talentaccio

mi è tornata voglia di scrivere

29 maggio 2006

Sparring partner al corso di editing della minimum fax


Ieri sono andato a fare lo sparring partner al corso di editing della minimum fax. Ero tutto fiero, vado lì, mi prendono a pugni il mio romanzo. Meno male che l’ho finito, se no magari mi arenavo, belin mi sembrava di essere sotto il fuoco di una mitragliatrice incarognita dello space invaders. Ora mi toccherà riscriverlo, il mio romanzo. Meno male che c’erano due o tre cose che gli piacevano a sti Atari di editor che mi hanno frantumato il romanzo.

Ero circondato da questo fuoco incrociato degli editor, che mi hanno rivoltato i primi tre capitoli del romanzo come le calze da stendere o i jeans prima di metterli in lavatrice. Lo sapevi che li devi rivoltare i jeans, vero? Se non lo sapevi adesso lo sai, che lo sporco è quello dentro mica fuori.

Comunque, bella esperienza. Pugni presi (molti) e dati, mi sembrava di essere uno di quei pugili alle prime armi, quando l’allenatore gli dice sali sul ring e prenditi un sacco di botte, però non cadere subito mi raccomando. Detto questo, penso che mi sia servito, anche perché ho imparato un sacco di cose che non sapevo sul mio romanzo.

La prima, non lo sapevo, la differenza fra io narrante e io narrato. Ne parlava l’editor di Forlì, quello con la barbetta, che ci ho messo un po’ a capire di cosa parlava. Vuol dire che mentre scrivi c’è un io, quello narrato, che è il protagonista e un altro io, che è sempre lo stesso, però fa il figo, che commenta quello che fa il protagonista. Insomma, c’è un io che fa minchiate e poi c’è un altro io che le commenta come se lui non c’entrasse niente. Il secondo io, quello narrante, è come la moviola, per capirsi, la moviola in campo.

Un’altra cosa che ho imparato e che non sapevo è che strizzo l’occhiolino al lettore. Non me l’ero data, adesso lo so. Vuol dire che scrivo delle cose paracule per compiacere il lettore. Non me n’ero accorto, nche perché di solito al lettore non è che ci penso mentre scrivo ma d’ora in poi ci penserò, che è meglio. Poi, ho imparato che le anguille sono viscide e le bisce no e che il Duplo non è il Kinder Bueno. Cazzo, come ho fatto a sbagliarmi non lo so nemmeno io.

Poi, random, ho imparato che in Inghilterra non c’è la subway ma la tube e non ci sono i cents ma i pence. Che se uno è nato in Uruguay ci deve essere per forza qualcosa dietro, soprattutto se ha sposato una polacca. Belin.

Altre cose che ho imparato dalle pulci che mi sono entrate nei primi tre capitoli del romanzo sono che se per caso o per culo ti entra una bella cosa nel tuo romanzo, allora tu devi sempre scrivere delle cose belle perché potenzialmente puoi. Come se uno fa un gol della madonna in partita, se poi non lo rifà allora è scarso perché il pubblico si aspetta sempre il numero.

Ho imparato che se parli una volta di un pizzaiolo non puoi riparlare di un altro pizzaiolo dopo, anche se uno è kosovaro e l’altro egiziano e vive a mille chilometrici distanza e che se voglio giocare con il lettore devo cambiare scherzi se no si rompe, povero lettore, e che le cose se le ripeti non va mica bene, devi inventartene di nuove e sugose tutto il tempo. Tipo, che se lavori in un posto fatto di amianto, se la volta dopo lavori di nuovo in un posto pieno di amianto non lo devi dire; devi cambiare materiale. Non so, devi dire che lavori in un posto fatto di polistirolo o di polimeri o di das o di pongo magari o di lego.

Ho imparato che càccara si scrive con l’accento sulla prima à, se no leggono caccàra e che probabilmente càccara è una parola che la capiscono in due o tre i Italia, compreso me e Gippi. Ho imparato che se parli di troie non devi farlo in generale, ma devi sempre specificare di che modello di troia si tratta. Vero. E che le virgole sono importanti. Non lo sapevo.

Non lo sapevo, ma ho imparato che quando scrivo le mie cose sto accompagnando il lettore da qualche parte e che mentre lo faccio devo stare attento alla grammatica e alle ripetizioni. Io pensavo di scrivere e basta, battere sulla tastiera, ma non è così, sto accompagnando qualcuno da qualche parte. Buono a sapersi, in effetti è così. Li ho portati tutti con me nel cesso, che poi volevano sapere com’è andata a finire con la vecchia quando ha messo la dieci cents, che però non va bene perché in Inghilterra ci sono i pence, ma questo l’ho già detto (ripetizione).

Ho sentito Nicola che diceva che la scrittura è un bastone immerso nell’acqua che si spezza (non l’acqua, editor, il bastone si spezza, ok?). Questa mi sembrava una bella immagine, del fatto che la scrittura non potrebbe mai essere una mappa 1:1 della realtà. Poi, un sacco di altre cose. Era divertente la storia del pacco. Per me un pacco è un pacco, per una editor, quella che mi ha prestato l’accendino, il pacco è un’altra cosa. Ma quello era divertente, vedi, pensavo di accompagnare gli editor nella mia storia e invece li ho accompagnati nella loro di storia personale, bella storia.

Ho imparato che tutti i personaggi del mio romanzo fanno schifo, sono distrutti dalla vita, che non ce n’è uno che si salva e che le donne del mio romanzo c’hanno tutte l’acne e la coprono con il fard. E’ vero. Ho imparato che parlare del Dalai Lama è scontato, che il Lupo della Steppa si è già sentito in giro e che Arbeit macht frei potevo evitarmelo e che Massimo Boldi e Sara Simeoni possono andare fuori dal mio romanzo.

Ho capito che questi editor si aspettavano uno diverso, forse credevano che io fossi quello del romanzo, uno spaccone. Ma non è così, io narrato io narrante. Il protagonista del mio romanzo è uno che ce l’ha con il mondo intero, se fossi come lui non potrei fare un passo fuori di casa senza prendermi una marea di legnate sulla faccia. Poi, ho imparato che anche lo sparring partner si deve mettere il casco quando sale sul ring, se no sono mazzate.

No, è stato bello stare sul ring con gli editor. Però a volte tenere il punto era difficile perché non è mica che lì, in due secondi, puoi trovare delle risposte lucide per cambiare delle robe che sono scritte nero su bianco e non è nemmeno che mentre scrivi ti domandi tutto il tempo perché lo sto scrivendo, è come se un cuoco si domandasse tutto il tempo perché sto cucinando. Perché sono capace, ti dirà il cuoco. Non penso che ti dirà perché i miei clienti hanno fame. Ma magari sì. Boh. Per scrivere devi startene da solo, solo soletto, davanti al tuo pc e magari chiamare lì di fianco io narrato che ti dà due dritte per non prenderti dei pugni sulla faccia e se rompe le palle chiamare il cazzo con gli stivali così io narrante la smette di fare il primo della classe, belin.

Però ala fine è stato bello, perché per una volta invece di tirare pugni al sacco li ho tirati e presi a mazzate con un bel gruppetto di editor e di editors. Poi ho imparato che i neologismi non vanno bene. Mi sa che l’editor come figura è uno molto importante per lo scrittore, perché gli fa da coscienza. Come un muro che ti rimbalza le minchiate che scrivi. E mi rendo conto che fare da coscienza critica a qualcuno è un compito difficile. Per esempio, a me mi piaceva quello che mi diceva la editor fiorentina, con gli occhiali, che era molto pacata e precisa.

Per il resto, penso che il mio romanzo sia molto piaciuto e mi fa piacere e se si sono fatti due ciocchi a leggerlo sono contento. Fra un po’ di tempo ci rimetterò le mani, adesso lo lascio un po’ decantare, come dice Christian. Ieri è stata una bella full immersion. La cosa strana era quando mi chiedevano, ma l’hai scritto apposta così? Ma ste ripetizioni le hai scritte volontariamente? Ma sto passaggio così pesante è voluto? Ma questo snodo perché l’hai liquidato così? Oh, belin, c’ho anche delle altre cose da fare, oltre a scrivere come un grafomane malato di tastiera. A parte lavorare, poi non so fare la spesa, guardarmi intorno e altre cose se no poi cosa scrivo?

Le cose che sono piaciute di più del mio romanzo sono state il cesso chimico, la tirata dei lavoratori, Kurt, la Guendy (quella me la sono totalmente inventata) e altre cose che non ricordo. Invece non gli piacciono i pacchetti preconfezionati e le soluzioni troppo facili oppure i riferimenti ai personaggi famosi. Buono a sapersi. Belin, mi toccherà farmi il culo, ma scusa l’editor non è che lo può scrivere lui il romanzo? No, stavo scherzando, piuttosto che farglielo scrivere all’editor belin mi metto in palestra come Rocky I (lo so che non dovrei scriverlo, che è scontato caga minchia di un editor). Allora cambio, come Raffo all’Audace, che mi sembra che assomigli un po’ al pizzaiolo kosovaro che parla swahili. Tiè.

Belin, non mi sono nemmeno potuto troppo concentrare sul fatto che c’erano delle belle editor, erano pugni in faccia appena mi distraevo un secondo. Ma il femminile di editor non esiste? Editrix? Ok, per me le editrix erano valide, solo che io l’occhiolino te lo dico non lo strizzo a nessuno al massimo mi strizzo i brufoli mi strizzo.

Ah, mi ero dimenticato una cosa. E’ vero, io sono un aspirante scrittore, aspirare aspiro di brutto, l’avevo già scritta sta cosa dell’aspira scrittori, e lo dicevo anche ieri, se ci sono degli editor che hanno voglia di continuare a editarmi soprattutto editrix che un occhio femminile magari non fa male, anche se l’editor più tignoso è quello che oggi è a Fano a farsi il bagno (beato lui) e quello più preciso, io sono contentissimo di prendemi ancora un bel po’ di botte da voi editors.

Leggi tutto

27 maggio 2006

Ma come si fa


L’altro giorno ero in macchina, non guidavo da un sacco di tempo. Ero in macchina, avevo appena messo in moto, una Focus nuova di pacca. Il tergi lunotto era azionato dal giorno prima. Non riuscivo a fermarlo. Ero seduto lì, avevo messo in moto, però stavo fermo, il tergi lunotto continuava ad andare da solo. Spostavo la levetta, non era mia la Focus. Era in affitto. Non conoscevo i comandi. Alla fine, ho telefonato a uno con la Ford, mi ha detto come fare a fermarlo. Bisognava spingere la leva in avanti. Da solo non ci sarei mai arrivato.

Guidare sul lago è bellissimo. Guidare mi piace da morire. C’era un tempo bellissimo, sul lago, in mezzo alle montagne. Erano mesi anzi anni che non vedevo le montagne. Le amo le montagne. Poi, la cosa bella del lago è che vedi la fine. Guardi l’acqua ma poi ci sono le sponde del lago. Ti immagini che se sei lì, in mezzo al lago, in qualche modo a riva ci torni. Se non altro perché la riva la vedi sempre.

Il mare invece ti ci perdi con lo sguardo. Vedi l’orizzonte, ma se guardi dalla parte sbagliata, verso il mare aperto, a volte ti perdi. Certe volte quando guardo il mare lo sguardo mi si perde nell’orizzonte e mi manca la terra sotto i piedi io con la mia zattera in mezzo alle onde, che a volte arriva la tempesta e tu sei lì, in mezzo al mare, e non puoi fare altro che pregare.

Poco fa ho aperto Repubblica.it e ci sono rimasto male. Anzi malissimo. In home page c’è la notizia del terremoto a Java, che ha distrutto Yogyakarta. In questi giorni ho scritto il mio romanzo, adesso è finito, sono arrivato al capitolo 17 anche se in realtà era il 16, mi sono sbagliato, ho saltato un capitolo, si vede che avevo voglia di finirlo al 17. I capitoli dal 13 al 15 più o meno del mio romanzo, non so come intitolarlo, pensavo di chiamarlo Mailand, sono dedicati a Java e all’Indonesia. Soprattutto a Yogyakarta. Ci sono rimasto di sale quando ho visto le foto su Repubblica.it di tutta quella distruzione del terremoto. C’erano le foto del Borobudur, non ho capito se il terremoto lo abbia danneggiato, spero davvero di no, è bellissimo il tempio del Borobudur.

Adesso che ho finito il mio romanzo mi sento come svuotato. E’ come se mi avessero preso e mi avessero messo sottosopra per svuotarmi, come una bottiglia. Non so se mi spiego. Come uno che lo prendono, lo rovesciano e gli cadono tutte le cose dalle tasche solo che a me mi cadevano le cose da dentro e si andavano a fissare sulla carta del mio romanzo. Sono 60 pagine, il mio romanzo.

Domani vado alla minimum fax, sono troppo fiero, mi fanno l’editing dei primi capitoli del mio romanzo. Mi fanno le pulci al romanzo, per me possono farmi pure le zecche al mio romanzo intanto l’ho scritto, è questo che conta. Dice che uno scrive sempre lo stesso romanzo. Io il mio l’ho scritto semmai lo cambio, lo limo un po’, lo abbellisco lo sego e lo poto come un bonsai. Però intanto le radici sono belle piantate nella carta del mio romanzo.

In questi giorni mi sono sentito strano in tangenziale al volante della Focus. Erano anni che non guidavo in tangenziale a Milano. Tornare nel traffico di Milano mi ha dato l’impressione di rituffarmi in una dimensione familiare, non ci ho messo mica tanto a rimettermi in carreggiata, li conosco i clacson dei milanesi, gli voglio bene. Era strano guidare nella mia città, perché Milano sarà sempre la mia città, quella gran puttana di Mailand, la adoro.

E mi sentivo a casa mia nel traffico e nell’aria grigia a scansare quei coglioni in bici a Mailand, che secondo me hai voglia di morire se vai in bici a Milano.

Al lago invece mi è venuto in mente tutte le volte che ci sono passato con mio padre, in macchina, con mio fratello e mia madre, in macchina, verso la Valtellina. Ci passavamo sempre per andare a Livigno, in vacanza, sul lago di Como. D’estate. Bello il lago, poi si vedono le rive dall’altra parte, non come il mare che se guardi a lungo l’orizzonte ti sembra di diventare tutt’uno con quella linea lì, l’orizzonte.

Era da un sacco di tempo che non scrivevo il mio blog. Mi mancava. Ma da un mese a questa parte ho scritto il mio romanzo, mi sono dovuto concentrare, è stata dura. Per fortuna adesso ho finito, 60 pagine, 17 capitoli, mi fanno l’editing dei primi capitoli alla minimum fax, sono davvero contento, sono curioso di vedere cosa mi dicono del mio romanzo. Ero davvero incazzato quando scrivevo il mio romanzo, molto ma molto incazzato. Adesso sono calmo. Mi sembra come se scrivendo il mio romanzo ero come il mare, l’acqua del mare, oppure io in mezzo al mare, che non vedi la riva.

Adesso invece che scrivo nel mio blog mi sembra di essere in un lago, l’acqua è calma, sono al volante della Focus, guido, il tergi lunotto ha smesso di andare per i cazzi suoi raschiando il vetro dietro, vedo le rive e le montagne che delimitano l’acqua. Non sono più in mezzo alle onde del mare con la mia zattera, che porca troia in questi mesi mi sono preso una tempesta nelle mutande.

L’altro giorno con la Focus sono passato davanti a via Sammartini, dove vivevo all’inizio a Milano. C’erano dei lavori, era tutto diverso, stanno costruendo un parcheggio sotterraneo. Non mi sono fermato. Non mi sono nemmeno emozionato. Poi, mi sono comprato la Repubblica, c’era l’inserto Vivi Milano, c’era un articolo, hanno aperto l’Argelati, c’era una foto della piscina, si vedeva il palazzone dove vivevo. Mi sono emozionato un po’. Come si fa. Se tu lo sai dimmelo, a non emozionarsi dico, quando vedi l’Argelati. Come si fa. Dimmelo tu.

Ieri ero in via Opita Oppio e Pirandello mi ha detto che molti artisti hanno scritto o fatto le cose migliori quando erano in analisi. A me Pirandello mi pompa sempre, mi sembra il mio personal trainer, solo che non mi pompa i muscoli, mi pompa la personalità e mi pompa l’autostima. Hai voglia di pompare, Pirandello. Però sei simpatico, Pirandello, soprattutto quando mi dicevi che anche Fellini ha fatto le cose migliori mentre era in analisi. Quando per darmi fiducia in me stesso mi hai detto che otto e mezzo l’ha girato mentre era in analisi. Quando mi hai detto che Fellini l’ha detto a tutti che otto e mezzo l’ha creato mentre era in analisi. Semmai, Pirandello, ti dico grazie. Ma te lo dico lo stesso, stavo come una merda secca all’inizio. Adesso va meglio, sono più calmo, mi sembra di essere un lago e non un mare forze nove. E’ già buono così.

Leggi tutto

16 maggio 2006

Al bar con Fiorello e Joyce


L’altra notte ho fatto un sogno. Sono in un bar, dietro il bancone c’è Fiorello che ride, con il suo nuovo look con i baffetti. Lo guardo, non mi fermo al bancone, mi siedo a un tavolo.

Ad un certo punto, mi compare a tutto schermo l’immagine di un vecchio, ma vecchio di brutto, con i capelli bianchissimi tutti tirati indietro e gli occhiali rotondi con la montatura di metallo. E’ seduto su una sedia a dondolo, sta oscillando avanti e indietro, come fanno i vecchi: “dondolo ridondolo”, come diceva una vecchia sul palcoscenico di un’opera di Beckett, l’ho vista al Teatro della Tosse, almeno dieci anni fa, anzi di più.

“Dondolo ridondolo”. Poi, una voce fuori campo dice che il vecchio è James Joyce. Cambia scena, sono seduto al tavolo del bar di Fiorello, sto leggendo il necrologio di James Joyce, stampato di spalla sinistra sul giornale. Leggo, è un coccodrillo con i contro maroni, tutto scritto bene, leggo “James Joyce è morto ieri all’età di 161 anni”, intanto, noto che la foto sul necrologio è in dissolvenza, tutta granulare, e che in realtà ritrae non la faccia del vecchio sulla sedia a dondolo ma un’immagine di un incappucciato, ma i lineamenti non si vedono proprio, l’immagine è troppo sbiadita. Però, ripensandoci, mi ricorda la statua del Giordano Bruno. Arriva Fiorello, legge un po’ il necrologio insieme con me, poi ci rompiamo le palle, lui ride, mi porta una birra, una pinta, e iniziamo a parlare del più e del meno.

Mi sono svegliato ed ero tutto contento di questo sogno. Erano mesi che facevo una raffica di incubi e finalmente comincio a sognarmi delle robe fighe, belin era l’ora. Mentre cercavo di ricostruire la sequenza del mio sogno, pensavo che Fiorello è un bel personaggio, soprattutto perché ha iniziato da imitatore, un po’ alla Sabani, però poi si è evoluto di brutto, adesso è il re di Radio 2, è riuscito a risuscitare un canale di comunicazione che sembrava morto e defunto.

Poi, se riesci a sfondare in radio sei uno davvero tosto, anche perché non puoi mica fregare con gli effetti speciali, in radio, come si fa normalmente in tivù. Insomma, Fiorello è uno che ha superato una fase iniziale di mimesi, quando imitava lo stile degli altri, per trovare finalmente il suo personaggio, un personaggio assolutamente originale, che in più si esprime su uno strumento di comunicazione assolutamente innovativo ma antico quindi autorevole, la radio. Chapeau.

James Joyce è stata la sorpresa delle sorprese. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’età di morte, 161 anni, che Matusalemme era più giovane. Una parte antichissima di me, che se ne va. Però la cosa bella è che non sono poi troppo triste della sua morte, anche se ovviamente resta una perdita.

Non l’ho mai letto Joyce. Però al risveglio ho subito pensato all’Ulisse di Joyce, ne ho sentito parlare un sacco in passato, lo associavo al mio personaggio mitico preferito, quello che “fatti non fummo a viver come bruti, ma a seguir virtute e conoscenza”. Con la differenza che l’Ulisse di Joyce, come me lo immagino io, è uno moderno, poi sapevo che descrive i flussi di coscienza di una persona normale, contemporanea, e si vede che il mio inconscio mi dà i consigli di lettura.

Oggi sono andato da Feltrinelli, mi sono comprato il libro (15 euro) della Mondadori, c’è una guida alla lettura, mi sa che non sarà semplicissimo leggerlo, però sono troppo curioso, magari me lo tengo per quest’estate.

Leggi tutto

15 maggio 2006

Belin, ma quando si ferma?


Belin, da due ore anzi da tre ore c’è questo cazzo di elicottero in cielo che vola in tondo sopra la mia testa. Mi dirai, chissenefrega. Ti dirò hai ragione. Peccato che siamo al centro di Roma, va bene che il nuovo presidente della repubblica del nostro paese, che è l’Italia, si insedia oggi, però, belin, ok che è uno importante, Napolitano, ma è tutto il giorno che sto elicottero gira in tondo sopra la mia testa e mi ha rotto potentemente la minchia.

Detto questo (l’elicottero continua a ronzare, ma cosa pensano, che qualcuno faccia un attentato a Napolitano il primo giorno? Fra parentesi, non mi azzardo a tornare a casa adesso perché ci sarà tutta Roma blindata, strade bloccate, vigili in pompa magna, magari è girata una circolare oggi che si dovevano lucidare le scarpe oggi, che è un giorno importante con l’insediamento del presidente della repubblica, un giovane tra l’altro, l’età media del parlamento del nostro paese, che è l’Italia, mi sembra che sia sui 72,5 anni, siamo messi bene. La prima legge che voteranno sarà una nuova tassa per finanziare gli ospizi, poi magari sulla legge Biagi invece ci staranno qualche anno prima di decidere di fare qualcosa per gli under 70, che cominciano un po’ a scarseggiare da noi. Tra parentesi, leggevo che lo sperma degli uomini italiani scarseggia, nel senso che sembra che l’utilizzo di cellulari, palmari, computer portatili ecc. distrugga la qualità dello sperma degli italiani. Occhio, italiani, difendete il vostro sperma che se no poi dicono che siete sterili, che in realtà secondo me non è vero, è tutta una montatura giornalistica, montati di giornalisti conta musse che non siete altro).

Detto questo (l’elicottero continua a girare in tondo, nel cielo terso di una Roma finalmente primaverile, si cominciano a vedere le prime cosce in giro, che è sempre un bel vedere, cosce romane pingui e bianche, in effetti dalle mie parti le donne sono più abbronzate, mi dirai che scoperta, c’è il mare. Ti dorò, oggi mi sembro un po’ rinco, quindi non rompermi il cazzo se dico qualche minchiata di troppo).

Parlando d’altro, volevo dire che questa storia di Moggi è favolosa. La cupola del calcio, scoperchiata così, all’improvviso, con le intercettazioni e tutto il resto, stile furbetti del quartierino. Belin, ma l’avranno capito o no i vip che non devono parlare al cellulare, che l’unica cosa che sanno fare davvero bene nel nostro paese, che è l’Italia, è metterti sotto controllo il cellulare? Dove andremmo a finire senza cellulare. Dimmelo tu. Intanto, senza cellulare, gli italiani sarebbero tutti potentissimi, altro che sterili. Sarebbero tutti lì a procreare, a mettere incinte tutte le donne che incrociano per strada. Vuoi mettere quanto tempo a disposizione avrebbero senza dover parlare al cellulare? E a quanti danni strutturali al loro sperma, che sta fino a prova contraria rintanato nei loro coglioni, sarebbero evitati senza le onde elettromagnetiche dei cellulari? Belin, hai visto che pensieri profondi oggi, eh?? Sei stupito, eh??

A parte che continua a ronzare, sto cazzo di elicottero. Però, volevo dire che in sti giorni sto lavorando come un dannato. Freelance su freelance. Poi, sto andando avantissimo con il mio romanzo. Belin, lo rileggevo ieri, è fichissimo. Me lo dico da solo, ma se non lo pensassi non lo direi.

Ieri a Monti c’era una ragazza con delle cosce bellissime, bianche, a gambe nude sotto la gonna corta di jeans. Era splendida. Erano mesi che non riuscivo più a guardare una donna con questo occhio. Le donne sono belle, non c’è cazzi. Questa donna, una ragazza giovane sui vent’anni o giù di lì, era davvero un fiore. Poi, sorrideva sempre alla sua amica (lei invece aveva i denti troppo in fuori, per i miei gusti che saranno quello che saranno, però anche io c’ho dei gusti personali, scusa se te lo dico). Poi, l’amica faceva la fatalona, ma con quei denti lì al massimo doveva fare la controfigura di Furia, ma lo dico non perché sono un bastardo, non sono un bastardo non mi permetterie mai poi adesso che sto perdendo i capelli e mi sta venendo la pancia se mi permetto di dire queste cose all’amica è soltanto perché se c’hai i denti di Furia e porti i Persol (da sole) che sono gli occhiali da sole di Gianni Agnelli ma c’hai vent’anni in croce, ma soprattutto se esci in coppia con un’amica molto ma molto più fickha di te - notate il nuovo spelling, l’ho copiato da Remo e mi sembra davvero molto ma molto adatto quasi onomatopeico a definire l’oggetto/soggetto/luogo fisico e metafisico insieme racchiuso in questo termine a volte troppo abusato; ci vorrebbe la patente per usare certi termini, fickha è in cima alla lista - bhè, allora ci devi stare attenta. Soprattutto se la tua amica ha la fortuna di avere cosce così su un sorriso di quel tipo, un sorriso strappalacrime da applausometro.

Detto, questo, l’elicottero c’è sempre, se no me n’ero già andato da mo’ a farmi una birra a Monti, maniman, la tipa dalle cosce di latte è di nuovo lì. Mai disperare. Guarda che anche le cupole più cupole prima o poi saltano. Guarda il moggismo. Basta. Ho fatto un sogno bellissimo l’altra sera, prima o poi la ruota gira, o no, erano mesi che mi facevo questi incubi del cazzo, benvenga un bel sogno, o no. Domani mi sa che mi compro l’Ulisse di Joice, mi dirai, cosa c’entra col sogno, ti dirò, ora sono diventato gentile e non ti dico di farti i cazzi tuoi, però ti dico c’entra, eccome se c’entra.

Leggi tutto

11 maggio 2006

Dal quagliaro


Stavo guardando il mio blog, è fermo da un po’ il mio blog. In questi giorni mi sono preso una pausa dalla scrittura. Che in realtà vuol dire che mi sono preso una pausa da me stesso. A volte sono troppo pesante per me stesso, allora mi fermo. Però non dura a lungo, perché poi torno in me e non ce la faccio a non guardarmi dentro.

Ieri sera siamo andati dal quagliaro. E’ un ristorante al Quarticciolo, sulla Prenestina ma lontano. In via Manfredonia, davanti al quagliaro c’è scritto “Giovedì riposo”. Perché la gente ci sono dei giorni che si riposa, anche io lo faccio, mi riposo da me stesso, a volte. Come in questi giorni. Però poi torno. Ieri sera dal qaugliaro mi sono mangiato un sacco di pizze. Ci sono queste pizze un po’ più piccole del solito, buone, una diavola, una capricciosa, una con i funghi.

Poi sono arrivate le quaglie. Buone le quaglie, con i funghi. Ad un certo punto sono uscito a fumarmi una sigaretta, lì davanti al quagliaro, c’era una madre con un bambino, il suo bambino, avrà avuto poche settimane. Lo teneva in braccio e lo cullava un po’, su e giù, povero bambino biondino. Questa madre aveva il corpo sfatto, era più larga che lunga, portava una tuta da ginnastica e scarpe da ginnastica.

Parlava con le amiche, facce da Quarticciolo intagliate nelle ossa e nella carne della Prenestina, e diceva sto bambino devo sempre tenerlo alla luce, perché quend’ero in ospedale c’era sempre la luce accesa e adesso sto bambino se sta al buio piange subito. E le amiche facevano sì con la testa. Spengo la sigaretta, rientro dal quagliaro, quando entro incrocio il padre che sta uscendo con la carrozzella, è magrissimo, capelli neri, la metà della moglie come stazza.

Mentre aspettavamo le pizze e le quaglie, giù dal quagliaro, raccontavo alla gente al tavolo due o tre cose divertenti che mi sono capitate negli ultimi tempi. L’ultima, è stata l’altro giorno dal benzinaio di via Cavour. Mi fermo dal benzinaio, non il solito quello all’angolo dei Fori Imperiali – era chiuso, erano più o meno le sette di sera ed era già chiuso il mio benzinaio solito, quello grasso – e mi sono dovuto fermare a quello un po’ più su. C’era uno slavo alla pompa, di quelli che stanno lì quando il benzinaio ufficiale è a casa, perché ha finito il suo turno. Lo slavo si ferma lì perché spera di raccattare due spicci gestendo l’operazione di inserimento delle banconote nella macchina e poi facendo lui il lavoro di benzinaio abusivo.

Mi fermo, metto la cinque euro nella macchina dei soldi. Lo slavo stava facendo il pieno a una Mercedes, mi passava davanti senza dire niente. Però mi guardava storto, probabilmente perché l’ho scavalcato. Però me ne sono fregato, non avevo voglia di aspettare in coda il mio turno da quell’abusivo. Potevo farmela da me la benzina, non sono mica mutilato.

Stacco la pistola della benzina, la metto nel buco della benza nel motorino, premo. Non viene fuori niente. Mi guardo intorno, come se guardandomi intorno qualcuno o qualcosa avesse potuto cambiare le cose. Riprovo. Niente benzina. Rimetto a posto la pistola. Vado davanti alla macchina dei soldi, intanto lo slavo l’aveva già ricaricata per un altro cliente, mi passava davanti senza dirmi niente, anzi faceva finta che io non fossi lì.

Poi, ristacco la pistola, riprovo a fare il pieno perché con cinque euro ci fai ampiamente il pieno al mio Free, anzi gli regali un euro perché al massimo ci stanno dentro quattro euro di benzina nel mio Free. Riprovo, niente. Riattacco la pistola alla pompa, mi chino, guardo la pompa dal basso, come se guardando la pompa dal basso potesse succedere qualcosa, chessò un miracolo. Intanto lo slavo continua a passarmi davanti, senza dire niente. Guardo lo slavo, come se fosse colpa sua che la benzina non esce dalla pompa. Lo guardo di sbieco, me ne rendo conto, d’altra parte non faccio nient’altro se non rispondere al suo di sguardo storto nei miei confronti.

Quando mi passa davanti per l’ennesima volta, gli dico scusa, sai perché non funziona la pompa? Mi guarda, mi risponde in italiano slavato – slavico, slavo, italiano mezzo slavo – e mi dice hai messo i soldi? Gli dico sì, se no non te lo chiederei, o no. Lui mi passa davanti e mi dice pensa.

Io penso. Ma non mi viene niente. Pensa che ti ripensa, c’è il vuoto cosmico nella mia testa. Ritento l’ultima volta con la pistola. Niente. Allora, mi piazzo davanti allo slavo e gli dico scusa, sai perché non viene la benzina? Lo slavo finalmente mi guarda in faccia, mi fa le sue rimostranze dicendo perché mi domandi ora visto che hai fatto tutto da solo. Insomma, mi punisce, si vendica del fatto che l’ho scavalcato, poi mi chiede che numero di pompa hai schiacciato, gli dico quella, la due. Poi mi guarda e dice quella che usi da dieci minuti, quella che stacchi e riattacchi, è la pompa numero uno. Hai sbagliato pompa, allora gli chiedo per favore di farmelo lui, il pieno, allora lui lo fa. Poi gli lascio i soldi, le monetine che mi restano nel portamonete, tutte, gli dico sì, sono un cretino, sai certe volte sono un cretino, lui tace, non si aspettava questa ammissione di cretineria, gliel’ho data vinta, lui si vede che lo pensava e me lo borbottava fra i denti da dieci minuti, sei un cretino, pensa cretino, ma ora che lo dico è deluso. Metto in moto e me ne vado a casa.

Poi, siamo andati dal quagliaro. Verso le otto e mezza è passato Giorgio con il cassone del socialdemocratico, la sua Volvo gigantesca, che in svedese si chiama sosse lodan (cassone del socialdemocratico) e siamo finiti laggiù, dal quagliaro. Abbiamo mangiato come cessi, tutti quanti come cessi. Tutti quanti pizze e quaglie, buone le quaglie con i funghi. Al tavolo c’era Giorgio, che continuava a versarmi quel bianco della casa dalla bottiglia di vetro del latte. Ci hanno fatto aspettare di brutto, ho bevuto come una latrina, ho appena preso un Aulin adesso, per il mal di testa da hangover per il vino lurido del quaglairo di ieri sera, che mi è venuto oggi per quel vino della casa, non era nemmeno troppo buono.

Poi, al tavolo c’erano Anna e Silvia, un’amica di Carla, c’era anche Carla. Anna e questa Silvia fanno tutte e due degli sport violenti, Anna fa boxe Silvia Tai kondo. Dicevo che strano che le donne fanno sempre più spesso questi sport di violenza, poi loro dicevano che non combattono mai e che quando vanno combattono solo quelle che ne hanno voglia e loro preferiscono fare l’addestramento senza combattere. Pensavo che se fai boxe allora vuol dire che dovresti anche combattere, però poi uno fa un po’ quello che vuole o no e mi sono mangiato mezza quaglia in un solo boccone.

Come sempre sembravo uno che non mangia da sei mesi, non so come mai ogni volta che mangio c’ho sempre questa fame atavica, come se c’avessi un cratere nello stomaco. Un cratere che non si riempie mai e che cerco di riempire fra un pasto e l’altro ma poi alla fine si riforma sempre, in poche ore, sembra che non si riempia mai, è un pozzo senza fondo la mia pancia finché poi non inizierò a ingrassare di brutto e forse prima o poi se continuo a magnare e bere come faccio succederà. Che ingrasserò. E chi se ne fotte.

All’uscita del quagliaro, che dentro al tavolo c’era anche questo amico di Anna che magnava e beveva era emiliano e ha anche descritto come si prepara un salame, fisicamente dico, come si fa e con quali ingredienti lo si riempie, e faceva la descrizione con le mani, ho notato che Silvia, l’amica di Anna, una ragazza con i capelli lunghi lisci che ha magnato quaglie di gusto, ha un Hexagon. Io a tavola avevo raccontato, così per passare il tempo, di quella volta che a via del Plebiscito ero sul mio Free 50, stavo andando al lavoro a Piazza Argentina, e proprio davanti a palazzo Grazioli uno mi supera sulla destra con l’Hexagon, quel bestione di scooter che fa paura a vederlo da fermo, pensa te come sono in movimento questi Hexagon, sembrano bufali con le ruote.

Allora, quando questo qua mi supera sulla destra con l’Hexagon mi cago sotto, non me l’aspettavo, e dal mio Free lo mando affanculo e comincio a urlare come un ossesso. Questo, invece di scappare – si vede che non si è molto spaventato delle mie minacce – frena, aspetta che lo raggiunga e mi chiede che ti ho fatto. Io, gli vomito sopra che guarda, stronzo, mi hai superato sulla destra, non si fa di superare sulla destra, mi sono spaventato, stavo per cadere, non si guida così ecc. ecc. insomma, un’invettiva di tutto punto. Sto qua, più incuriosito che altro, mi dice guarda che non ho fatto niente di male o di strano, superandoti sulla destra. Il traffico romano va così. Non sei romano tu, vero? Mi chiede così, gli dico di no, lui fa ah, ho capito e accelera e se ne va via. Tranquillo e serafico come un papa appena eletto.

Leggi tutto

05 maggio 2006

Exit, please, automatic washing in a few seconds


E’ cominciato tutto in una brughiera, una decina di anni fa. Una brughiera ghiacciata con la terra dura come l’asfalto. La brughiera sembrava una steppa, ma non ero in Russia. Ero in campagna, in mezzo al nulla. Il terreno era più duro che in tutte le città del versante occidentale. Io camminavo lì, al freddo siderale, in mezzo a muschi e licheni, come c’è scritto nei libri di geografia. Ma questo non era un libro delle medie. Era il percorso che facevo tutte le mattine per andare al lavoro, con il vento che mi sferzava la faccia. Perché il lavoro è importante, il lavoro nobilita l’uomo, “Arbeit macht frei”. Stavo andando al lavoro, nel capannone industriale lassù nel suburbio di Londra. Al lavoro, era il 1996. Non sapevo ancora niente.

Il lupo nella steppa, pensavo lì nella brughiera, evitando di calpestare la merda ghiacciata di qualche vacca estiva, la merda ibernata là da qualche mese ormai, lontano ricordo del pascolo soleggiato. Sempre la stessa merda ogni mattina, marrone sotto al ghiaccio, nella brughiera, lungo la linea retta che mi portava dritto al mio posto di lavoro. Sotto allo strato di ghiaccio della brughiera inglese c’erano anche degli insetti morti, sempre gli stessi calabroni, ghiacciati lì sotto la trasparenza del ghiaccio sporco.

“Oggi mi licenzio”, dicevo fra me.

Ai tempi, lavoravo in questo capannone industriale, nel cerchio concentrico più lontano dei mille gironi infernali che formano le spirali di Londra. Zone six. Per arrivare a Piccadilly, zone one dell’underground, dovevo sobbarcarmi cinquanta minuti di subway. Per la precisione, mi trovavo in una brughiera di Watford, un posto dimenticato da dio e dagli uomini, conosciuto soltanto perché nella squadra di calcio ci giocò Vialli, a fine carriera dopo il Chelsea e ci allenò pure. Il presidente della squadra era Elton John, lo stadio era tutto curato per essere una squadra di serie B, e l’ultimo allenatore che ricordo sulla panchina del Watford era Luther Blisset. Sì, quello vero. Il centravanti del Milan, quello che non segnava nemmeno se stava con la palla sulla linea di porta da soffiarla dentro. Luther Blisset, allenatore del Watford 1996-1997.

Il mio lavoro a Watford lo odiavo. Ero un tele marketing, anche se il mio boss me lo spacciava da international key account. I soliti paroloni, ma stringi stringi ero uno schiavo, uno schiavo telefonico. “Come ti chiami? Kunta Kinte. Come ti chiami? Kunta Kinte. Come ti chiami, Toby….”, mi ripetevo ossessivamente questa litania dello sceneggiato Radici, lì nella brughiera di Watford, camminando verso il mio ultimo giorno di lavoro in quel capannone di amianto e lamiere. Poi pensavo che quello era l’ultimo giorno e sarei tornato a casa. Basta. “L’inglese l’ho imparato”, pensavo.

Il mio lavoro era semplice, sulla carta. Dovevo cercare nuovi clienti esteri, da quel buco di culo di Watford. Dovevo cercare di piazzare videocassette in lingua originale, in inglese, a qualche malcapitato che vendeva videocassette all’estero. Ero pure in contatto con la Ricordi di Milano, in Galleria. Non avevano comprato niente, si vede che avevano i loro canali. Il mio lavoro era lo stesso identico di quegli sfigati che oggi ti chiamano e cercano di venderti l’olio Carli, al telefono, che gli sbatti il telefono in faccia ancor prima di farli fiatare. Io però vendevo videocassette, in lingua originale. Lavoravo in un magazzino industriale, una rivendita all’ingrosso di videocassette.

Io parlo quattro lingue, ho studiato io, le lingue servono per lavorare, quindi all’epoca il mio capo - si chiama Ken Hill se è ancora vivo. Un uomo sui quarant’anni, padre di due splendide figliolette una sui cinque l’altra sui sette, biondine e rumorose, marito di una moglie da stupro – mi aveva reclutato per rimpolpare le vendite sul mercato estero. Non gli sembrava vero che arrivasse un novellino da sverginare. Un neolaureato italiano, da sverginare a sangue nella brughiera inglese. Era venuto a prelevarmi nella sua Bmw fiammante e le figliolette al seguite, a Heathrow.

All’epoca avevo 26 anni e una laurea fresca in filosofia teoretica. No comment, certe cazzate non possono essere commentate, certi errori li fai e li paghi per la vita. Sono di Genova io. Mi trovavo in viaggio premio in Inghilterra, per imparare l’inglese. “Studia le lingue, che le lingue servono”, diceva sempre mio padre, che per l’occasione aveva aperto il portafoglio e mi aveva pagato il viaggio in Inghilterra. In fondo andavo a studiare l’inglese e poi avevo trovato lavoro. “Magari si sistema”, avrà pensato mio padre, povero coglione.

Ero rimasto lassù, dopo il corso estivo d’inglese, per perfezionare la lingua ed ero finito lì, a Watford, dopo un rapido colloquio in una employment agency, un’agenzia di collocamento, nella località balneare dove avevo fatto il mio bel corso di perfezionamento d’inglese. Una specie di Manpower, ma statale, lassù sono più organizzati di noi, sono statalizzati i ciuccia sangue, e all’epoca bastava chiedere e di lavoro da schiavi ne trovavi a iosa. “Come ti chiami, Kunta Kinte. Come ti chiami Kunta Kinte. Come ti chiami, Toby….”. Non sapevo ancora niente.

All’employment agency ho chiesto che mi trovassero un posto a Londra. Me l’hanno trovato, nella zone six, il girone dell’inferno più lontano dal centro di Londra, più periferico dell’orbita di Saturno rispetto al pianeta terra, più lontano di Begato da Genova. Di posti di merda in vita mia ne ho visti, ma una schifezza come Watford non so se l’ho mai incocciata, nemmeno per caso, nemmeno quando per sbaglio ero a Vittuone, un posto non so dove ficcato nell’hinterland milanese, dovevo tornare in centro e ho visto di tutto. Mi ero perso, in macchina. Era notte, ho visto più donne battere quella notte sulla camionale che in tutta la mia vita, e di troie ne ho viste in vita mia.

Era il 1996, un anno anonimo e vivevo a Watford, anzi ci sopravvivevo. Passavo le serate in questa discoteca, si chiamava Coloseum, con il figlio del padrone di casa, dove stavo in una stanza ammobiliata con la moquette blu. Una stanza dove gli lasciavo la metà dello stipendio che mi dava puntuale ogni mese Ken Hill, il mio capo al capannone delle videocassette in inglese. Era un magazzino discretamente grande, stipato di videocassette, per lo più porno. Conoscevo a menadito tutto il catalogo, vendevamo anche cd. I primi tempi, fortuna del principiante, avevo trovato molti contatti con nuovi clienti. Avevo venduto un centinaio di videocassette degli X Files al circolo di appassionati di X Files di Parigi. Parlavo al telefono con un certo Michel, che mi chiedeva paccate di puntate di X Files, gliele spedivamo maggiorate di prezzo. Ken Hill era contento, con quel chiodo sempre addosso, non se lo toglieva mai, manco per andare a dormire, perché aveva un sofà nel suo ufficietto lurido, ricavato con una lamiera divisoria fra il magazzino e il nostro ufficio. Portava i capelli lunghi, fino alle spalle, avrà avuto sui 45 anni, completamente calvo sulla nuca e sulla testa. Si vede che aveva l’alopecia, ma non ne sono sicuro, non ho mai cercato sul vocabolario come si dice alopecia in inglese. Sembrava uno dei Kiss con l’alopecia, anzi era il ritratto di Mick Jagger con l’alopecia.

In ufficio avevo fatto amicizia con Nat, un ragazzo sui vent’anni, capelli biondi lunghi, coda di cavallo, sorriso aperto. Era lui il magazziniere, il muletto lo portava come un dio, ci fumavamo sempre qualche Benson, rideva e a volte si presentava con un hangover del giorno dopo da far raccapricciare Ken Hill. Il dopo sbornia di quel ragazzo faceva paura, gli venivano dei brufoli alcolici che sembrava un butterato. Caricava bancali su bancali, vendevamo tantissimo ai supermarket, soprattutto al Tesco, la Standa inglese. Il lavoro più massacrante erano le etichettature, con la macchina etichettatrice, quando per grossi ordinativi passavamo le ore a etichettare, al freddo, lì nel capannone industriale.
Gran numero le cinquecento cassette che sono riuscito a piazzare in Austria, cinquecento cassette di Trainspotting, che il ’96 era l’anno di Trainspotting.

C’erano tre segretarie che lavoravano nella stanza con me. Mi odiavano. Parlavano un inglese talmente cockney, che non lo capivi nemmeno se ti compravi un dizionario cockney genovese. Una, la più acida, si chiamava Marion, una figlia della brughiera con la sua Ford Escort, mi prendeva per il culo apertamente mi diceva: “Get a life, get a life”, che vuol dire fatti una vita. Per questo quel giorno mi licenziavo per farmi una vita, perché lì, in quel buco di culo del mondo, di vita per me non ce n’era.

Un’altra delle segretarie, una caccara da competizione con le unghie rosse lunghissime, il rossetto fucsia alle otto di mattina e un profumo ributtante che nela nebbia dela brughiera l’avresti sentita a duecento metri di distanza, mangiava sempre quei luridi tramezzini inglesi, pieni di maionese, con le patatine al wineger.

Io ci bevevo su una birra, alle 11.30 di ogni santo giorno. Loro gestivano il database degli ordini. Alle 17.30 schizzavo via come un tappo di spumante, dietrofront nella brughiera fino a casa, era buio e non pensavo nemmeno più camminando nella brughiera non guardavo nemmeno se calpestavo la merda ghiacciata, tanto porta fortuna.

Le serate a Watford le passavo al Coloseum. Ci andavo con questo figlio del padrone di casa, un uomo sui cinquant’anni, separato e redundant che vuol dire cassintegrato. Il suo unico asset era la sua macchina, la lavava tre volte la settimana perché con la sua macchina ci lavorava, andava ogni tanto a ritirare qualche arabo in visita nella City all’aeroporto di Heathrow.

Le serate al Coloseum erano sempre uguali. Il figlio del padrone di casa si chiamava Rick, spero per lui che sia morto. Sarebbe meglio per lui non essere più in vita, lo dico per lui. Il figlio del padrone di casa di lavoro faceva quello che lancia il piattello, in un tiro al piattello. Una volta me l’ha spiegato come funzionava il suo lavoro. Ogni giorno, anche con la neve, andava al tiro al piattello, vicino a Watford. Si piazzava di fianco alla macchina automatica del tiro al piattello e quando il tiratore gridava “Pull”, lui premeva il pulsante e lanciava il piattello. Fra le sue altre mansioni, c’era la raccolta dei frantumi dei piattelli colpiti, la ricarica della macchina sputa piattelli, l’oliatura della macchina ecc. Si beccava sempre il raffreddore per il freddo del tiro al piattello e pisciava sempre fuori della tazza, impregnando la moquette blu dell’appartamento – c’era la moquette pure nel cesso – del suo piscio pieno di birra di seconda categoria.

Al Coloseum era un disastro. Portava occhiali spessi due centimetri, mi sono sempre domandato come facesse a fare il suo lavoro. Per raccogliere i frantumi di un piattello devi avere una buona vista. Ma non si lamentava. Non aveva mai scopato in vita sua, aveva venticinque anni, e seriamente gli auguro di essere già morto.

Al Coloseum l’atmosfera era da bolgia dantesca, il più sano della combriccola si era bevuto tre litri di birra in un qualsiasi martedì sera di novembre, buttandoci giù qualche ecstasy rosa, appena entrati, i pusher erano neri e le pillole rosa, con una fragolina sopra. Strawberry le chiamavano. Per terra al Coloseum c’era uno strato di alcol e sudore liquefatto e intriso di cicche di sigaretta, nero, sul pavimento plastificato e scivoloso. Il fetore di ascelle rancide era brutale, da chiamare il 113 in interurbana. Una volta, l’unica, mi sono fatto un’avventrice, una con la quinta, un vestito cortissimo e attilatissimo, bianco e nero come il manto di una mucca, e due zeppe alte cinquanta centimetri. Sembrava una drag queen, per fortuna la musica era talmente alta che non ho capito il suo nome. Sarà per sempre la mucca Carolina.

Per lo più, con Rick, ci sfondavamo di birre e passavamo dal fish and chips oppure dall’indiano, per un tandoori. Più raramente dal pizzaiolo che si spacciava per italiano. Ma se va bene era kosovaro, perché quando tentavo di scambiarci quattro parole con quel pizzaiolo di Watford non rispondeva mai. Se quello era italiano, allora io parlo swahili.

Quel giorno mi sono licenziato, mi hanno regalato una cassetta di Trainspotting per ricordo, ho deciso di passare qualche tempo a Londra, per sputtanarmi i pochi soldi che mi restavano in saccoccia. Ho salutato Ken Hill e i miei deliziosi colleghi, siamo andati a festeggiare al pub, ma prima di partire mi è capitata una delle cose più allucinanti della mia vita. Che a rileggerla è come una profezia sulla mia vita lavorativa.

Torno a casa, nella casa del redundant e del figlio che faceva di lavoro il tiratore al piattello. Sono le tre di notte, è marzo. Fa freddo. Mi tasto nelle tasche e scopro che ho perso le chiavi di casa. Non c’è nessuno, quella notte i due, padre e figlio, sono fuori, un weekend a pescare. Cos’altro potrebbero fare insieme, se non pescare. Non conosco nessuno in quel posto di merda dal quale il giorno dopo voglio scappare. Passo la notte camminando per non congelarmi, camminando in tondo davanti a quelle villette a schiera dei suburbi zone six di Londra. Bestemmio come non mai in vita mia. Le poche monetine che ho in tasca le uso per scaldarmi nel cesso chimico che si trova all’angolo sud dell’agglomerato urbano.

Un cesso che non scorderò mai. Mettevi la monetina da dieci cents. Si aprivano le porte. Entravi. Le porte si chiudevano automaticamente. Eri chiuso dentro, ermeticamente, con una luce al neon bianca o meglio trasparente. Dopo dieci minuti, se non aprivi tua sponte, le porte si riaprivano automaticamente ed eri costretto a uscire. Una voce metallica ti esortava ad uscire: “Exit, please, automatic washing in a few seconds”. Io uscivo. Il cesso chimico si auto lavava con una doccia all’ammoniaca. Aspettavo che l’operazione di auto pulizia si completasse, pescavo le ultime monetine e rientravo. Ho ripetuto l’operazione una decina di volte, ero stato fortunato e mi ritrovavo diverse monetine in tasca.

Nel cesso almeno ci stavo caldo, fuori c’era freddissimo e io indossavo una semplice giacchetta. Ho visto l’alba arrivare così, entrando e uscendo da un cesso automatico, l’ultima volta che sono entrato non ho rispettato l’ordine di uscire intimatami dal washing automatico e mi sono bevuto tanta di quell’acqua all’ammoniaca, in quel cesso di Watford, al buio perché le luci si spegnevano anche loro, che quando alle sette e trentacinque una signora ha infilato dal di fuori una dieci cents e mi ha visto uscire di corsa, fradicio e puzzolente che sembravo una macchina che esce dalle spazzole dell’autolavaggio, ha urlato “oh, my god, these fucking junks are every where” (“oddio, questi cazzo di drogati sono proprio dappertutto”).

Leggi tutto

02 maggio 2006

E’ morta sua madre e mi manda due mail

E’ appena morta sua madre, mi chiama per lasciarmi in consegna tre pezzi da fare, tre pezzi aperti che devo chiudere per domani. Non si scompone, mi chiama alla sua postazione, mi dice semplicemente “è morta mia madre, devi fare questi pezzi, dovevo farli io ma adesso li devi fare tu”.

E’ la mia capa, sua madre finalmente è morta, era malata da tempo, di tumore, mezza faccia gliela avevano già asportata, un tumore alla mandibola. Sono mesi che ci va tutti i weekend, Roma – Firenze e ritorno, in treno, a trovare la madre già senza faccia. Adesso è morta. Me l’ha detto come se stesse parlando di noccioline, di una multa, delle previsioni del tempo (brutto). Però era seria e la mandibola la serrava. Però non lo vedevi dalla faccia che le era appena morta la madre.

Che la madre è morta l’avevo scoperto tre minuti prima. Lei, la mia capa al giornale, stava parlando al cellulare con sua figlia, avrà tredici anni le stava dicendo “vado a Firenze, la nonna è morta, sono cose che succedono, fanno parte della vita, fai i compiti”.

La mia capa poi ha messo giù il cellulare, mi ha chiamato, “Paolo, vieni qua”. non mi chiama mai di là, alla sua scrivania, di solito viene lei di qua da me. Mi apre internet davanti e mi dice “fai sti tre pezzi, devo andare a Firenze”. Mi chino sulla sua scrivania di fianco a lei, non dico niente su sua madre, le dico solo cosa deve fare per mandarmi gli allegati, non li trovava sul desktop, sul suo desktop. Eppure gli allegati sono lì, come sempre, sul desktop.

Ma non li vedeva, ci passava sopra col mouse senza fermarsi. Le ho detto “fermati lì, mandami una mail, allega quei due pezzi lì, dai li vedi. Fermati. Invia. Non ti preoccupare, li faccio io i due soppalchi e i libri, le foto le cerco io, non ti preoccupare”. Poi, preme invia, mi manda la mail con gli allegati, sono già di qua nella mia stanza, schiaccio invia e ricevi, le vedo le mail che sono arrivate dalla mia capa, la sento che si alza e dice “vado a Firenze, chiudete voi il giornale”.

Nessuno apre bocca, nemmeno il caporedattore, nemmeno il grafico, siamo soltanto in tre, intorno al suo pc, a dirle come si fa a mandare una mail con l’allegato, si mette la giacca, raccoglie la borsa e va alla stazione.

Leggi tutto