra storia, anche se mi ricordo che i miei genitori mi parlavano del rumore degli elicotteri sopra le case in quei giorni terribili. Tra l’altro mio padre mi convinse a restare a Milano nel weekend del G8, per timore che potessi in qualche modo partecipare alle proteste. Una decisione saggia, a posteriori, un classico di mio padre che se poteva evitava i grandi raduni di massa. “Non si sa mai cosa può succedere”, diceva. Dal suo punto di vista aveva ragione.

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E’ inverno, siamo nel parcheggio della sciovia a Limonetto. Apri il portabagagli, ti togli le scarpe e apri la borsa. Tiri fuori gli scarponi, i Dynafit arancioni e te li metti. Chiudi le prime tacche, lasci su la tuta, sui polpacci. La Gigi Rizzi blu, la salopet. Poi mi aiuti a mettermi gli scarponi. Tiriamo giù gli sci, i tuoi Blizzard blu e miei Fischer rossi, dal tetto della Golf, andiamo a comprare il giornaliero.

Sono le nove, c’è il sole, in seggiovia ti sei già messo con la faccia al sole. Con il labello e la Nivea pronto per cuocerti. Scendiamo e andiamo allo skylift. Saliamo su e ci dirigiamo verso il Colle di Tenda. La neve è bella dura, è ancora mattina, c’è poca gente. Da lontano si vedono le rovine dei forti dei francesi. I massi sulle piste sono visibili, tersi. Non ci sono pietre, è nevicato da poco e la giornata è favolosa.

Scendiamo giù, ci facciamo due piste, finiamo in neve fresca. Ci fermiamo a pisciare vicino a un albero. Tu fai pipì sulla neve, fai un cratere giallognolo, mentre io la faccio in tondo, sembrano piccoli semini lasciati lì, nel bianco. Briciole di piscio che interrompono il bianco. “Mettiti la neve sulla faccia, così ti abbronzi”. Ubbidisco, la neve mi gela la faccia, ma si scioglie presto ai raggi del sole. Mi rimetto gli sci, riprendiamo a sciare.

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L’altro giorno ho stampato quello che ho scritto finora su mio padre. Un bel gruzzoletto di pagine, più di una ventina. Intanto le elezioni sono passate, Grillo è l’ago della bilancia del paese, chi l’avrebbe ami detto. Almeno Bacci non ci sei in questo periodo, ti verrebbe un altro coccolone, ti è bastato Monti che peraltro secondo i giornali potrebbe tornare nel prossimo governo, se mai si riuscirà a farlo, come ministro.

La debacle del Pd è stata totale, ma parliamo d’altro. Oggi siamo andati con Pietro al Carlo Felice, pioviccicava però ci siamo fatti due ore di bicicletta, ormai ha imparato ad andare senza rotelle. E’ una bella soddisfazione vederlo che va, non vuole essere aiutato, meglio così, è un ragazzino autonomo. Spesso tira fuori il nonno Gimmi, e si intristisce un po’. Poi gli passa.

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Da quando non c’è più mio padre l’ho sognato un paio di volte. La prima era sul terrazzo, con il duffelcoat addosso, e guardava il mare in lontananza. Magari aspettava il passaggio della nave del nonno Emanuele, cioè di suo padre, che ogni volta quando partiva passando davanti a casa nostra faceva suonare la sirena in segno di saluto.

La seconda volta l’ho sognato mentre in salotto, con il suo maglione giallo, in piedi davanti alla libreria, mi consigliava qualche libro da leggere. Aveva un volume dei Meridiani in mano e mi diceva qualcosa a proposito del libro. Due sogni sereni, in cui mio padre fa cose di tutti i giorni. Mi fa sempre piacere quando mi viene a salutare in sogno, spero che torni presto, negli ultimi tempi ho sognato poco, forse ero troppo preso dall’incertezza della situazione politica.

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“Titta bara en Volvo Amazon, titta bara en Volvo Amazon, titta bara en Volvo Amazon”. Quando eravamo in vacanza in Svizzera, d’estate, mio padre si esaltava quando incrociavamo una Volvo Amazon, un modello di Volvo degli anni ’60 molto raro che secondo lui portava fortuna. Soprattutto se era rossa. Se vedevamo una Volvo Amazon era una festa, tutti quanti in coro dovevamo dire “Titta bara en Volvo Amazon, titta bara en Volvo Amazon, titta bara en Volvo Amazon”.

Mio padre era molto superstizioso. Se vedeva un gatto nero che attraversava la strada, si fermava e aspetta che qualcuno passasse prima di lui. Se gli cadeva il sale, lo tirava dietro la schiena. Se c’era una scala ci passava intorno.

C’era poi un tizio nel palazzo, non ricordo più chi, che secondo lui portava sfiga e quando lo incrociavamo lui borbottava “porca puttana, no lui no”. Se prima di una partita della Samp qualcuno gli diceva “vedrai che la Samp vince, lui si toccava le balle per scaramanzia e si incazzava: “Ma allora lo fai apposta, vai via, vai viaaaaa”. Al contrario, se qualcuno “portava bene”, nel senso che in sua presenza la Samp vinceva, allora lo invitava sempre anche per la partita dopo.

Una volta mi ha raccontato che invitava sempre un vicino o conoscente genoano a vedere le partite del Genoa a casa su Sky e fingeva di essere genoano pure lui. Una perversione non indifferente, non capisco da dove gli venissero fuori queste pulsioni a raccontare una marea di palle a raffica. Certo che fingere di essere genoano è il massimo della perversione. A un certo punto questo vicino o conoscente è venuto a sapere che Bammaeo era doriano sfegatato e non ci è più andato a vedere le partite da lui.

Anche quando andava al bar, il lunedì mattina, dopo le partite, fingeva di essere genoano e mi raccontava che era il primo a lanciare anatemi contro i doriani facce di merda. Non ho mai capito questo suo godimento nel cambiare casacca in maniera così radicale penso gli piacesse sentire esattamente cosa si dicono dei genoani che pensano di essere tutti in presenza di soli genoani, in particolare a proposito della Samp.

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Oggi Bammaeo sarebbe contento, vittoria per 1 a 0 contro il Parma, vittoria di fortuna. Sarebbe contento di Palombo, reinventato libero da mister Delio Rossi. “Come Mihailovic, quando Eriksson lo spostò al centro della difesa regalandogli una seconda giovinezza”, direbbe Bammaeo.

“L’hai vista?”, “Sì, l’ho vista”. “Hmmmm, ottimo Delio Rossi, grande allenatore”, direbbe Bammaeo.

Quando guardavamo le partite, in tivù, si stupiva sempre perché riconsocevo tutti i giocatori dalla faccia e dalla fisionomia, anche quelli sconosciuti. “Ma come fai a riconoscerli tutti?”, mi domandava stupito e ammirato per la mia memoria fotografica. “Dovresti lavorare alla Gazzetta dello Sport”, mi diceva sempre. “Magari, Bammaeo, magari”, gli rispondevo.

Il suo telecronista sportivo preferito era Stefano Bizzotto, della Rai. Bizzotto è l’unico telecronista Rai che conosce il tedesco, e che comunque è in grado di fare la cronaca pronunciando nel modo giusto i nomi dei giocatori stranieri. Bammaeo si domandava sempre perché non fosse lui il telecronista della Nazionale, “ci sarà una sorta di ostracismo nei confronti di Bizzotto, da parte dei cronisti di Roma. Altrimenti non si spiega perché continuino a far fare le telecronache a Galeazzi”, diceva Bammaeo.

Ho appena letto che a novembre dell’anno scorso Bizzotto finalmente è stato promosso dall’Under 21 alla Nazionale A come commentatore. Era l’ora. Vedo adesso su Google che Bizzotto è bolzanino, ecco perché sa il tedesco ed ecco anche perché finora non era lui a commentare la Nazionale.

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Quando mio padre lavorava ancora il momento clou per noi della famiglia era poco prima che rientrasse a casa. Ci preparavamo al suo ritorno a casa, consapevoli che dal suo umore sarebbe dipeso il resto della serata. Se mio padre era nervoso per questioni di lavoro la serata non era gradevole, perché lui si adombrava e spesso scaricava in casa i suoi casini.

Se le cose erano andate bene al lavoro te ne accorgevi subito perché era loquace al rientro. Se stava zitto e non si faceva vedere in cucina allora era maglio lasciarlo stare. Molte volte arrivava completamente cotto a casa e doveva sdraiarsi anche per colpa del mal di testa di cui soffriva. Una piaga, il mal di testa, che lo ha accompagnato per tutta la vita.

Lui era sempre molto impressionato positivamente del fatto che io e mio fratello avessimo una buna salute fisica. A posteriori mi rendo conto che aveva ragione, vivere con una malattia di qualunque tipo è un condizionamento pesante, soprattutto se sei costretto a lavorare e rendere sul lavoro come una persona sana.

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Quando qualcuno della famiglia si ammalava, Bammaeo era molto partecipe di questa malattia, qualunque essa fosse. Si immedesimava nel malato, voleva sapere come stava il malato, anche perché di sé diceva sempre che era un “poveretto”, un “malato”. Prendeva un sacco di pillole contro il mal di testa, una dipendenza che lo ha costretto tutta la vita a vivere in incognito da “paziente” senza però potersi permettere di essere davvero in cura.

Una volta quando avevo 23 0 24 anni mi ammalai di morbillo. Era estate, faceva caldissimo a Genova, mi ero preso la malattia in caserma, in Capitaneria di Porto dove facevo il servizio militare. Fui costretto a stare a casa, mi assisteva lui perché mia madre non c’era. Ero costretto a stare a letto, avevo la febbre altissima, e c’era un caldo tremendo. Ero molto incazzato, anche perché io non mi ammalavo mai.

Bammaeo sembrava quasi contento, come se la malattia fosse una specie di rivincita nei miei confronti che avevo sempre avuto la fortuna sfacciata di essere in salute.

Mi preparava delle minestrine e quando mi lamentavo mi diceva di non rompere le balle. Se mi prudeva il corpo mi diceva di non grattarmi, se no “ti restano i ponfi e le cicatrici”. E poi mi stava sempre a distanza perché non voleva rischiare di ammalarsi anche lui. Insomma, una sorta di vendetta assurda nei confronti della malattia. Abbiamo litigato tutto il tempo, mi portava delle minestrine bollenti e poi mi lasciava nella mia broda.

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Quando mio padre era piccolo era stato molto malato, aveva avuto una febbre reumatica che lo aveva costretto a letto per diversi mesi. Aveva rischiato di morire e dopo la malattia non ha più potuto fare tanti sport, in particolare non ha più potuto giocare a pallone. Non poteva sudare, doveva stare attento a non ammalarsi, e gli trovarono anche un brutto soffio al cuore.

Tutte queste cose mio padre le ripeteva sempre a noi figli: “Tu non sai cosa vuol dire vivere da malato, per me è un miracolo essere ancora vivo”. E’ ovvio che di fronte a frasi di questo tipo c’è poco da replicare, quindi io e Lollo stavamo muti. Però, il problema era che ti sembrava di avere di fronte un miracolato, un malato cronico, che però era costretto a vivere come una persona sana. Non so se riesco a spiegarmi.

A volte sembrava che Bammaeo fosse invidioso della salute di noi altri della famiglia e sembrava che si sentisse come un corpo estraneo. E in lui scattava una sorta di volontà di rivalsa, così ci faceva pesare la sua “superiorità intellettuale”, con cui compensava i suoi svariati handicap fisici, veri o immaginari.

Perché secondo me in molti casi si inventava tutto, ormai era di ventato un malato immaginario e in molte situazioni ci marciava, esagerando sintomi e malesseri. Anche se non posso esserne del tutto sicuro, magari era uno che stava male e che faceva molta fatica a portare avanti la quotidianità, su cui pesavano il mal di testa e la paura di ammalarsi.

Ricordo che ciclicamente gli venivano dei terribili attacchi di sciatica, che lo costringevano a letto per tutto il weekend. Il mal di testa sicuramente non era immaginario. E’ anche vero che era cagionevole di salute e non tollerava spifferi d’aria: “Chiudi la finestra, sei pazzo”. La testa era zona off limits, tabù, non bisognava sfiorargliela.

Era poi anche un contapalle cronico, piccole palle gratuite che probabilmente gli piaceva raccontare perché gli davano un brivido di suspence. Palle inutili. Un po’ in stile “Amici miei”.

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Oggi è il compleanno di Bammaeo, se fosse vivo avrebbe compiuto 75 anni. Stamattina mi ha chiamato mia madre, gliel’ho detto che oggi è il compleanno di Bammaeo, se l’era dimenticato. Non ci aveva pensato, tanto che mi ha detto invece che oggi è l’anniversario della morte di Aldo Moro, mi è toccato dirle che l’anniversario di Moro era ieri.

E’ vero che Bammaeo non dava importanza ai compleanni di nessuno e men che meno al suo. Però mi ricordo che quando gli telefonavo per fargli gli auguri gli faceva piacere. Non mi costava niente, lui faceva finta che non gli facesse piacere, ma poi invece era contento eccome e mi diceva “sai, non mi ha chiamato nessuno per farmi gli auguri”.

Prima parlando con mia madre si diceva che almeno poteva durare fino a 78 anni, sarebbe stato bello che vivesse ancora qualche anno. Anche perché in giro ci sono una manica di settantotteni che non hanno più nulla da dire alla vita ma che resistono e non ci pensano lontanamente a tirare le cuoia. Purtroppo questi sono discorsi assolutamente inutili, quindi, Bammaeo, tanto auguri e spero che ti farai una bella fetta di Sacher per festeggiare, ovunque tu sia. Oggi tra l’altro hanno rimandato Samp-Inter, era prevista in serale, c’è l’allarme meteo a Genova. Domenica di merda.

Sono le due e dieci di pomeriggio, siamo già usciti in bici con Pietro, siamo andati al Mc Donald’s di Re di Roma, a mezzogiorno eravamo già lì. Poi siamo finiti al parco, hanno rifatto la pavimentazione e i giochi a Piazza Re di Roma, bella sorpresa. Peccato che ci sia un tempaccio, così siamo rientrati e lui si è messo davanti al film degli Incredibili. Gli ho dato due Kinder perché si sta comportando molto bene, pur in assenza di sua madre che stasera rientra, dopo una decina di giorni di assenza per la malattia del padre, che per fortuna si è ripreso.

Sto seguendo la diretta di Siena-Cagliari, sono fermi sullo zero a zero.

Chissà Bammaeo come avresti commentato l’attuale fase politica, un ginepraio mai visto. Ieri hanno eletto i presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, nomine nuove, chissà come andranno le consultazioni per il nuovo governo. Bersani con questi due nomi ha dimostrato una grossa inventiva politica, chissà se basterà per fare un governo. Speriamo di sì.

Se non fosse il mio paese, se non fossi costretto a viverci e a subire le conseguenze sulla mia pelle di tutto quello che sta succedendo, sarebbe un film molto emozionante da vedere con un bel pacco di pop corn. Ma purtroppo siamo troppo coinvolti per guardare al nostro paese con occhi distaccati e freddi. Sembra che in Italia in questo periodo ci sia una riedizione della Primavera Araba, una sorta di palingenesi generale. Anche se i Cinque Stelle sono già spaccati dopo il voto per il presidente del Senato.

E’ quello che ci vorrebbe, una nuova Primavera, un nuovo inizio per questo nostro paese che è l’Italia. Si può anche ripartire dalla serie B, basta aver voglia di tornare su e metterci la gamba senza paura e senza snobismi. Non so se mi spiego, ma penso di sì. Se continuiamo a guardare indietro non succede niente di buono.

Siena-Cagliari, risultato finale zero a zero. Il Siena resta in corsa per la salvezza, un punto muove la classifica. Ora è a 25 punti, uno in meno del Genoa che stasera gioca a Firenze.

Mi piacerebbe commentare con te, Bammaeo, l’elezione di questo nuovo papa, papa Francesco. A me piace, è una figura che si è presentata bene, umile, in questo contesto di generale casino che ci circonda.

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Oggi il mio vicino di casa mi ha chiesto come va il mio libro su mio padre, gli ho detto che mi sono un po’ arenato in questo periodo. La Giusy è stata giù in Sicilia per due settimane non mi sono potuto dedicare alla scrittura, il mio blog è fermo. Le visite sono in picchiata, bisogna fare qualcosa. Bisogna produrre.

Oggi Pietro si è tagliato i capelli, gli hanno fatto una coppolata dal parrucchiere, sembra un po’ un fraticello con il codino lunghissimo. Gli ho fatto il bagno, per togliergli i capelli di dosso, adesso sta andando ad una festa. Alla festa del suo compagno di classe Pier Giorgio. In questo periodo con Pietro abbiamo un bellissimo rapporto che mi dà tantissime soddisfazioni, sono davvero felice perché stiamo bene insieme. Il rito della bici il sabato mattina è diventato un appuntamento fisso, lui lo aspetta e sono molto contento di vederlo pedalare.

Mi ricordo che mio padre mi diceva sempre “vedrai anche tu, com’è, quando avrai un figlio”. Me lo diceva di solito quando avevamo qualche screzio, ma se lui fosse qui gli direi che avere un figlio mi sembra una cosa davvero naturale, che rientra nell’ordine delle cose e che ti dà una prospettiva di futuro. Come un prolungamento di te in avanti, una sensazione molto bella. Ma probabilmente sarà stato così anche per lui, sono sicuro che ci teneva davvero tanto a noi figli.

L’altro giorno sono entrato nel post “Tutto su mio padre” e c’era un commento di spam davvero terrificante, l’ho eliminato. Speravo che fosse il commento di qualcuno.

Non mi sento mica tanto bene oggi, sono raffreddato e ho le ossa rotte. L’altra sera ho giocato a calcetto, in squadra con me, con la maglia arancione, c’erano tre stranieri, penso che siano romeni o polacchi, erano l’ossatura della squadra. Hanno giocato bene, abbiamo pure vinto, ho giocato bene. Ormai mi metto dietro, sulla sinistra, a fare il terzino.

Finché posso faccio qualche incursione in avanti, ma senza esagerare, sono diventato molto disciplinato tatticamente e cerco sempre di non lasciare scoperta la difesa. In passato pensavo sempre alla fase di attacco e facevo poca difesa, non mi restava il fiato per coprire.

Il mio blog è precipitato nelle visite, chissà perché. Devo mettere qualche nuova storia. Per attirare visitatori. In queste settimane ho pensato e ripensato a qualche episodio su mio padre, ma non mi è venuto in mente nulla di concreto. Soltanto qualche immagine, qualche flash occasionale.

In compenso mi è venuto in mente quando io e mio fratello Lollo andavamo a mangiare da mia zia e c’era l’uovo fritto con gli asparagi. Secondo mio zio Luis era una prelibatezza, ma mio fratello Lollo la pensava diversamente e lasciava tutto nel piatto.

A me invece piacevano gli asparagi e l’uovo fritto. Mi mangiavo tutto e anche l’uovo avanzato di Lollo.

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Le scarpe di Bammaeo. Non mi ricordo se le ho già scritte, però in sintesi usava le Adidas nel weekend, le Timberland a carro armato marroni basse, io le sue vecchie Timberland a Genova ce le ho ancora e quando vado a casa spesso le uso, anche se aveva il piede più grande del mio. Le Clark non le ha mai avute, strano a dirsi perché ai suoi tempi erano molto di moda.

Per il lavoro portava le Church, erano le sue preferite (credo) e le Fratelli Rossetti.

D’estate nel weekend si metteva le Sebago, un suo paio di Sebago le avevo ereditate e le avevo portate fino allo sfinimento. Stivaletti addosso non gliene ho mai visti, anche se ai suoi tempi erano molto di moda. Ma lui non era il tipo.

Scarpe inglesi, aveva una bella scarpiera molto ricca. Dimenticavo le Superga blu e le spadrillas, d’estate.

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A Bammaeo piacevano molto i barometri, non chiedermi perché. In casa a Genova ce ne sono due, uno rotondo e l’altro verticale, di grande precisione. Insomma, il meteo gli interessava e per controllare il barometro gli dava due toc toc, per smuovere la lancetta.

Gli piacevano anche le bussole, anche se non so a cosa gli servissero, più che altro come soprammobili. E i coltellini svizzeri, quando andavamo in vacanza per il pic nic ce l’aveva sempre in dotazione.

Gli piacevano le calcolatrici, ne ha avute a paccate, di tutti i tipi. Gli organizer e i cellulari, è stato uno dei primi all’inizio degli anni ’90 a possederne uno, per lavoro. Un enorme catafalco, credo che fosse un Motorola. Quando i telefonini non stavano ancora in tasca.

Di telefoni fissi, invece, abbiamo avuto in casa per secoli quello con la numerazione a circolo, grigio, nel corridoietto. Lollo da bambino ci passava le ore.

Poi, altri gadget tecnologici, il videoregistratore, i pc, Sky, parabola, ecc. Bammaeo era davvero always on.

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L’altro giorno ho ritirato gli occhiali da sole nuovi. Quelli vecchi li ho persi a Genova l’ultima volta che sono andato a gennaio per la Befana. Ce li avevo il giorno che con Pietro siamo andati al Porto Antico, poi quando sono tornato a casa non ce li avevo più. Una bella rosicata perché mi piacevano e in tanto tempo che li ho avuti non si erano per niente rigati. Pazienza, disse la volpe al lupo che si magnava l’asinello.

I miei nuovi occhiale da sole sono dei Persol, simili a quelli che aveva Bammaeo che ha sempre avuto dei begli occhiali da sole. Me ne ricordo in diverse fogge, ma i Persol sono sempre stati quelli che ha usato più spesso e quindi anche in nome di questo ricordo mi sono comprato questi Persol che ho pagato uno sproposito, speriamo di non perderli subito.

Stamattina al parco con Pietro me li sono messi e davvero sono fichissimi. Ottima protezione dal sole e belli ampi di lenti, così proteggono di più. Insomma, bell’acquisto. Bamma style.

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Prima con Chiara non so come è venuto fuori il discorso delle supposte. Ah, sì, Pietruzzo è malaticcio e si parlava del fatto che quando eravamo piccoli noi la supposta era un classico. Io mio ricordo che Bammaeo me la metteva, la supposta, anzi mi metteva L’Uniplus, sempre l’Uniplus per qualunque sintomo di malattia o febbre uno potesse manifestare. Il rituale della supposta era sempre un po’ laborioso perché ricordo che non mi piaceva per niente farmi mettere la supposta.

Bammaeo cominciava a dire “girati, girati! Apri, apri!”: una bella menata, perché a volte prendeva il palo, nel senso che non centrava bene l’orifizio e ti faceva un male porco. Poi, una volta suppostatto, mi chiedeva “è entrata?”. Se dicevo di sì cominciava a dire “stringi, stringi, così va su!”: io mi immaginavo la supposta che saliva su, nella mia pancia, come un siluro o un missile e che finiva in cima, vicino alla gola. Una cosa scabrosa, ma continuavo a stringere. E poi era vietato andare al bagno per le due ore successive alla supposta “se no non fa effetto e bisogna metterne un’altra”, diceva Bammaeo. E allora stringevo ancora di più, a scanso di equivoci.

Chiara mi ha detto che anche suo nipote ha la stessa para delle supposte, perché suo padre anche lui spesso, troppo spesso, prende il palo.

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